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8 Ottobre 2009 | Racconti d'autore

Strada Provinciale Tre

di Simona Vinci, Einaudi, 2007.
Terza puntata

A cura di Claudio Bacilieri. Lettura di Mascia Foschi.

8 ottobre 2009

In tempi come i nostri di crisi economica, di degrado ambientale e di mutazione antropologica del “paesaggio umano”, il libro di Simona Vinci che vi proponiamo è un pugno nello stomaco che ci aiuta ad affrontare le nuove realtà. C’è una frase molto illuminante: “Nessuno si vergogna più di essere ignorante, maleducato, cattivo, di essere mediocre, stupido, di essere crudele, incapace di pietà. Nessuna di queste cose fa vergognare. Solo essere poveri. La povertà è la cosa peggiore che possa capitarti”. L’unico metro per misurare un essere umano sono i suoi soldi, da quelli consegue tutto il resto. Come la storia che la Vinci racconta in questo bellissimo romanzo.

C’è una donna che corre lungo la Strada Provinciale 3 che collega Modena a Ravenna. Sola, con un zainetto sulle spalle, calpesta “l’asfalto crepato e ruvido, pieno di mozziconi di sigarette  preservativi, piume d’uccello, chiodi, bulloni”; ai bordi della strada, le fabbriche e i camion che sfrecciano feroci. Una donna che fugge e che, dentro di sé, deve trovare ragione della sua fuga. Il fuori di sé è altrettanta malattia. Gas, immondizia, macchine, TIR. Luoghi inquinati. Un paesaggio scompaginato e desolante dove Vera, la protagonista, incontra altrettanta gente ‘inquinata’, ammalata di spavento e di solitudine, di indifferenza. L’anziano Mario, in pensione, che aggiusta vecchie radio, la donna al semaforo che attende le monete, il camionista ucraino Dimà, unico sopravvissuto a un incendio  familiare voluto dalla madre, nel quale sono morte le sue sorelle. I tre personaggi si ritroveranno insieme nella casa del vecchio Mario, uniti, pur nella diversità, da un destino comune: sono  persone  sconfitte, povere, sole,  sono i nuovi “ vinti” di una società che non ha tempo, né voglia, di badare a chi non è dentro il gioco del successo e del denaro. 

Simona Vinci è nata a Milano nel 1970. Vive a Budrio, in provincia di Bologna. Laureata in Letteratura Italiana Contemporanea all’Università di Bologna con una tesi intitolata Una scrittura del paesaggio. Il suo primo romanzo, Dei bambini non si sa niente (Einaudi – Stile libero, 1997) ha suscitato diverse polemiche, ottenendo un grande successo di pubblico e di critica ed è stato tradotto in quindici paesi, tra i quali gli Stati Uniti, il Giappone e la Cina. Sempre per Einaudi sono usciti la raccolta di racconti In tutti i sensi come l’amore (Stile libero, 1999) e i romanzi Come prima delle madri (Supercoralli, 2003), Brother and Sister (Stile libero, 2004) e Stanza 411 (Stile libero/Big, 2006). Nel 2007 ha pubblicato Rovina, nel 2008 Nel bianco e, infine, Suino pesante padano nella raccolta di racconti gialli Il gusto del delitto, Leonardo Publishing.

Strada Provinciale 3

Era appena cominciato ottobre, avevo questo costume rosso fiammante, nuotavo nella piscina rotonda di un albergo in una località termale. Avevo appena saputo dei bambini e non avevo voglia di dirlo a nessuno, nemmeno al padre. Godermi questa sensazione di essere soli, io e loro. Di essere l’unica al mondo a sapere cosa mi stava suc­cedendo, almeno per qualche giorno. Volevo stare in un cerchio perfetto, in silenzio, ad ascoltare, non so se riesco a spiegarmi, se è una cosa che si può capire, da fuori.

Ma adesso? Adesso loro dove è?
Ha ripetuto Dimà, spegnendo il mozzicone per terra e voltando la testa verso di lei. Vera si è alzata, è uscita dal­la porta, fuori si è levata una brezza leggera che passa co­me una mano sopra i campi. Si stringe le braccia attorno, chiude gli occhi un istante. Cerca di trovare una parola, una qualunque, per cominciare.

