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16 Giugno 2021 | Racconti d'autore

A Joyce, dalla Via Emilia

Testo tratto dal libro di Carlo Donati “Strada Nove. La Via Emilia e le sue curve” (volume primo, Ancona, affinità elettive + Cattedrale editori, 2020)

Vittorio Ferorelli

La strada che corre da Rimini a Piacenza è come un’enciclopedia: ogni metro parla di una storia, di un evento o di un personaggio memorabile. Lo sa bene il giornalista Carlo Donati, che ha diretto a lungo la pagina culturale del “Resto del Carlino”, e che ora, in due volumi, ha concentrato la vasta saga della Via Emilia. In occasione del “Bloomsday”, la giornata internazionale dedicata a James Joyce, eccovi le pagine in cui si narra del legame imprevedibile che unisce la Statale Nove al celebre scrittore irlandese. Ringraziamo per la lettura l’attore Faustino Stigliani.

Joyce a Oriolo dei Fichi

I primi ad arrivare furono due commercialisti di Forlì. Che cosa ci facevano alle otto di mattina ai piedi di un torrione bisognoso di restauri in cima a una collina deserta tra le tante colline deserte sopra Faenza? Stavano per fare ciò che altri stavano facendo a Dublino, nella lontana Irlanda: si preparavano a celebrare Bloomsday, festa sacra dei joyciani di tutto il mondo. Bloomsday è “il giorno di Bloom”, cioè Leopold Bloom, protagonista di Ulisse, tremendo capolavoro della letteratura del Novecento. La ricorrenza cade il 16 giugno perché il romanzo si svolge in un unico giorno, appunto un 16 giugno (del 1904). Mille e passa labirintiche pagine per raccontare diciotto ore attraverso la città, dalle 8 di mattina alle 2 di notte. Da molti anni ogni 16 giugno i joyciani vanno in pellegrinaggio per la Dublino di Ulisse, la Torre Martello, la spiaggia di Sandymount, il Bewley’s Oriental Café, l’Ormond Hotel, i luoghi dove i destini di Bloom, Dedalus, Molly, Mulligan e gli altri protagonisti creati da James Joyce si incontrano, si perdono e si ritrovano in questa Odissea metropolitana.
Anche sulla collina romagnola i destini tardarono un po’ a incontrarsi. I commercialisti-joyciani Vanni Mordenti e Gigi Scapicchio erano stati puntuali, al contrario di Leopold Bloom, cioè Sante Cavina, l’inventore di questo primo e forse unico Bloomsday italiano. Cavina, romagnolo di Terra del Sole, è stato un professore di filosofia e ha vissuto quasi sempre all’estero come addetto culturale presso le nostre ambasciate di Budapest, Praga e Vienna. Ha casa a Praga, una moglie slovacca e quattro figli, ma ogni tanto torna e si inventa qualcosa.
Cavina arrivò con venti minuti di ritardo, ma da romagnolo sosteneva di essere quaranta minuti in anticipo per via dell’ora legale. Da dove cominciare? Il programma era vago, Cavina con fidava nell’immaginazione di “artisti e poeti”, come dicevano i manifesti. Ma intanto quello che si apprestavano a celebrare si chiamava Bloom Day, Bloom’s Day, Bloomday o Bloomsday? Il dibattito si accese per un po’ ma non giunse a capo di niente.
Arrivarono quelli dell’Ortica, Davide Argnani e Claudia Bartalotti, il circolo culturale di Forlì che aveva organizzato la giornata. Intanto se n’erano andati i commercialisti. Joyce era Joyce, ma il 740 era il 740. Arrivò una comitiva, una quindicina di persone. Non c’entravano niente, erano maturi ex compagni di scuola che ogni anno facevano una rimpatriata. Intonarono Gli scariolanti e Bela burdela. Joyce si sarebbe commosso.
Arrivò anche un irlandese vero, Fiachra Stockman, e svelò un segreto. Il professor Cavina, che aveva scritto saggi su Wittgenstein e Svevo, stava traducendo Finnegans Wake in romagnolo. Ora, come è noto, se Ulisse è un libro impervio (Nora, la moglie di Joyce, non arrivò mai oltre pagina 27) Finnegans è scritto in un inglese indecifrabile anche per inglesi e irlandesi. Il professor Stockman sperava di capirlo leggendolo in romagnolo. Ma per quel giorno bastava Ulisse. Già, però dalla collina non si vedeva alcuna Dublino. Dove erano l’Ormond Hotel, il Davy Byrne’s pub, la spiaggia di Sandymount, il cimitero, la Torre Martello?
