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17 Settembre 2020 | Racconti d'autore

Buongiorno, notte!

Testo tratto dal libro di Francesca Rigotti “Buio” (Bologna, il Mulino, 2020)

Vittorio Ferorelli

L’oscurità, come il silenzio, è un’occasione preziosa per riflettere, ma anche una risorsa indispensabile per vivere: lo racconta la filosofa Francesca Rigotti, che al buio ha dedicato un saggio luminoso. Leggiamone le prime pagine grazie alla voce di Alessandra Ambrogi dell’associazione “Legg’io”.

Il fulgore del buio

1. Il buio è splendente e creativo

Hegel ci ricorda che la nottola di Minerva, l’uccello caro alla dea della sapienza, comincia il suo volo sul far della sera per suggerire che la comprensione ha inizio in uno stadio crepuscolare intermedio tra luce e buio e per ricordare che sono indispensabili al processo dell’intendimento e della creatività sia la luce dell’esperienza e della ragione sia l’oscurità della riflessione e dell’immaginazione.[1] Anche se il pensiero occidentale, con l’inclinazione alla polarità che lo contraddistingue, tende a vedere luce e buio come principi in lotta, essi sono in realtà complementari e mutualmente correlati:

Tutto è pieno ugualmente di luce e di notte oscura, uguali ambedue, perché con nessuna delle due c’è il nulla.[2]

Così recita il frammento 9 di Parmenide, confermando il fatto che nel linguaggio protofilosofico e prescientifico luce e buio, giorno e notte, non sono elementi contrapposti e autoescludentisi. Il buio non è un negativo nel senso di privazione di un positivo; non è il nonessere che rappresenta la mancanza o l’assenza dell’essere, la luce. È un’entità, quasi una sostanza a sé, che merita di recuperare l’antico stato di ricchezza concettuale senza che per questo si debbano rinnegare le successive conoscenze scientifiche da una parte e i vantaggi di un’illuminazione ragionevole e moderata dall’altra.
Grazie al ritorno non ingenuo né retrogrado al buio di Parmenide, Omero ed Esiodo, le tenebre cessano di essere non-luce o non-essere e tornano a essere somma di virtualità e di semenza, come le definisce Mircea Eliade.[3] Oscurità e vuoto, talvolta buio e acqua, sono lo scenario primordiale e privo di struttura e di ordine a partire dal quale si compie il divenire del mondo nel momento in cui acquista forme, contorni, colori. Nei miti della creazione, prima (un «prima» che, però, non è nel tempo) era la notte, nella sua dimensione quasi divina: dea che si tira fuori da sé, e senza partner sessuale genera… la luce.
Fulgido e luminoso è il buio nell’etimologia del colore che lo designa: il nero. Come spiega Michel Pastoureau – che del colore nero ha magistralmente esplorato l’incredibile ricchezza – il vocabolario delle lingue indogermaniche presenta due termini per «nero» e «bianco», blaek e blank, entrambi collegati etimologicamente allo stesso verbo germanico: blik-an, «splendere». Entrambe le parole esprimono uno scintillare del colore per indicare il quale conta più la luminosità della tonalità. Anche il nero, infatti, pur essendo il colore dell’oscurità, può essere «splendente».[4]
Notte e oscurità, dispiegandosi e aprendosi come ali di pipistrello, fanno uscire la luce, la vita, il giorno, come nel mito ebraico di Genesi 1: dapprima sono le tenebre, poi emerge la luce del giorno e, infine, la notte. La notte buia è il regno dell’immaginazione creatrice e creativa. Tra le pieghe dell’oscurità si annidano le idee, come bambini della notte che, prima di uscire alla luce, se ne stanno al buio nell’utero materno e lì vengono nutriti, tenuti al caldo e protetti, lì crescono e si sviluppano. Tant’è che la capacità di «gestare» – incubare e generare – cuccioli di uomo o di altre specie animali può essere assunta quale modello per la creatività delle opere dell’ingegno.

[…]

4. Il buio è rivelatore e salvifico

Una delle attività che si fanno prevalentemente al buio, il dormire, vede l’addormentarsi come il cadere in un’oscurità benvenuta, una sorta di ritorno nel buio umbratile del ventre materno. Il buio del sonno è sollievo e riposo e, scrive Omero (Iliade VIII, 555-510),[5] «buono è obbedire alla notte», quella notte nera dopo una giornata di battaglia, in cui «gioisce in cuore il pastore»: un passo di cui ci si potrebbe chiedere se sia di Omero o di Giacomo Leopardi. Ascoltiamolo:

come le stelle in cielo, intorno alla luna lucente
brillano ardendo, se l’aria è priva di venti;
si scoprono tutte le cime e gli alti promontori e le valli;
nel cielo s’è rotto l’etere immenso, si vedono tutte le stelle;
gioisce in cuore il pastore.

