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10 Giugno 2021 | Racconti d'autore

Artemio

Testo tratto dal romanzo omonimo di Emanuele Azio Ferrari (Reggio Emilia, Edizioni thedotcompany, 2020)

Vittorio Ferorelli

“Quando si cammina senza meta, nell’aria ci sono sempre delle poesie non scritte, che poi, anche senza parole, sono poesie lo stesso”: così dice Artemio, il protagonista involontario del primo romanzo di Emanuele Azio Ferrari, insegnante, scrittore ed editore che vive a Casina, sull’Appennino reggiano. Un racconto fatto di frammenti numerati, ma da leggere in libertà, nell’ordine che si preferisce, perché, con o senza meta, ognuno ha il suo cammino. Ringraziamo per la lettura Francesco Angelelli e l’associazione “Legg’io”.

Frammento n. 1
Era uno che prillava Artemio.
Stava sui piedi come se stesse sempre a salire scendere delle scale. Cantava sempre Marina Marina Marina, ma lui al mare non c’andava volentieri. Non c’andava quasi mai in effetti. E quando c’andava poi a casa succedevano delle catastrofi.
Troppo vento diceva. E solo girare alla tonda. Anche se a lui Artemio, girare alla tonda si poteva dire che era forse il suo vero e unico mestiere.

Frammento n. 2
Faceva un sacco di giri in giro, Artemio, difatti. Se non prillava allora camminava. Tutti in paese lo vedevano andare avanti e indietro. Poi c’erano i giorni che andava a ballare. A volte, anche quando camminava si fermava di colpo e accennava due passi di ballo. Da solo. Una volta alla fine di una serata in balera, una delle sue ballerine gli aveva regalato le sue mutande. Sopra, sul davanti, c’era stampata la faccia di una tigre. Allora Artemio quella notte lì era andato fino alla casa del Marito della Maestra e siccome era estate aveva appeso le mutande al filo dove mettevano ad asciugare i lenzuoli e la biancheria, appena fuori casa, nel pratino che guardava i monti. Poi era tornato a casa e pensava al mattino dopo, quando la Maestra si alzava e magari andava a sistemare il bucato o tirarlo via, che avrebbe trovato quelle mutande lì della tigre. E la faccia che avrebbe fatto e le cose che poi avrebbe detto al Marito della Maestra, la Maestra. Che se ci pensava Artemio non smetteva di ridere per quella cosa lì. Tanto che quella notte l’aveva passata da solo nel letto, a ridere e basta.

Frammento n. 3
Un pomeriggio che aveva fatto un salto dal Marito della Maestra, Artemio era stato preso da parte e il Marito della Maestra gli aveva fatto questa confidenza:
“Sono preoccupato per mia moglie. Da qualche tempo, tutte le volte che finiamo di mangiare, dopo un po’ viene lì da me che sono già attaccato alla televisione e mi dice: ho attaccato la lavastoviglie e sto bene”.
Artemio c’era stato un po’ sopra a pensare a quel lavoro lì e poi gli aveva chiesto: “Ma te sei preoccupato perché dice che sta bene o per via della lavastoviglie?”.
E quando aveva detto la parola “lavastoviglie” si era accorto che il Marito della Maestra era già là che ronfava dietro al ronzio della televisione sintonizzata sul niente. Allora Artemio era uscito e aveva visto che fuori c’era la Maestra che stendeva le lenzuola sul filo e l’aveva guardata di lontano e per l’ennesima volta aveva capito che era proprio una bella donna, e che secondo lui, per quanto era bella, era proprio giusto che stesse bene, anche senza attaccare un diavolo di lavastoviglie. Ma pensa te.

Frammento n. 4
Quando lo vedevano che andava tutto il giorno dietro a camminare, c’era della gente che gli chiedeva: “Ma dove vai Artemio?”. E lui regolarmente rispondeva: “Da nessuna parte”. Che a pensarci bene, Da nessuna parte, era proprio un bel posto dove andare. Un posto dove non si finiva mai di camminare. Un posto che non finiva mai di finire.

[…]

Frammento n. 19
Sotto sera, e per tutta la notte, dei giorni si alzava un vento, ma un vento che Artemio diceva tra sé: “Ecco che arriva il buferone”.
Allora chiudeva le finestre e si metteva a sedere su una poltrona sfondata e ascoltava quel ciangolare sbuffare e scarcagnare del buferone di fuori. Stava fermo tranne i piedi, che continuavano a prillare sul pavimento, come facessero un sottile controcanto a quello scatenamento di fuori. Più casino sentiva però, più Artemio si sentiva tranquillo dentro. Spesso si addormentava secco e la mattina dopo apriva tutto alla svelta, ma ancora prima di farlo sapeva, sentiva che il buferone era passato e allora guardava tutte le cose intorno nella loro ritrovata quiete, e non erano più le cose, ma erano delle facce, anzi ciascuna di quelle cose sopravvissute al buferone, Artemio le vedeva come i tratti di un unico volto, quello di lei.
Era come se con gli occhi, e appena muovendo le dita nell’aria, Artemio potesse fare la mappa di quel volto lì, che il buferone gli restituiva.
Ogni mattina.