La torre sì, c’era, questa, sotto la quale avevano aspettato i commercialisti, la Torre di Oriolo dei Fichi. La mostrò il falegname Natale Servadei, che aveva le chiavi del parco e una falegnameria tramandata di padre in figlio da 140 anni. Dalla Torre Martello, dove comincia Ulisse, parte la prima bordata di Joyce contro la Chiesa cattolica (il romanzo in Irlanda è rimasto all’indice fino agli anni Sessanta). È la scena di Buck Mulligan che appare con una bacinella e una croce fatta con uno specchio e un rasoio. Dice: “Introibo ad altare Dei” e poi comincia a farsi la barba. Per stare in tema qualcuno raccontò che a Oriolo dei Fichi un certo frate Alberigo, della potente famiglia dei Manfredi signori di Faenza, invitò alcuni cugini che pretendevano una parte della signoria e li avvelenò con un sontuoso banchetto. Ma il falegname Servadei smentì con garbo.
Alla spicciolata arrivarono altri joyciani. Due in bicicletta, Urbano, ex ufficiale marconista della marina mercantile, assieme a Maurizio. Urbano era appena stato al Cimitero degli Inglesi dove, sulla tomba di un marconista della RAF caduto nella seconda guerra mondiale, aveva recitato una sua poesia intitolata Alla cappa.
Qualcuno si ricordò della spiaggia. Volendo ci sarebbe, disse. Non era Sandymount ma Pinarella, vicino a Cervia, dove possedeva una casa. Un salto si poteva fare. Un salto? Quaranta chilometri. O magari cinquanta. Chiacchiere e poi ancora chiacchiere. Nessuno aveva intenzione di salire sulla torre per interpretare Buck Mulligan. Nemmeno il professore. Prima di tutto perché c’era una scaletta pericolosa e poi lui non era Mulligan semmai Bloom. Va bene: allora che cosa fa Bloom nell’Ulisse? I ricordi furono pochi e confusi.
Gabriele Ricci da Predappio, il musicista ospite, aprì il suo repertorio. Cantò motivi classici anni Venti e Trenta, in ricordo dei due decenni parigini di Joyce. C’era anche un nastro con l’omaggio di Luciano Berio ma nessuno aveva portato un registratore. In compenso girava l’omaggio di John Huston, la cassetta del film The Dead.
Il sole del pomeriggio era ancora alto quando Igor ruppe gli indugi e annunciò che la cena era servita. Igor, come secondo nome faceva Iuri e come terzo Alexis, ma era il giovane cuoco faentino che aveva preparato il menù. Leopold Bloom in giro per Dublino mangia un tramezzino al gorgonzola, il pasticcio di rognone e beve Borgogna. Igor aveva cucinato i garganelli al rognone e un’insalata al gorgonzola. Non aveva il Borgogna, ma il Sangiovese si rivelò un adeguato sostituto.
Intanto si era fatta quasi mezzanotte. Si contarono i joyciani arrivati fin quassù: una sessantina. Successo clamoroso.
I sopravvissuti meritavano il celebre monologo di Molly. Cominciò Novella Casadei, avvocatessa e poetessa. Poi toccò a Vania Zattoni, insegnante d’inglese. Lessero in italiano. Infine Martina Olley, inglese di Canterbury, lesse in originale e si scusò di non saper rifare l’accento irlandese. Ma nessuno se n’era accorto.
Come è finito quel Bloomsday? Che Sante Cavina, a furor di popolo, dovette leggere l’incipit di Finnegans Wake in romagnolo. In italiano sarebbe pressappoco “La veglia di Finnegan”. Titolo in romagnolo: Fintentcussvegia.
Fine. A nessuno venne in mente di domandare dove erano i fichi a Oriolo dei Fichi.
Questa è la cronaca fedele di un avvenimento straordinario colpevolmente ignorato dal mondo, avvenuto in una data incerta, forse proprio il 16, di un probabile giugno in un anno imprecisato ma non troppo lontano. Temo che il Bloomsday romagnolo non sia più stato replicato. Resta una perla per i pochi che vi hanno partecipato e che potranno dire: io c’ero. Perché non deve sembrare una stravaganza romagnola celebrare Joyce. Alla fin fine, leggendolo nel modo giusto, l’Ulisse è ostico fino a un certo punto, pieno com’è di comizianti, bestemmiatori, belle cameriere, mogli da tenere a freno, tra osterie, bordelli e colossali bevute. Non è uno scenario familiare? E non è un paradosso dato che lungo la via Emilia faremo un altro incontro ancora più straordinario, con colui, emiliano stavolta, che veramente ha dedicato la vita a tradurre in italiano Finnegans Wake. E non per gioco, poiché è stato pubblicato dal più importante editore italiano e riconosciuto fin nei più lontani convegni delle James Joyce Society.