Notte serena, notte silenziosa. Breve è il passo che porta alla notte santa, all’oscurità salvifica, alle tenebre rivelatrici, elementi presenti nella fenomenologia della spiritualità di tutti i tempi.
Nel buio salvifico dell’Esodo (12,42) il Signore fa uscire gli Ebrei dalla terra d’Egitto, andando «davanti a loro di giorno con una colonna di nube per condurli nella strada» e celarli alla vista degli Egizi. Un’oscurità che salva, dunque, ripresa nel momento rivelatore in cui gli amici di Giobbe vanno a confortarlo in una notte trasparente e luminosa, ambientazione del principio chiarificatore della condizione umana e svelamento del mistero. L’amico Zofar, rivolgendosi a Giobbe, gli annuncia che, se rivolgerà a Dio il cuore e le mani, la sua vita

risorgerà più bella di un meriggio e l’oscurità sarà come l’aurora (Gb 11,17).[6]

Sono tenebre che, per quanto tempo di paura e di incubi, assistono al momento del mistero e dell’agire segreto di Dio. È la notte scura dal cui buio stilla un «balsamo delizioso», scriverà Novalis (I, 76-78).
L’evento centrale dell’Islam si svolge in una notte oscura: è la chiamata di Maometto da parte dell’angelo Gabriele, che gli porta dal settimo cielo le parole del Corano (sura 44,2). Una notte di pace e benedizione, una notte rivelatrice accoglie anche l’evento centrale del buddhismo: l’illuminazione del Buddha che ha luogo nel silenzio e nel buio della notte.
Nella rappresentazione cristiana, sono notti sante – di nascita e resurrezione divine – quelle di Natale e di Pasqua (Tenebrae è il nome del servizio religioso che si teneva nei tre giorni precedenti la celebrazione della resurrezione di Cristo). La notte scura della nascita di Gesù diventa paradossalmente la notte della rivelazione al mondo; la notte di Pasqua annuncia la realizzata salvezza.
Sono fenomeni paradossali perché parlano di rivelazione, di apocalissi, ovvero – letteralmente – della sollevazione del velo che avviene col buio e nel buio, in notti particolari che hanno in sé qualcosa di magico perché sono insieme fine e inizio: fine di un periodo, inizio di un mondo nuovo.

