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11 Giugno 2020 | Racconti d'autore

Addio. Piccola grammatica dei congedi amorosi

Testo tratto dal libro omonimo di Carola Barbero (Bologna, Marietti 1820, 2020)

Quando un amore finisce, si può scegliere se restare nelle paludi del rimpianto o nuotare con coraggio verso il mare aperto: Carola Barbero, filosofa del linguaggio, ha messo a punto un agile prontuario di parole-chiave che aiutano a orientarsi nelle piccole e grandi tempeste sentimentali. Ne abbiamo scelte tre, affidandole alla lettura di Alessandra Ambrogi dell’associazione “Legg’io”.

Cuore

L’amore, pensava, doveva manifestarsi di colpo, esplosione di lampi e fulmini, uragano dei cieli che si abbatte sulla vita, la sconvolge, strappa via ogni resistenza come uno sciame di foglie e risucchia nell’abisso l’intiero cuore.
Gustave Flaubert, Madame Bovary

«Ascolta come mi batte forte il tuo cuore », recita uno dei versi più belli di Wisława Szymborska. Il cuore che batte è un cuore innamorato.
E il cuore che non batte più? E il cuore che è andato in frantumi come un calice di cristallo scagliato a terra? E il cuore che si è congelato ed è diventato nero? E il cuore gonfio di lacrime? E il cuore che non ce la fa? E il cuore rauco?
Molti di quelli elencati con il punto interrogativo sono i cuori degli addii, quelli spezzati, che fanno male al petto e impediscono di respirare. Talvolta, per riparare questi cuori malati e sofferenti, viene offerto qualcosa. Sei triste? Eccoti queste briciole d’affetto, poi magari andrà meglio. Ti fa male lì? Vieni vicino a me dieci minuti, ché poi devo andare. Come? Ti fa male il cuore perché vuoi l’Amore? Quello delle canzoni, delle poesie e dei romanzi? Ma guarda che forse non esiste (esattamente come Babbo Natale e le sirene), e comunque tu non ce l’hai: il tuo cuore in frantumi ne è le prova. E allora, se non vuoi rovinarti l’esistenza, impara ad accettare qualche compromesso, qualche baratto, qualche avanzo, almeno non correrai il rischio di trovarti con un pugno di mosche in mano e una vita di solitudine davanti.
No. No. E no. Niente avanzi o baratti. Come dice così bene Oscar Wilde nel De Profundis (1905), «l’amore non fa baratti da mercato né usa la bilancia del merciaiolo. La sua gioia, come la gioia dell’intelletto, è di sentirsi vivo. Il fine dell’Amore è amare; niente di più e niente di meno». Il cuore non segue la logica del dare e avere. Non gliene importa niente. Non sa cosa farsene delle briciole e sa, nonostante sia in frantumi e tutto il resto, che cosa vuole: ha le sue di ragioni, anche se sono diverse da quelle dell’intelletto.
Ecco perché anziché avere un’ora d’amore rubato, al posto della vita intera che vorremmo, preferiamo non avere nulla.
Ecco perché le parole belle, dette o scritte, cui non seguono azioni e cambiamenti non possiamo considerarle altrimenti che come pure emissioni di fiato o inchiostro.
Ecco perché i tempi verbali diventano fondamentali: basta condizionali, basta periodi ipotetici, basta cortesie, basta insicurezze.
Perché di una cosa siamo certi: che il nostro cuore, con tutte le sue ragioni, è la cosa più importante che abbiamo. E non possiamo lasciare che sia paralizzato dall’incertezza che l’Amore non ci sia, che ci siano solo i baratti e il gioco delle tre carte. Seguendo Blaise Pascal (ma fuori dall’ambito in cui lui ne aveva trattato), scommettiamo che ci sia la persona cui donare il nostro cuore. Se vinceremo, avremo guadagnato tutto. Se perderemo, non avremo perso nulla, semplicemente saremo soli, come adesso. Scommettiamo perché pensiamo che ne valga la pena. Sapremo fare i conti con le nostre paure e le nostre abitudini, con le continue domande degli altri, con la solitudine, con la tristezza, con le nostre necessità. Faremo i conti con tutto.
Vogliamo essere come quell’«uomo onesto, un uomo probo» di cui cantava Fabrizio De Andrè ne La ballata dell’amore cieco (1966), che ha saputo donare il suo cuore alla sua innamorata, anche se lei «non lo amava niente». Perché come lui, alla fine, vogliamo morir contenti, nella certezza che quell’unica possibilità di essere felici, non ce la siamo negata. Tralalalalla tralallaleru.

