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6 Ottobre 2016 | Racconti d'autore

Aspettando i barbari

Racconto di Nicola Bonazzi tratto dalla raccolta di autori diversi “Don’t Kick Me Out” (Bologna, Edizioni Nuova S1 – Il Girovago, 2016)

A cura di Vittorio Ferorelli. Lettura di Alessia Del Bianco

Nato da un progetto di riflessione collettiva sui temi del respingimento e dell’esclusione, “Don’t Kick Me Out” è un libro che raccoglie i contributi di 45 autori di prosa, poesia, pittura, illustrazione, fumetto, fotografia, design e video. Abbiamo scelto il racconto del regista e drammaturgo Nicola Bonazzi, direttore artistico della Compagnia Teatro dell’Argine, scritto in occasione di uno spettacolo realizzato in Tunisia.

Non c’è più nessuno.
Da ieri sono l’unica presenza umana tra queste mura.
Fino a poche ore fa è rimasto con me un impiegato, lavorava qui da molti anni, quasi trenta credo.
Ha provato a resistere fino all’ultimo, ma non ce l’ha fatta: anche lui, come me, non voleva abbandonare questo luogo, dove ha passato la maggior parte della sua vita.
Poi ha deciso che non ne valeva la pena, che sua moglie e i suoi figli non meritavano le ore d’angoscia che stavano vivendo, per non dire di peggio, a seconda di quello che succederà.
Quando se ne è andato ci siamo abbracciati come se non dovessimo più rivederci.

Mi ero offerta di accompagnarlo con l’auto per un buon tratto, ma lui ha declinato dicendo che non voleva vedermi tornare indietro sola, con tutti i rischi del caso. Primo tra tutti quello di un guasto alla macchina: è sempre stato un tipo ansioso.
Così se ne è andato a piedi, con un piccolo zaino in spalla, perché da qualche giorno è sospeso ogni tipo di collegamento.
Per qualche ora, dalle grandi finestre del soffitto, ho potuto vedere la sua figura esile allontanarsi, fino a diventare un punto tremolante mangiato dalla foschia.
Spero che ce l’abbia fatta, che sia riuscito a tornare a casa.
Forse ha incontrato qualche avamposto amico che l’ha soccorso e l’ha portato in città.
Del resto, è probabile che l’inferno arrivi in città tra qualche ora o qualche giorno, e allora tutto questo non avrà più importanza.

Ho deciso di dettare questa relazione al magnetofono per diversi scopi: servirà a capire ciò che sarà successo qualora dovesse capitarmi qualcosa; potrà servire, così mi illudo, alle generazioni future per evitare la barbarie che si sta consumando; più banalmente, serve a me, ora, per chiarirmi le idee su quello che devo fare, su quello che è più sensato fare: rispetto a me, rispetto al mio popolo e rispetto – anche se la pretesa sembra eccessiva – all’umanità.
Quando i vari colleghi hanno cominciato a lasciare la biblioteca, più d’uno mi ha chiesto quali fossero le mie intenzioni. Ho risposto che non lo sapevo, ma che sentivo che non era ancora giunto il momento di andarmene. A dire il vero non sapevo se quel momento sarebbe mai giunto.
Ma sentivo di voler essere l’ultima a chiudere il pesante portone d’ingresso, come un capitano abbandona la nave solo dopo che l’ultima scialuppa è stata calata in mare.
Ora so di avere pochi minuti a disposizione per decidere se restare o andarmene.

Sono direttrice qui da nove anni.
Quando ho ottenuto il posto non ci credevo nemmeno io.
Ho letto e riletto la lettera più volte.
Ho telefonato al Ministero per accertarmi che non fosse uno scherzo.
“Proprio così, signora”, ha detto la voce inespressiva di una funzionaria, che forse neanche sapeva cosa questo significasse per me, “l’incarico è stato assegnato a lei”.
Mi sono chiesta perché fossi stata scelta: il mio curriculum non era così lungo da potermi dare la speranza di giungere a un posto di tale prestigio.
Poi ho riflettuto e ho capito: non avevo indicato preferenze, e nelle motivazioni avevo segnalato la disponibilità a qualsiasi spostamento e a qualsiasi sacrificio.
Tutto in nome della cultura.
Per essere dislocati qui di disponibilità ce ne vuole parecchia, nonostante l’estrema importanza del ruolo, e dello stesso luogo che mi ospita e per il quale lavoro da ormai così tanti anni.
Tutti conoscono il valore, anche storico, di questa biblioteca, ma non tutti sanno che si tratta di una delle più antiche del mondo.
Venne eretta in una zona desertica perché si pensava che l’aria secca avrebbe conservato meglio le pagine.
Il sovrano che procedette alla sua costruzione morì in una battaglia per la conservazione del regno. Guerriero, ma amante appassionato della cultura.
Naturalmente, nei secoli successivi, è stata restaurata più volte.
Con qualche difficoltà: i materiali devono essere trasportati fino a qui e la città più vicina, ai margini del deserto, è a oltre trenta chilometri di distanza.
Di notte se ne vedono le luci lungo la linea dell’orizzonte.