… una notte mi sono svegliata, era proprio in mezzo al­la notte, e tre mesi è durata questa cosa, l’ora piú o meno sempre la stessa, le tre e tre quarti-quattro, dentro quel quarto d’ora, mai prima e mai dopo, un punto profondissimo della notte, niente a che tare con la sera, niente a che fare con l’alba, un punto di buio totale, silenzio assoluto, terri­ficante. Ci mettevo due o tre minuti prima di decidermi ad alzarmi e quando lo facevo, lo facevo con lentezza, scivo­lando leggera fuori dalle coperte, perché lui non si sveglias­se.

Il mio cuore batteva violento, avevo freddo, freddo al­le piante dei piedi nudi sulle mattonelle del pavimento, fred­do alle mani, al petto, alle ginocchia, un freddo cattivo che non smetteva mai di mordere neanche dopo che avevo infilato una felpa e un paio di calze di lana, doveva essere feb­braio, sí proprio il terribile febbraio con le giornate gelide, gli spifferi e la cappa bianca del suo cielo tutto uguale, ma ormai, le stagioni avevano smesso di interessarmi, avevo la sensazione di conoscere in anticipo ogni loro minima varia­zione, sapevo che verso la metà di ottobre cominciano i pri­mi veri freddi, le notti con la temperatura che scende anche di dieci gradi, che a novembre arriva la nebbia, che a gen­naio il freddo aumenta ancora, che febbraio è bianco e che un giorno improvviso di marzo, poco prima della metà del mese, arriva di colpo una giornata primaverile e sbocciano i tulipani, e una volta, tutte queste cose mi emozionavano, mi interessavano, incredibile a pensarci adesso, come cura­vo le piante sui davanzali delle finestre, e le ritiravo quan­do cominciava a far freddo, piantavo i bulbi nelle cassette e sapevo sempre quali erano le verdure di stagione, prepa­ravo conserve di frutta per l’inverno, stipavo la legna per il caminetto in tutti gli angoli liberi della casa quando stava per arrivare l’autunno, facevo il cambio dei vestiti negli ar­madi, riponevo ogni cosa dentro un sacchetto di plastica con la sua pallina di canfora o il bigliettino di carta profumata.

Una volta… quando?… tre anni fa… due anni fa… l’anno scorso… lo ero come l’almanacco di Frate Indovino, ogni giorno un consiglio e un consiglio per ogni cosa, sapevo i no­mi di tutto, lo scibile umano rovesciato nella mia testa, la mia testa come una brocca: pota, innaffia, pulisci, raschia, le fasi lunari, l’aceto che smacchia, la malva per il mal di denti, il basilico per i gas intestinali, lima, cuci, rammenda, ricordati le etichette sui vasi di marmellata, la data sui sur­gelati, lo spicchio di limone che assorbe gli odori dal frigo, poi è arrivato febbraio, e io sono scivolata, senza rumore né niente, scivolata in un buco della notte, alle tre e tre quar­ti, l’ora del lupo la chiamano, una sigaretta accesa e il vetro di una finestra socchiuso sul cielo nero, la mia felpa infel­trita stretta attorno al collo, un gatto che mi girava intorno alle caviglie nude.

Ho spalancato la bocca ma non è uscito niente, neanche un suono piccolissimo, niente, e ho visto, sí, proprio visto, che tutto quanto mi aveva abbandonata e non ha piú smesso di abbandonarmi… tutto mi abbandona continuamente, ho pensato… le persone, gli animali, i gior­ni e le ore, le foglie sugli alberi, i programmi alla televisio­ne, i maglioni che si sfaldano dentro gli armadi, l’intonaco che cede e si sbriciola per terra… tutto… senza scampo… e anche io mi abbandonavo e non ho più smesso, come un grumo di terra che cade giú da una scogliera e si spacca si sbriciola si frantuma. E sentivo un cucchiaio che mi scava­va dentro. Ero depressa, dicevano, stressata, dicevano, troppo lavoro dicevano ancora, ci vuole il magnesio chelato, dicevano, ci vogliono le vitamine, le gocce di Lexotan, di En, di Xanax, le pasticche di Tavor, e io da brava bambina diluivo tutto in mezzo bicchiere d’acqua, contavo per bene, con la paura di sbagliare, cinque gocce, poi dieci, mezza pasticca ruvida sulla lingua, una intera, ho fatto tutto quello che hanno voluto, ma quel cucchiaio continuava a raschiare, a scavare, svuotare.