5. Il buio è luminoso

La troppa luce, l’eccesso di luce, crea oscurità, abbaglia. Una luce di intensità molto superiore a quella che occupava il campo visivo diminuisce la capacità visiva dell’occhio, la confonde e la offusca, la rende cioè fosca, scura, nera. La mente, anch’essa come l’occhio abbagliata, vede in maniera torbida e offuscata. Prende un abbaglio (uno s-baglio) e cade nell’errore provocato dalla visione non chiara, opaca, deviata: una s-vista. L’etimologia di alcuni termini affini conferma l’intuizione: blenden è il verbo tedesco per «abbagliare», «abbacinare », e anche Blendung, il sostantivo femminile derivato, significa «abbagliamento» e «abbaglio», ovvero è l’errore e insieme l’illusione (la Blendfenster è la finestra che inganna, la finestra cieca, finta). L’inglese (e il tedesco) blind, «cieco», si collega al verbo to blend, «mischiare », nel senso anche di «rendere torbido». Alle spalle di questa costellazione di termini e di concetti si trova l’idea di una forte luminosità che acceca, incanta, inganna.
Anche la fede, «per troppo illuminare, accieca», annota brevemente ma acutamente Norberto Bobbio, subito dopo aver dichiarato di non essere uomo di fede. E aggiunge: «Donde nascono, se non da questo accecamento, gli aspetti perversi della religione?».[7]
Si tratta dell’accecamento provocato dal contemplare più luce/realtà di quanto ci competa fare. Tuttavia, non è questa luce che acceca una sorta di oscurità luminosa? Il senso finale è sì quello di condurre alla visione di una luce più brillante: ma non è questa una paradossale oscurità della conoscenza, piuttosto che dell’ignoranza? Un’oscurità che contiene la luce, un’oscurità luminosa più profonda della luce stessa?
Proviamo a ricostruire e seguire questo tema in due strutture narrative fondanti della nostra storia culturale: il mito della caverna di Platone e il passo del libro biblico dell’Esodo in cui è esposto l’incontro di Mosè con Dio sul monte Sinai.
Nella caverna platonica i prigionieri incatenati vivono nel loro mondo di ombre. Quando uno di loro, liberato dalle catene alle gambe e al collo, riesce a volgere lo sguardo alla luce esterna, ne è abbagliato. Costretto a fissarla, prova fitte dolorose agli occhi. Sofferente, recalcitrante, gli occhi pieni di luce sfolgorante, brancola come un cieco; si abituerà a poco a poco alla nuova condizione, fino a scorgere prima le ombre e le immagini delle cose riflesse nell’acqua, e poi le cose stesse. Ma, spiega Platone, prima di riuscire a fissare queste ultime avrà contemplato il cielo notturno e la luce degli astri e della luna; solo allora riuscirà a vedere il sole in sé, così come esso è (Repubblica VII, 516a-b).
Che si tratti di un’oscurità luminosa, di un buio che contiene la luce, lo esprime ancor più esplicitamente il mito biblico di Esodo 19-20. In preparazione dell’alleanza tra Dio e il popolo di Israele che si compirà nella teofania sul Sinai, il Signore, avvolto «nella densità della nube», parlò a Mosè, invitandolo a convocare i figli di Israele, sacerdoti compresi, ai piedi del monte e non più in alto. Sulla cima del Sinai «ci furono tuoni, lampi, una nube densa sulla montagna». Il Signore era sceso nel fuoco, ma la sua luce non si poteva scorgere, perché era coperta da una fitta nube. Fu da lì, dal buio della nuvola oscura, che Egli pronunciò le dieci parole del Decalogo.
Il prezzo della contemplazione della luce è dunque talvolta l’oscurità: ma non l’oscurità dell’ignoranza e nemmeno quella della morte; non l’oscurità quale assenza di luce, bensì l’oscurità luminosa che contiene la luce. Come scrive ancora María Zambrano,

nell’essere umano, come si sa, c’è luce nascosta nelle tenebre, ma è lei, la luce, l’inizio. E così l’Aurora non è il preludio, bensì il centro stesso del giorno nel mezzo della notte, il giorno-notte, la luce-tenebra che poi si separano senza perdersi l’una nell’altra. La vita stessa.[8]

A ulteriore conferma del fatto che il buio non è negativo, malvagio, cattivo. Non è un nemico da sconfiggere affliggendogli sempre più luce. Sopprimendo il buio si rischia di cancellare il sapere, ricco e importante, delle «feconde valli di oscurità e di penombra», nelle quali ci accingiamo ora a entrare.

Note
[1] G.W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, Bari, Laterza, 1965, p. 17.
[2] Parmenide, Poema sulla natura, fr. 9, vv.3-4, in I Presocratici, traduzione di G. Reale, Milano, Bompiani, 2006, p. 495.
[3] M. Eliade, Le symbolisme des ténèbres dans les religions archaïques, in «Études carmélitaines. Polarité du symbole», 1960, pp. 19 e 20.
[4] M. Pastoureau, Nero. Storia di un colore, Firenze, Ponte alle Grazie, 2008, p. 25.
[5] Le citazioni dall’Iliade sono tratte dall’edizione Einaudi, prefazione di F. Codino, versione di R. Calzecchi Onesti, 1990.
[6] Si veda: G. Borgonovo, La notte e il suo sole. Luce e tenebre nel libro di Giobbe. Analisi simbolica, Roma, Pontificio Istituto Biblico, 1995, passim.
[7] N. Bobbio, Capire prima di giudicare, in Id., Elogio della mitezza e altri scritti morali, Milano, il Saggiatore, 2006, p. 200.
[8] M. Zambrano, Prima dell’occultamento, in Id., Dell’aurora, cit., p. 53. La citazione successiva da: Id., Linguaggi non umani, ibidem, p. 102.

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Musiche
Murubutu – “Nyx – Conclusione”
Murubutu featuring Dutch Nazari and Willie Peyote – “Occhiali da luna”
James Blake – “Vincent”
Bruce Springsteen – “Dancing in the Dark”
Amy Winehouse – “Back to Black”

Brano corrente

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