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Rimorsi e rimpianti

La parte preparatoria dei rimorsi di solito è abbastanza piacevole.
Marcello Marchesi, Il malloppo

Di errori, la vita amorosa è spesso costellata. Alcuni sono semplici mancanze, altri sono sbagli veri e propri che magari sul momento non riconosciamo come tali, ma che ci sono e hanno conseguenze pesanti.
Ma come è potuto succedere qualcosa del genere? Avremmo preferito non tradire la fiducia e gli abbracci di chi avevamo accanto, avremmo dovuto rispondere in un altro modo a quell’invito (banalmente con un semplice «non sono interessato»), avremmo fatto meglio a guardare gli occhi e il cuore di chi divideva con noi gioie e dolori anziché lasciarci distrarre dalla prima foglia sollevata dal vento. Questi sono tutti esempi di rimorso, ossia quel sentimento che si prova verso azioni commesse nel passato che però non avremmo dovuto commettere, e che, purtroppo, non possono più essere modificate o cancellate in alcun modo (non si può cambiare il passato). Così diventiamo giudici delle nostre azioni e, anche se nessuno ci ha ufficialmente condannati, siamo pieni di rimorsi per quanto fatto.
Quando invece ci domandiamo se non saremmo dovuti tornare indietro e trattenere chi stava andando via implorandolo/a di rimanere con noi, o se quella volta non sarebbe stato giusto chiarire che cosa davvero volevamo anziché tenerci tutto dentro, abbiamo a che fare con i rimpianti, che sono la manifestazione di una sofferenza per ciò che non è stato, un po’ come le occasioni perdute, i treni che abbiamo visto partire davanti ai nostri occhi. Ci dispiace perché non avremo altre possibilità, altri treni da prendere: les jeux sont faits. Allora che fare?
Meglio stare con chi dice di volerci bene ma ci ferisce continuamente (vivendo nel rimpianto di non avere aspettato chi davvero sentivamo di amare), o dire a chi abbiamo accanto come stanno le cose correndo il rischio di perderlo/a per sempre? Meglio rinunciare ad avere relazioni con altri scegliendo di essere fedeli a chi amiamo ma con cui non c’è più alcuna passione, oppure lasciare il nostro partner e tornare a una vita solitaria, magari senza troppe aspettative, però nella serenità di una vita libera? Meglio stare con una persona di cui non siamo innamorati ma che ci fa stare bene, oppure subire il “tira e molla” di un’altra che ci rovina l’esistenza ma che amiamo moltissimo? In breve, meglio avere più rimorsi che rimpianti – perché è meglio fare molte cose, magari anche sbagliate, però vivere ogni giorno intensamente, come se fosse l’ultimo –, oppure meglio avere rimpianti e guardare i treni partire, nella fiera consapevolezza di non avere preso quelli sbagliati?
Troppe domande. E forte è l’impressione che non aprano nessuna porta, che non invitino a nessuna risposta. Senza tenere conto del fatto che, mentre ci disperiamo, letteralmente, tra un interrogativo e l’altro, il tempo scorre. Anzi, peggio, precipita. Il passato cresce sempre di più e il futuro diminuisce a vista d’occhio mentre noi, noncuranti di tutto, ieratici come Le penseur (1880-1902) di Auguste Rodin, in solitaria meditazione, ripercorriamo tutti gli errori della nostra esistenza scorrendoli con la mente come se fossero le palline di un abaco. Ma non serve a niente.
Allora proviamo a spostare la mano che sorregge il nostro mento, alziamo gli occhi e guardiamoci, finalmente, allo specchio. Siamo ancora noi. Sorridiamo. Respiriamo. Forse, goethianamente, dovremmo considerarci esseri amabili proprio perché abbiamo commesso e subìto tanti errori. Quanti sbagli sul nostro cammino. Che prezzo elevato abbiamo dovuto pagare. Ma abbiamo vissuto, anche (qualcuno direbbe «soprattutto») in quei momenti. Rimorsi e rimpianti arriveranno certo, come le onde grigie e schiumose seguono la tempesta sul mare. E noi saremo lì, ad aspettarli, con la mente lucida e fiera di chi sa cosa voglia dire avere fatto un pezzo di strada.