Vera smette di parlare, respira, gli occhi chiusi.
Un secondo. Ho pensato che se restavo dentro quella casa un secondo di píú l’avrei ucciso. Non che avrei potuto farlo. Che l’avrei fatto. Ne ero certa, come si è certi di stare respirando. Avrei afferrato un oggetto – ecco come si sarebbero svolti gli eventi – un oggetto qualsiasi: una bottiglia, un coltello, un portacenere, un sasso, qualsiasi cosa, la prima che mi fosse capitata a portata di mano, e gli avrei sfondato la testa. Avrei continuato a colpire finché non fossi stata certa che era morto. Poi sarei rimasta lí, impassibile, a guardare il sangue e la materia cerebrale colargli sulla faccia, inzuppare il divano a fiori gialli e rossi del salotto, il mio salotto, in quella casa che era sí la mia casa, ma che era come se non l’avessi mai vista prima. Non l’ho fatto, naturalmente. Non ho fatto niente. Ho pensato che non potevo fare niente. Non ero capace di farlo. Non che non volessi. Non ci riuscivo, è diverso.

E invece della rabbia, ho provato prima una sensazione di tristezza, poi anche la tristezza si è come dissolta, mi è letteralmente scivolata di dosso. E al suo posto non è arrivato nient’altro. Allora ho preso le chiavi della macchina dal cestino sul tavolo accanto alla porta. Con molta calma mi sono infilata la giacca a vento, l’ho abbottonata fino alla gola, un automatico per volta, poi ho afferrato lo zainetto e sono uscita. Lui era seduto sul divano davanti alla televisione, non so cosa stesse guardando, non riesco a ricordarlo in nessun modo, anche se so di saperlo, anche se so di aver udito una voce femminile concitata – senza pause senza respiro – lui, aveva l’espressione assente, completamente rilassata, le palpebre abbassate, lo sguardo distante, come se io nemmeno esistessi, come se non fossi lí, a un metro di distanza, che mi muovevo, lo guardavo, respiravo la sua stessa aria. Mi sono tirata dietro la porta.

Fuori il cielo era nero, senza una sola stella. Ho pensato ai bambini che dormivano al piano di sopra nei loro lettini bianchi e blu, sotto i piumini gemelli con disegnate le foche. Ho pensato alle loro piccole bocche dischiuse nel sonno che facevano odore di latte e biscotti, alle dita aggrappate al bordo delle lenzuola, alla lampada fatta a forma di spicchio di luna che gli ho comprato all’Ikea e che illumina di un tenue azzurro la stanza. Gliel’ho comprata perché avevano paura del buio e io non volevo costringerli a violentare le loro paure prima del tempo, volevo che avessero lo spazio per avere paura, che potessero permettersi di essere piccoli.

Ho aperto la portiera della macchina, ho messo in moto. Il motore è partito con un sibilo leggero, poi si è zittito. Ho fatto retromarcia, sono uscita dal vialetto del garage condominiale e ho svoltato a destra, ho attraversato il paese. E mi sono diretta verso la Provinciale. Non lo sapevo dove stavo andando, cosa stavo facendo, sapevo solo che dovevo calmare la testa, farle prendere aria. Ho guidato intorno al paese, sullo stradone fitto di cartelloni pubblicitari, tra i condomini di mattoni rossi, i supermercati, le insegne al neon dei negozi chiusi, mi sembrava di essere rimasta l’unico abitante vivo della terra, come fosse accaduta una catastrofe di qualche tipo, era tutto lí, le strade, le case, le insegne pubblicitarie, i capannoni, tutto, solo che non c’era piú niente di vivo: né uomini né animali né piante neanche un filo d’erba, una formica.
Solo il cemento, le luci, le lamiere ondulate, la plastica.

Poi sono tornata. Era l’alba. Lui dormiva e anche i bambini continuavano a dormire. Era andato a stendersi nella stanza insieme a loro, ogni tanto lo faceva e le volte che mi capitava di sorprenderlo cosí, rannicchiato di fianco a loro, il pigiama grigio infeltrito e i piedi nudi, provavo una sensazione di fastidio, come se mi stesse tradendo. La sua debolezza era un tradimento, un affronto insopportabile. Verso di me, e verso di loro, i bambini. Si faceva piccolo e anche se le sue ossa grandi non poteva nasconderle, faceva di tutto per ridursi, per ritornare bambino, era come se mi chiedesse di fare da madre anche a lui, scivolava nell’infanzia e domandava a me di prendermi la responsabilità di tutto quanto. Lo guardavo e mi sentivo vecchia. Lo guardavo e pensavo: ecco, io non potrò mai piú permettermi di cambiare idea.