Frammento n. 20
Gli uomini per il Lupo, e solo gli uomini, sostanzialmente si dividevano in tre categorie: i bondagninto, i godi godi e quelli da cassar via. Poi precisava che uno, nella sua vita poteva nascere godi godi e diventare bondagninto e viceversa e che ad alcuni succedeva anche, a un certo punto, che iniziavano inesorabilmente ad andare da male e ci mettevano poco, davvero poco a diventare uomini da cassar via. Che però, poteva anche darsi il caso, che uno rimaneva in quella condizione lì, da cassar via, per un sacco di tempo, anche tutta la vita, che delle volte uno era da cassar via e non succedeva niente. Ecco.

Frammento n. 21
Dopo tutti quegli anni Artemio si ricordava davvero poche cose, specie dei suoi genitori. Ma una in particolare gli era entrata talmente tanto dentro che non doveva neppure ricordarla, era come se facesse parte del suo corpo, quasi fosse un organo interno vitale, come ad esempio il cuore oppure un polmone. Sua madre infatti per tutta la vita gli aveva sempre ripetuto: “Ricordati che io non mi sono mai pentita una volta di essermi alzata presto al mattino”. E Artemio, anche se gli piaceva fare tardi la notte, specie quando erano partite le sere delle goghette con l’imprenditore Ganascia, ugualmente non si perdeva mai un mattino, anzi delle volte, se rientrava troppo tardi, non andava neppure a letto per non perdersi un mattino. Perché quello era il momento che tutto, anche se forse non era vero, sembrava ripartire. Ed esserci in quel momento lì, quando le cose escono dalla loro ombra e si mettono in moto, era una sensazione magnifica: non succedeva niente ma succedeva tutto. Bastava solo esserci, senza far nulla in apparenza, guardare quel passaggio dal buio alla luce, ascoltare la sua musica, ma anche il suo silenzio, non pensare a niente e ritrovarsi in quell’accadere puro del mondo, come una volta gli aveva detto il Professore, quando ne avevano parlato. Ecco, pensava Artemio, ma senza pensare: non perdersi un mattino era il primo modo che aveva imparato per non perdersi e basta. Per sentirsi a casa, anche quando a casa non c’era. Per ritrovarsi, quasi senza essersi cercato.

Frammento n. 22
Prendere al volo le cose, lanciarle in aria, come succedeva alle sagre con i fazzoletti delle donne, tutti sparpagliati nei campi di grano, o dove avevano ammucchiato le balle rettangolari di fieno, lì cercare di arrivare a quello di lei, rosso come un cuore che batte. Ecco cosa sognava più spesso Artemio, anche ad occhi aperti, specie ad occhi aperti.

[…]

Frammento n. 27
Artemio, che viveva tutta la sua vita alla luce del sole, anche lui c’aveva i suoi piccoli segreti. Uno lo aveva confessato solo alla Maestra, quella notte che avevano passato insieme nei campi fino all’alba. Artemio tra le mille cose che si erano detti e avevano ascoltato l’uno dall’altra, aveva confessato alla Maestra che una delle cose che amava fare di più in solitudine era infilarsi nelle chiese, fuori dall’orario delle Messe, perché lui a tutte quelle tiritere era allergico dalla nascita, infatti quando lo avevano battezzato aveva dato subito un grande starnuto e poi innaffiato il prete.
Insomma anche se non ci credeva Artemio andava nelle chiese perché amava accendere le candele: “Che una candela – aveva detto Artemio alla Maestra senza mai toglierle gli occhi di dosso – è una piccola luce che prende vita da un’altra piccola luce. Non conta quanto è grande la luce che fa o quanto dura. La cosa più bella per me è accendere la candela, cioè vedere il passaggio della luce. Come una luce passa in un’altra che prima era spenta, che prima non esisteva. Così una luce diventa due luci, pur rimanendo ciascuna se stessa, che se poi guardi la fiamma di una candela, vedi quanto è fragile, e come solo perché esiste un vento invisibile continua a brillare oscillando nell’aria. E la cosa più bella per me poi, è quando due candele vicine brillano e si sfiorano ed è come se si raccontassero così tutta la loro vita, passata presente, ma soprattutto futura. E dentro quel futuro che stanno immaginando insieme – aveva concluso Artemio con un po’ d’emozione perché non si ricordava di aver mai fatto un discorso così lungo – dentro quel futuro non c’è neppure un pensiero, di quelli che ci bloccano e ci impediscono di bruciare e fare luce, di quelli che ci lasciano spenti, ecco in quel futuro c’è solo la vita che viene, o meglio che arriva, con tutta la sua luce nuda”.
A quel punto Artemio era rimasto in silenzio, imbambolato a guardare quella che di lì a poco sarebbe diventata la Maestra e lei gli aveva sorriso e aveva detto: “Allora tu sei proprio un cercatore di luci”.
E aveva continuato a fissarlo anche lei e quelle parole, ma ancora di più quello sguardo, Artemio non li aveva mai più dimenticati.