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Scrivere

Scrivere è un modo di parlare senza essere interrotti.
Jules Renard, Diario 1887-1910

Perché scrivere alla fine di un amore? Forse perché quando si scrive si riesce a pensare meglio: quando parliamo tutto è veloce, si mescolano sguardi, emozioni, luci e rumori, mentre quando siamo davanti al foglio bianco tutto è fermo, possiamo concentrarci su ciò che sentiamo e provare a capire. Certo, si potrebbe obiettare che la fine di un amore non è qualcosa che si scrive, è qualcosa che si vive, di cui si fa esperienza. E che cosa può la scrittura contro le lacrime, le frustrazioni, la rabbia e la paura? Niente. Ma forse proprio in questo sta la sua potenza, ossia nel non servire propriamente a nulla, se non a fermare le idee, sciogliere i nodi, affrontare le delusioni, accettare le sconfitte, e tutto con il semplice ausilio di parole, virgole, punti.
Scrivere della fine e alla fine di un amore è come descrivere una candela consumata che è prossima allo spegnersi. È difficile. Quella luce, quello scoppiettio e quella curiosità che c’erano all’inizio sono passati. E resta quel mozzicone pieno di cera colata. E resta la tristezza di aver conosciuto la bellezza dell’amore adesso che ne siamo tagliati fuori, che tutto è finito e ogni cosa è diventata futile, banale, ridicola.
Quanto è assurdo scrivere mentre dovremmo disperarci? Eppure sembra la cosa più giusta da fare, adesso. Adesso che quando ci svegliamo non abbiamo chi amiamo al nostro fianco. Adesso che nessuno ci prende sul serio. Adesso che abbiamo i nervi tesi. Adesso che tutti ci sono indifferenti. Adesso che non riusciamo a dormire perché temiamo i mostri e non riusciamo a stare svegli perché la luce è troppo forte. Adesso che conosciamo lo stato di grazia dell’amore e sappiamo che cosa vuol dire averlo perduto. E scrivere di questa nostra catastrofe, allora, è come raccontare dell’ultimo tremolio di questa candela.
Siamo ridicoli nel nostro bisogno di scrivere di amori perduti e finiti (come recita una poesia di Fernando António Nogueira Pessoa: «Tutte le lettere d’amore sono / ridicole. / Non sarebbero lettere d’amore se non fossero / ridicole»). Ma non importa, perché è l’unico modo di fare ordine nel caos. E poi, quando siamo lì pieni di tristezza, silenzio e solitudine, «non [ci] rimane altro» (per usare le parole di Samuel Beckett in riferimento alla sua necessità di scrivere). Perché così ci ricorderemo (e si ricorderanno coloro che leggeranno le nostre righe) quanto abbiamo amato. Perché sarà come avere trovato un modo per raccontare la nostra storia, per raccontarci delle storie, per trovare un senso alle cose che sono accadute (anche se non ce l’hanno). Perché scrivendo ci sembrerà di non sprecare nulla di ciò che è stato e magari recupereremo alcuni piccoli dettagli che non ci ricordavamo nemmeno di avere smarrito. Perché così riusciremo finalmente ad affrontare le nostre paure, analizzando i nostri fallimenti e studiando le nostre reazioni. Forse scriveremo proprio per paura, per la paura di vivere, e cercheremo, con quelle parole ordinate una dopo l’altra, di fare l’impossibile, ossia di sospendere il tempo, il dolore, i ricordi, in un fermo immagine tanto irreale quanto necessario per darci l’illusione che sia tornato presente ciò che in realtà non c’è più.
Abbiamo imparato a scrivere da piccoli ed è stata una delle cose più sorprendenti che ci siano capitate: con le parole abbiamo imparato a descrivere il nostro mondo e le cose che in esso prendevano forma, i nostri sogni, i nostri desideri, poi, poco alla volta (con le liste di cose da fare e da evitare), quelle parole ci hanno aiutato a organizzare la nostra vita. Se per Gustave Flaubert «scrivere è un modo di vivere», per noi, con i cuori trafitti e gli occhi stanchi, forse non è che un modo di vivere questo amore, per l’ultima volta. Prima di lasciarlo andare.

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Musiche
Chico Buarque & Milton Nascimento – “O que sera / A flor da pele”
Fabrizio de Andrè – “La ballata dell’amore cieco”
Mina – “Volevo scriverti da tanto”
Rino Gaetano – “A mano a mano”

Brano corrente

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