[…]

Joyce e il metalmeccanico

[…] Era qui [a Bologna], via Emilia Ponente 72, quartiere Santa Viola, dove adesso c’è un enorme supermercato. Si chiamava Riva Calzoni, o semplicemente Calzoni, una delle glorie della meccanica di precisione. Ma non è tanto la sua storia che ci interessa quanto quella di uno dei suoi travet, un talento, anzi, un vero genio per quanto incompreso e ignoto ai più.
Era il 14 giugno 1982 e a Dublino, nel centenario della nascita di James Joyce, si apriva l’ottavo simposio internazionale dedicato allo scrittore. Tra gli ospiti era atteso con grande curiosità un italiano, colui che aveva osato affrontare la traduzione di Finnegans Wake. Se Ulisse è ostico Finnegans è impenetrabile, un romanzo frutto di diciassette anni di lavoro e scritto in un quasi inglese ma che né gli inglesi né gli irlandesi riescono a comprendere.
Il traduttore italiano aveva in tasca il volume fresco di stampa con i primi quattro capitoli (cento pagine su seicento, con testo a fronte) appena pubblicati da un rinomato editore, vale a dire Mondadori. Però, c’era un però. Questo italiano, questo Luigi Schenoni spuntato dal nulla, non risultava essere né un professore,
né un filologo, né un anglista. Aveva il più smilzo curriculum dell’intera confraternita dei joyciani riuniti a Dublino: laurea in lingue e letterature straniere alla Bocconi di Milano, tesi sul poeta americano Hart Crane e una tesina su Dino Campana, di professione traduttore e interprete tecnico-commerciale.
Ed eccolo Schenoni, un uomo ancora giovane, piccolo di statura, viso rotondo, pochi capelli, barba punzecchiata di grigio, occhi chiari dietro capaci lenti. Con quell’aria mite e allegra da folletto delle saghe irlandesi attirava gli intervistatori. Ma letterariamente da dove veniva? La prima domanda era sempre la stessa. La risposta mandava in confusione l’interlocutore. Letterariamente? Da un’azienda metalmeccanica di Bologna dove traduceva in inglese, francese e spagnolo, i manuali di funzionamento di periscopi e timonerie per sommergibili, turbine idrauliche, paratoie per dighe e altre cosette simili. In fondo era un metalworker, aggiungeva con uno dei suoi sorrisi disarmanti. Nacque così la leggenda del metalmeccanico che stava decifrando l’enigma di Joyce.
Dopo l’improvvisa ribalta, la consacrazione fra i joyciani e gli applausi della critica, arrivarono persino buone vendite, addirittura ventimila copie. Un successo straordinario e imprevisto, occorre precisare, poiché anche l’italiano di Schenoni, per quanto ricco di felici soluzioni, non è una passeggiata. Poi cominciò un lungo silenzio. Dalla fabbrica si era dimesso per dedicarsi interamente a Joyce. Nessuno sapeva più niente. Per colpa della fatale attrazione verso la meravigliosa mostruosità di Finnegans, Schenoni poteva essere finito ovunque, catapultato sulla cattedra di qualche prestigiosa università americana oppure disperso in un qualche manicomio della Penisola. Più semplicemente invece, in attesa della pensione, aveva continuato a tradurre romanzi, letteratura più addomesticabile. Leggendo autori stranieri noi italiani non diamo alcuna importanza ai traduttori, e così quasi nessuno si accorse che tra gli anni Ottanta e Novanta il suo nome appariva qua e là sotto le firme di Le Carrè, Bukowski, Poe, Updike e altri.