[…]

Frammento n. 33
Una volta che era rimasto a casa del Marito della Maestra a guardare niente alla televisione, a un certo punto il Marito della Maestra aveva spento la voce e gli aveva chiesto: “Ma cos’è per te la vita?”.
E Artemio senza tanto pensarci aveva detto: “Son tre cose la vita: camminare, ballare, fare spesso zimme zomme, ma mica solo con quelle belle, soprattutto farlo con quelle che ti piacciono davvero, che non è detto siano sempre le più belle ecco”.
Allora il Marito della Maestra era stato per un pezzo in silenzio poi aveva detto: “Te lo sai cosa devi fare? Te devi andare a cagare ecco”.
Però poi aveva voluto a tutti i costi che restasse lì e gli aveva pure fatto il caffè. Poi era successo che quando era tornato indietro Artemio ci aveva ripensato alla terza cosa e solo con sé stesso aveva detto che forse, la cosa più bella, non era tanto il fatto di zimme zomme, ma delle volte, quando erano finiti tutti gli stocacciamenti, quei respiri a ritmo di valzer e begin, dopo invece la cosa più bella era ascoltare il respiro lungo e calmo di lei, stare in silenzio tutti e due di fianco, con la testa sul cuscino o sopra una balla di fieno, con le mani che si sfioravano, chiudere gli occhi e anche se c’era solo il soffitto o le assi del fienile storte, vedere, immaginarsi le stelle.
Tutte. Proprio quelle.

Frammento n. 34
Dei giorni che apriva le finestre e vedeva fuori lo scurone, che magari erano i primi giorni di luglio e invece sembrava novembre, Artemio diceva Pazienza e poi non sapeva bene il perché, pensava agli occhiali scuri del Marito della Maestra, perché lui, il Marito della Maestra, a un certo punto della vita, aveva messo su quegli occhiali, che trasformavano il mondo in un grande scurone dove era sempre novembre, e non se li era mai più tolti, quegli occhiali lì.
E ad Artemio veniva anche da pensare che succede, che uno nel corso della vita comincia ad avere paura del sole o anche del cielo e pensa che la vita stessa, non tanto il mondo, che quello cambia continuamente e dipende assai poco da noi, ma proprio e soltanto la vita sia tutto uno scurone. In quei momenti lì, passati a guardare nei primi giorni di luglio un cielo di novembre, Artemio pensava se qualche volta almeno il Marito della Maestra sorrideva dentro quegli occhiali, se qualche barlume di contentezza, potesse attraversarlo. Perché invece lui, Artemio, si accorgeva che era tutto il contrario: e quando vedeva arrivare lo scurone, o anche peggio il buiarone, lui pensava sempre che dietro c’era comunque il cielo e che il sole prima o poi avrebbe attraversato quel cemento di nuvole e avrebbe riportato in vita tutto quello che sembrava essere finito nell’oscurità.
E anche quella, l’oscurità, aveva bisogno per esistere della luce del sole. E allora Artemio quando vedeva lo scurone, iniziava a sorridere, che poi era come avere il sole in faccia, il sole dentro, nonostante tutto. E c’erano dei giorni di novembre, che potevano capitare anche a luglio, che Artemio lo vedevi addirittura ridere tutto il tempo alla finestra, nel primo mattino, fino a quando tutte quelle lacrime di gioia finivano da qualche parte a dissetare il mondo, o forse meglio la vita di quelli che pensano di vivere, ma non vivono.

