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22 Gennaio 2009 | Racconti d'autore

Tracce del tuo passaggio

di Grazia Verasani, editore Fernandel, Ravenna 2002. Parte seconda: Tutto bene.

A cura di Claudio Bacilieri. Lettura di Mascia Foschi.

22 gennaio 2009

Nata nel 1964 a Bologna, la città in cui vive, Grazia Verasani si diploma attrice all’Accademia d’arte drammatica a vent’anni. Dopo varie esperienze teatrali, conosce Tonino Guerra che la incita a scrivere. Pubblica i suoi primi racconti grazie al poeta Roberto Roversi e poi a Gianni Celati che la ospita sul quotidiano “Il Manifesto” nella rubrica “Narratori delle Riserve”. Parallelamente lavora come speaker e doppiatrice e come corista, canta e suona il pianoforte e nel ’96 pubblica il suo primo cd “Nata mai”; l’anno seguente col suo gruppo fa da supporter ai Jethro Tull nella loro tournée italiana. Lavora poi come autrice di testi per cantanti emergenti (Fede Poggiolini, chitarrista di Ligabue), collabora con l’etichetta Irma Records e nel ’99 pubblica il suo primo romanzo “L’amore è un bar sempre aperto” per la casa editrice Fernandel. Nel 2001, sempre per Fernandel, esce il suo secondo romanzo “Fuck me mon amour” e nel 2002 la raccolta di racconti “Tracce del tuo passaggio”, dalla quale abbiamo preso le letture che vi proponiamo.

Nel 2002 al Teatro Colosseo di Roma viene rappresentata la sua pièce teatrale “From Medea” e nel 2004 esce per Mondadori il romanzo “Quo vadis, baby?” da cui il regista Gabriele Salvatores ha tratto un film vincitore di premi importanti. Dal 2006 Grazia Verasani ha una rubrica fissa sulle pagine culturali di Repubblica Bologna. Sempre nel 2006 esce da Mondatori il romanzo noir “Velocemente da nessuna parte”, tradotto in varie lingue.

Nel 2008 “From Medea” viene prodotta dal teatro Stabile di Bologna e rappresentata con successo all’Arena del Sole. In maggio esce per Feltrinelli il romanzo “Tutto il freddo che ho preso”.  

Tutto bene
(tratto da “Tracce del tuo passaggio”, Fernadel, Ravenna 2002)

Ho quarantasei anni e un figlio di diciassette. Marco, mio figlio, è un bel ragazzo bruno e intimidatorio. Della sua vita non mi parla granché e nella sua stanza non fa entrare nemmeno la donna di servizio. Di notte passa con gli amici da un locale all’altro, poi torna a casa come un sonnambulo, con le palpebre pesanti e i ve­stiti che puzzano di marijuana. I vincoli di sangue ci fanno vivere sotto lo stesso tetto ma, a parte questo, con lui mi sento una seduta al tavolino di un bar che è attratta da qualcosa che vede passare oltre la vetrata. Passa veloce, lui, con le sue gambe lunghe e le spalle ingobbite. Le sue passioni vanno a corrente alternata, un giorno è il rock e un altro la pittura.

Un attimo fa mi ha chiesto quando troverà la donna della sua vita. Mi sono messa a cantare De Andrè: «Sarà la prima che incontri per strada… ». Lui mi ha guardata di sbieco, avvicinandosi al ripiano di metallo che sorregge un lettore cd e un paio di casse. «Meglio i Placebo», mi ha detto. Mio figlio non sa che da qualche mese pago un uomo.

 

Alle nove di sera parcheggio la macchina sotto un palazzo dai mattoni rossi. Scendo e le spalle del cappotto si puntellano di fiocchi di neve. La tempera­tura è sotto zero, gli occhi mi lacrimano per il freddo e d’istinto mi soffio sulle mani. Suono e salgo due rampe di scale. La porta è aperta. Entro in un bilocale dalle pareti verniciate di verde mela; le veneziane d’alluminio sono alzate e nella penombra intravvedo Carlo, seduto sul bracciolo di una poltrona, che mi sorride dondo­lando un piede.
Una pianta in vaso pende dal soffitto proprio sopra di lui e sul berretto di lana calato fin sulle orecchie. Ha trent’anni, denti sporgenti e sopracciglia spesse; anni di palestra gli hanno sviluppato i muscoli.
Mi tolgo il cappotto e resto con una camicetta rosa di satin e una gonna a tubo.
«Ero indecisa tra un look alla Suzie Wong e uno da servetta», gli dico. Ride e mi attraversa da capo a piedi con un’occhiata elettrica, da professionista.
Mi siedo su una seggiola pieghevole e mi verso da bere, lui si alza, viene verso di me e mi trascina lungo il corridoio. In cucina, mi appoggia di peso sull’acquaio carico di piatti e di stoviglie sporche. Ha un’aria da macho stronzo, ma in realtà è solo un uomo d’azione.
Ho le labbra sul bicipite del suo braccio destro e mi dimentico che sto scopando con un aspirante attore che fa lo gigolò. Si muove bene, dentro di me. Sa fare il suo lavoro. Forse come attore è un cane, ma come amante è notevole.
Tra poco avrò i lineamenti smussati da un piacere stanco e sarò l’ex reginetta di bellezza la cui bellezza è soltanto un ricordo. Sono già lontana da tutto, lontana dalla vita che ho. Questa è un’altra, e che sia squallido comprarla non mi importa. A mezzanotte rientrerò a casa come Cenerentola e busserò alla porta di mio figlio. Lui sarà ancora fuori o avrà le cuffie e non mi sentirà; oppure sarà in cucina a fare uno spuntino con una delle sue ragazzine, perché si innamora e si disin­namora nel giro di un minuto, mio figlio, come facevo io alla sua età.
Carlo mi porge un asciugamano. Grazie. Prego. Ecco come intendo l’amore a quarantasei anni, dopo un divorzio e due convivenze. La disillusione dell’a­more è crudele. Ma questa cosa no. Questa cosa non ha cuore e non ha bile, questa cosa non ha orgoglio e non ha ambizione, questa cosa non ha opinioni né tavoli verdi su cui puntare, non ha un servizio di iden­tificazione delle chiamate in entrata, non fa la fila davanti al cinema e tronca ogni discussione. Questa cosa nasce e muore qui, con i soldi sul tavolo e le gomme da neve del ritorno.È bello sapere poco di noi. «Tutto bene?», mi chiede.
Mi infilo il cappotto, pronta alla partenza, e guardo le finestre rivestite di brina. «Sì, tutto bene».

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