Schenoni rispuntò a vent’anni dal trionfo di Dublino con un secondo volume, altri quattro capitoli di Finnegans. E finalmente lo rintracciai. Si era trasferito da tempo a Cecina verso il mare Tirreno per dimenticare certe disgrazie familiari e proseguire il suo match solitario con Joyce. Lo trovai in serena povertà, in un alloggio quasi francescano. Era arrivata la pensione, piccola, ma se la faceva bastare, perciò aveva abbandonato le sudate rendite delle traduzioni editoriali per concludere la battaglia contro il “caro mostro”. Nella vasta cucina che era insieme soggiorno e studio, fu una giornata indimenticabile. Stava già scrivendo il terzo volume ma aveva voglia di distrarsi e di chiacchierare e forse anche di rompere il silenzio perfetto che lo circondava. Mi sottopose uno spassoso riassunto di Finnegans Wake che gli sarebbe servito in autunno per attirare la curiosità degli studenti di una scuola che l’aveva invitato a parlare di Joyce. Titolo: “La veglia di Finnegan”. Ed ecco la trama: dodici ore in un’osteria di Dublino, dalle sei di sera alle sei di mattina, l’oste, sua moglie, i tre figli, due domestici e i clienti. I figli dell’oste giocano, fanno i compiti, vanno a letto. I genitori li sorvegliano, servono i clienti dell’osteria, poi vanno a letto anche loro. Dormono, sognano, si svegliano. Fine.
Nella cucina l’unico lusso era il computer di ultima generazione più una notevole rinfusa di vocabolari, grammatiche, guide di Dublino e saggi sulle lingue più misteriose. A metà romanzo Schenoni ne aveva già scoperte oltre cinquanta, tra vive e morte, note e ignote, dal samoiedo al bantu, dal khmer al samoano, un deposito culturale nel quale Joyce aveva pescato a piene mani le parole più assurde per reinventarne di nuove adatte alla costruzione del suo labirinto. Dalle famose e spaventose parole-valigia lunghe cento e più lettere, a quelle brevissime di appena tre o quattro caratteri. Quel giorno Schenoni si concesse anche il lusso di demolire il celebre “quark”, vocabolo trovato in Finnegans e adottato dalla fisica per indicare una particella subatomica. Implacabile nella sua severa timidezza, Schenoni commiserava colui che aveva battezzato una rilevante scoperta scientifica con quel termine tedesco che in realtà significa “sciocchezza” o perfino “ricotta”.
Poi cominciò a parlare della Calzoni. Vent’anni dopo esserne uscito confessò che, sì, in fondo qualche nostalgia stava affiorando. Vi era entrato nel 1959, quando ormai tutto funzionava a pieno regime, ma i ricordi della guerra e dei pesanti bombardamenti subiti fra il 1943 e il 1945 erano entrati nella mitologia aziendale. Gli erano rimasti impressi i racconti dei vecchi operai di quando le officine si erano riempite di ingegneri tedeschi per riconvertire la produzione e passare dalle forniture per l’esercito italiano ormai smantellato alle necessità