[…]

Frammento n. 47
E poi c’erano i sogni.
Non erano tanti.
O meglio non erano tanti quelli che si ricordava al mattino, quelli che dal cuore della notte riusciva a portare alla luce, chiari dentro la sua testa, come ne avesse ancora, dopo averli sognati, la polvere sottile tra le dita. E tra questi uno solo, il più strano e il più bello, quello che si ricordava sempre quando non riusciva a ricordarsi altro. C’era lui ragazzo d’estate, tuffato dentro un campo di grano, con le spighe che gli sfregavano sul corpo, ma senza alcun fastidio. Lui che guardava il sole e a un certo punto il sole non c’era più, nel senso che tutta la luce restava quella, ma al posto del sole apparivano un paio d’occhi e poi il naso e infine la bocca. Appariva nel sole o forse meglio al posto del sole, il volto di lei che a un certo punto si apriva in un sorriso e lo guardava e guardandolo iniziava a parlare, dicendo in silenzio, lo capiva solo dai movimenti delle labbra, il suo nome, il nome di lui, ragazzo immerso nel campo di grano d’estate.
A quel punto si svegliava e dentro la sua testa sentiva ancora la voce di lei chiamarlo e a quella voce ora rispondeva anche lui, sussurrando semplicemente il suo nome, il nome di lei.
Poi quando usciva per il suo solito giro, per tutto il tempo, per tutto il giorno, continuava a sentire nel naso il profumo del pane, appena sfornato, e pensava che i sogni più belli, dopo aver percorso tutto il corpo, alla fine finiscono nel naso, dove restano, con quel meraviglioso profumo di pane che anche se non si può mangiare, è, da solo, il solo nutrimento che serve.
Per camminare, stare nel mondo.
E sognare.
Ancora.

[…]

Frammento n. 52
Quando in paese era comparso il Professore, come fosse venuto dal nulla, tutti dicevano era stato via per tanto tempo e aveva vissuto lontano, in riva a qualche oceano.
Dicevano era stato via per scrivere dei libri, ma che poi di questi libri non era rimasta traccia.
Dicevano che a un certo punto si era messo soltanto ad ascoltare il mare, in attesa che quello gli parlasse.
Dicevano che alla fine il Professore aveva capito che il mare parlava una lingua troppo vasta e profonda per poterla decifrare e allora era tornato sulla strada di casa. Anzi era proprio tornato a casa.
Artemio una volta che l’aveva trovato da solo ai giardini, seduto su una panchina e senza neanche un libro in mano, così approfittando di quel momento gli aveva chiesto: “Ma te tutto questo tempo dove sei stato?”.
E il Professore aveva risposto: “A cercarmi lontano. Poi ho sentito il vento. E sono tornato”.
“E i libri, quelli che dovevi scrivere, che fine hanno fatto?” Aveva continuato Artemio.
“Da dove vengo, da dove sono passato ho compreso una cosa Artemio – aveva proseguito il Professore – che alla fine non conta tanto scrivere dei libri, ma custodire delle storie. Tenerne in qualche modo il filo. E questo, quando succede, perché succede sempre, se sei attento, che qualcuno ti lascia una storia da custodire, quando succede questo ricorda che non succede mai per caso. Le cose cambiano quando il caso sparisce e scopri che la verità è semplicemente qualcosa che non può essere nascosto. Solo a quel punto puoi ritornare a casa”.

[…]

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Piccolo atlante
(Delle espressioni e delle parole strane che si possono trovare in questo libro)

bondagninto
buono a nulla, fannullone, uno che gira alla tonda tutto il giorno, insomma.

buiarone
è il buio più profondo, anche inteso in senso simbolico, quando vedi tutto nero, anzi più nero del nero, e hai la sensazione che non è proprio possibile saltarci fuori, vederci un fondo.

cassar via (uno da)
si intende una persona o una cosa che non serve più a nulla, che non vale più niente e allora l’unica cosa è buttarlo/a via.

girare alla tonda
camminare senza una vera méta o uno scopo, come dire anche girare a vuoto, girare attorno alle cose e alle questioni senza mai arrivare al punto.

goghetta (fare una)
quando due o tre amici (anche quattro), si trovano a fare un po’ di baldoria, anche in una situazione improvvisata, e si mettono a mangiare anche solo pane e salame, andando avanti per delle ore o anche fino a dimenticarsi il tempo, raccontando e raccontandosi delle storie.

prillare/prillamento
fare il gesto di camminare stando fermi, per esteso anche smaniare, sentire il bisogno di fare qualcosa comunque, semplicemente per il gusto di muoversi e andare. Il sostantivo derivato indica anche una mania, un pensiero fisso e forse ossessivo, oppure in certi casi un’idea un po’ stramba e balzana, a cui si vuole dare un seguito.

stocacciamento
quasi sinonimo di palpeggiamento, ma più rude, rapido e forse anche rapinoso.

zimme zomme (fare)
equivale all’atto sessuale, magari consumato in macchina, in un fienile eccetera.

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Immagini
Carol Munro – “Dandelion” (CC BY-NC 2.0)

Musiche
The Clash – “Shepherds Delight”
Ryuichi Sakamoto, Paula & Jaques Morelenbaum – “Tema para Ana”
Elisa, Francesco De Gregori – “Quelli che restano”

Brano corrente

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