La biblioteca contiene la più grande raccolta al mondo di manoscritti copti, persiani, arabi, ebraici, latini.
Contiene, come tutti sanno, il più antico manoscritto dell’opera che postula la convivenza pacifica tra le religioni.
Un manoscritto bellissimo, in una scrittura elegante e nitida, con un gusto straordinario per l’immagine miniata.
Nei nove anni in cui sono stata qui sono venuti migliaia di studiosi per prenderlo in visione.
Naturalmente, la procedura per mostrarlo è rigorosissima.
Viene conservato in una teca con piccoli fori per l’aerazione, all’interno di un vano la cui temperatura è mantenuta sempre costante.
Può maneggiarlo solo un addetto della biblioteca, il solo autorizzato a girare le pagine con appositi guanti di stoffa leggera, ogni volta sterilizzati.
È evidente che chi si sottopone a questa procedura ha un’estrema necessità, o un estremo desiderio, di studiare il manoscritto. Non va dimenticato che c’è pure il deserto di mezzo.
C’è chi è mosso solo dalla voglia di ammirarlo: è capitato in questi anni.
Un tale un giorno, barba a punta e occhiali tondi, è rimasto chiuso nella stanza per otto ore consecutive. Si è alzato solo un paio di volte, quando l’addetto aveva i suoi bisogni ed era costretto a far uscire il visitatore.
Prima di andarsene mi ha ringraziato, dicendo che era stata l’esperienza più emozionante della sua vita. L’aveva preparata, pregustata per anni.
“Ora so”, mi ha confessato già sulla soglia, dando per un attimo le spalle alla distesa desertica, “che l’uomo ha un grande potere: quello di distruggersi, ma anche quello di amarsi indefinitamente”.
Ma incontri del genere non sono stati infrequenti in questi anni, prima che crollasse per tutti l’idea del progresso continuo dello spirito.

Il mio primo contatto con loro, con gli altri, con quelli che chiamerò semplicemente barbari per indicare qualcosa che sta al di fuori dei confini dell’umano, il mio primo contatto con loro è avvenuto a causa di questo manoscritto.
Accettammo la richiesta di un tizio che si era qualificato come studente universitario, alle prese con una tesi di laurea sul sincretismo neoplatonico influenzato evidentemente dalle dottrine del manoscritto.
Si presentò un giovane dall’aria accigliata: indossava una divisa militare nera, giacca e pantaloni dal taglio squadrato senza orli, la giacca chiusa con grossi bottoni fino al collo. Mi sembrò davvero strano, perché gli studenti di solito vanno in giro con qualche giacca di velluto tutta lisa, o in abbigliamento casual senza troppi pensieri.
Il tizio restò sempre in piedi: osservava il manoscritto girandogli intorno e ripetendo tra sé parole incomprensibili: una specie di litania, di preghiera.
Poi lasciò la stanza e prima di congedarsi, con la stessa aria torva con cui era entrato, guardandomi fisso negli occhi come per rendere più efficace il suo potere di persuasione, mi disse queste parole: “Esiste una sola verità, e non appartiene a quel libro. Farebbe bene a ricordarsene”.
Non potrò mai dimenticare lo sguardo sprezzante con cui mi scrutò prima di reinoltrarsi nel deserto.
Solo qualche mese dopo, grazie all’accumulo di informazioni che ormai giungevano quotidianamente dai notiziari, capii che quel tale era uno di loro.

Esistono altri manoscritti dell’opera, tutti più recenti. Nelle razzie compiute dai barbari molti di questi sono andati distrutti, attraverso un macabro rituale in cui il testo viene infilzato da una lancia e issato in aria come il cuore strappato ad un nemico e mostrato alla stregua di un trofeo.
Negli ultimi giorni ho pensato spesso cosa fare del manoscritto: a un certo punto ho pensato anche di bruciarlo, per non dare a loro la possibilità di distruggerlo e mostrare le immagini dello scempio.
Alla fine ho deciso di seppellirlo. Anche per questo ho aspettato che se ne andasse l’ultimo impiegato: nessuno, tranne me, doveva conoscere il luogo che custodirà l’opera. Se in futuro qualcuno ascolterà queste parole, sappia che dovrà scavare due metri oltre le mura, dove il terreno fertile non ha ancora ceduto al deserto, nella parte posteriore della biblioteca, verso l’angolo più a ovest.
So che la decisione di attardarmi può mettere a repentaglio la mia vita, ma ho voluto compiere questa scelta in nome di un ideale più grande che non la preservazione di un’unica esistenza.

Ora forse potrei andarmene: se raggiungo la macchina in fretta e mi lancio a tutta velocità nel deserto, ho ancora la speranza che non riescano a raggiungermi.
A casa una madre, un figlio, un compagno aspettano il mio arrivo probabilmente in lacrime, distrutti dall’angoscia.
Ma un altro pensiero ha cominciato a sfiorarmi la mente: quello di accogliere i barbari e parlare con loro, tentare di convincerli a lasciare intatta la biblioteca e proseguire.
So che è un atto di orgoglio smisurato, di superbia addirittura, ma ho sempre creduto nel valore della parola e rinunciarvi adesso equivale ad abbracciare senza lotta la sconfitta.
Del resto, la barbarie è potuta accadere perché molti hanno rinunciato.
Ma servirà a qualcosa? Se davvero lasciassero intatta la biblioteca proseguirebbero per la città, dove i trofei non sono più libri, ma vite umane.
E se offrissi loro la mia vita, in cambio della salvezza di questo posto? Accetterebbero? Perché dovrebbero farlo?

Sento il peso del peccato che commetterei privando mia madre, mio figlio, il mio compagno, tutte le persone amiche, della mia presenza: anche ammesso che per alcuni di loro la biblioteca sia qualcosa di più di un ammasso di carta, ciò che realmente conta è la vita umana e la conservazione della specie.
Tra poco fermerò la registrazione e la decisione dovrà essere presa.
Qualunque cosa accadrà, e qualunque sarà la mia sorte, ora o in futuro, queste parole testimonieranno la mia buona fede e i dubbi di fronte a una scelta per me decisiva.
Ecco, una nuvola di polvere si alza all’orizzonte.
Stanno arrivando.
Spengo.

Brano corrente

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