belliche della Wehrmacht. Si favoleggiava di progetti speciali e di un laboratorio segreto dove si sperimentavano nuovi congegni di puntamento per le V1, le bombe volanti lanciate su Londra a partire dal 1944, e di una enorme vasca lunga venti metri e profonda quattro dove veniva studiato un nuovo sistema di sganciamento dei siluri per gli U-Boat. Doveva essere tutto vero perché, centrata ottantasette volte da bombe ad alto potenziale, la fabbrica fu quasi rasa al suolo dagli aerei alleati.
Come fosse arrivato a Finnegans, partendo da un’azienda metalmeccanica, a Schenoni sembrava un percorso naturale. Ricordò che al mondo, oltre alla sua traduzione in italiano, ne esisteva solo un’altra, in francese, di Philippe Lavergne, guarda caso un ingegnere. Schenoni parlava guardandomi al di sopra degli occhiali, con uno sguardo che sottintendeva lo scherzo ma fino a un certo punto. Disse che per tradurre in un’altra lingua quei manuali di funzionamento e manutenzione occorreva prima smontare macchinari complessi, poi studiarli pezzo per pezzo, quasi interrogarli e infine rimontarli, per poterli comprendere fino all’ultimo bullone. Allo stesso modo considerava il romanzo di Joyce un macchinario ancora più complesso e certamente più emozionante, con un sistema di ingranaggi che sembrava funzionare contro ogni logica, ma che lo aveva sedotto proprio perché conteneva la sfida suprema e cioè che fosse incomprensibile e intraducibile.
Questo è stato Luigi Schenoni. Dico è stato perché è morto nel 2008 a 73 anni. Nel 2004 aveva pubblicato il terzo volume, poi si era ammalato e penso che Joyce qualche colpa ce l’abbia, poiché, con tutto il rispetto per minatori, palombari, fonditori e simili, anche tradurre Finnegans rientra nella categoria dei lavori usuranti. Comunque era riuscito a completare il quarto volume e a consegnarlo poco prima di morire. Il libro è stato pubblicato nel gennaio 2011. Mancavano gli ultimi cinque capitoli su diciassette dell’opera originale. Peccato.
Se a volte persino in un ingranaggio si può annidare la poesia, anche l’istituzione supermercato che, piaccia o no, occupa parte della nostra vita, potrebbe scoprire di avere un’anima. E questo enorme negozio di via Emilia Ponente 72, costruito sulle fondamenta della vecchia fabbrica, farebbe un doveroso omaggio alla propria storia e alla nostra se nel vastissimo prato davanti all’ingresso ricordasse il piccolo eroe caduto sul fronte della cultura, gratis e con onore.

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Immagini
“Bloomsday 2020” at Sweny’s Pharmacy, Lincoln Place, Dublin – fotografia di Mar Lima (CC BY 2.0)
“Today is Bloomsday” – fotografia di William Murphy (CC BY-SA 2.0)

Musiche
Dropkick Murphys – “I’m Shipping Up to Boston” (instrumental)
The Irish Rovers – “Finnegan’s Wake”
The Dubliners – “Humpty Dumpty”
Dj Spooky – “James Joyce / Anna Livia Plurabelle (Finnegans Wake) mixed with Oval vs Yoshihiro Hanno / April remix”
Green Pajamas – “Chamber Music – James Joyce – 1907 – XXXI”

Brano corrente

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