E anche quella volta ho provato la stessa cosa. Allora ho distolto lo sguardo, fatto il giro della casa, soffermandomi a osservare ogni singolo oggetto, stanza per stanza. Ho cominciato dal soggiorno, dal tavolo di legno scheggiato dove avevo insegnato ai miei figli a scarabocchiare su un foglio di cartoncino le lettere dei loro nomi, dove avevo sbucciato le mele per decine di torte, studiato progetti, disegnato piante, dove un paio di volte, in occasioni speciali, del tutto straordinarie, avevo anche scopato con lui.
Ci ho passato una mano sopra.
E dì fianco.
Ho sentito scivolarmi in mezzo al palmo il pomello del cassetto centrale.
L’ho tirato.

Dentro: una tovaglia sporca, buste, qualche mozzicone di matita, mollette da bucato, il mon­cherino di una candela di compleanno bianca e azzurra con appiccicato un numero 4 di plastica, il coltello del pane, un altro coltello più grande, che usavo per levare la cotica del prosciutto, per affettare le melanzane, i cocomeri, i meloni, per rifilare il bordo dei sandwich che i bambini mi chiedevano la domenica pomeriggio, l’unico giorno della settimana in cui ero io a preparargli la merenda.
I polpastrelli hanno accarezzato la lama, leggerissimi. Avanti e indietro, senza la più piccola pressione.
Quasi sospesi.

I miei passi sulle scale, i piedi nudi contro il legno ruvido, i granelli di polvere che stridono, il fruscio dei pan­taloni che sfregano contro la pelle. Il respiro che si ferma, riparte, si ferma ancora. La bocca secca, la lingua incollata al palato, ai denti.

È tutto. Non mi ricordo altro. Non posso ricordare altro. Dentro la casa, la mia casa, il silenzio. Impossibile dir­lo, spiegarlo. E quel mare infinito di sangue che scivola e schizza e spruzza e si allarga e gocciola e si spande da tut­te le parti che allaga, inonda e travolge e tiene sotto e mi spinge in basso e lontano. Lontano. Lontanissimo.
Per sempre.

La luna è alta, una moneta d’alluminio, rosicchiata. Dimà ha gli occhi chiusi, la testa piegata su una spalla, le braccia strette attorno alle ginocchia, i muscoli cosí con­tratti che tutto il suo corpo ha la consistenza della pietra. Vera sta seduta accanto a lui, immobile, la fronte posata contro il suo braccio. Pensa a una casa vuota. Ai gomito­li di polvere che rotolano da sotto i mobili spostati per la prima volta dopo anni. I segni dei quadri contro le pareti nude. Abissi spalancati nei muri, ombre di una vita che ha lasciato le impronte del suo passaggio e poi è sparita.Non c’è più niente, nemmeno un’eco. Il passato finisce, è questa la verità. Lontano. Lontanissimo. Per sempre. La sua vita l’ha espulsa. Non c’è un ritorno possibile.

Apre gli occhi, guarda il viso di Dimà: occhi chiusi, lab­bra serrate, guance contratte.
Tu hai mai bruciato tanta carta tutta assieme? Lo hai mai visto un fuoco di fogli? Immagina una grossa risma di carta bianca che si incendia, prima gli angoli, gli angoli che si arricciano, sfrigolano, diventano rossi, si polverizzano, e poi il nucleo, la parte pesante… e alla fine, alla fine non resta niente, solo la cenere.
Perché tu parla di questa cosa ? Cosa c’entra carta ?

Vera strofina la testa contro il braccio di Dimà e resta zitta. Ma lui si alza di scatto, allontanandola da sé con un gesto violento, si mette a correre, via, dentro il campo. Poi si accascia a terra, carponi. Lei resta immobile a guardare la sua sagoma da lontano: piccola, contratta. Un pugno chiuso sbattuto sulla terra nuda. E sopra, il cielo che schia­risce, un velo dopo l’altro. Tra poco dovranno muoversi, trovare un altro posto in cui nascondersi, un posto piú si­curo, ma Vera non riesce ad immaginare niente che somi­gli a un posto sicuro. Si lascia andare per terra, le braccia intorno alla testa, nel tentativo di annullare luce e suoni.
Gli uccelli si stanno svegliando, l’alba è vicina.

Brano corrente

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