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17 Aprile 2014 | Racconti d'autore

Cravatta a farfalla

Racconto di Eleonora Renda tratto dal libro omonimo (sottotitolo: “La piacevole vita di Eugenio Riccòmini fra bombe, quadri, libri e chiacchiere”, Bologna, Pendragon, 2014).

A cura di Vittorio Ferorelli. Lettura di Eugenio Riccòmini e Alessia Del Bianco.

Storico dell’arte, soprintendente, viaggiatore e divulgatore instancabile, Eugenio Riccòmini ama condividere con tanti ciò che pochi sono in grado di apprezzare davvero: il valore della bellezza. Eleonora Renda lo ha intervistato a lungo, invitandolo a raccontare gli episodi della sua vita. Come quello in cui, a 15 anni, sperimentò il mistero della creazione artistica.

Finalmente, il collegio d’estate chiude. Si va in Val Susa, proprio sotto la Sacra di San Michele, in una vecchia casa di campagna che appartiene alla matrigna piemontese. Una casa signorile circondata da prati e boschi, e quanto silenzio, quanto spazio, senza nessuno con cui giocare.
L’unico divertimento, insieme al fratello, è andare, accompagnati dal padre appassionato di montagna, a fare delle scalate.
[…]
La grande cascina è piena di libri d’arte e riproduzioni. Il padre della matrigna è stato editore d’arte, ha pubblicato libri di altissima qualità e vasta mole, talmente ambiziosi da condurlo al fallimento. Un anno, per esempio, ha progettato un enorme libro sull’Egitto, e ha mandato laggiù disegnatori, fotografi, architetti e acquerellisti a girare per un anno a spese sue e il libro, poi, era bellissimo. Da buon editore, quindi, ha riempito la casa di libri di ogni genere, in italiano e nel francese tanto parlato nella zona che anche il ragazzino, poi, finisce per imparare.
Libri di ogni genere, dunque.

Lì avvenne l’incontro primo con l’arte. Mi ricordo che vidi una riproduzione, allora non erano frequenti, di una natura morta di Cézanne: le solite mele, la solita brocca, un asciugamano bianco; guardando questa riproduzione dissi: “Beh, in fondo, se io avessi gli attrezzi, potrei farla anch’io, non è una cosa difficile”; questa cosa mi scappò detta a tavola e siccome stavo per compiere quindici anni e avevo avuto un’ottima pagella a scuola, mio padre – che anche se si chiamava di nome Generoso, di carattere era il contrario – mi chiese se volevo qualche regalo e io gli dissi che sì, certo, volevo una bicicletta da corsa, perché idolatravo Coppi, Bartali… Infatti, dopo due o tre giorni, da Torino mi arrivò una scatola grande, bella, di colori a olio con tutta l’attrezzatura, e io ci rimasi malissimo: la buttai in un angolo di una specie di officina che avevamo per riparare gli attrezzi agricoli.

Ma quanto silenzio, quanto spazio, senza nessuno con cui giocare, fra quei prati e quei boschi, quell’estate, lassù. Allora il ragazzino estrae dall’esilio del buio quella grande scatola di colori e posa su un tavolino un po’ di mele, una brocca, un asciugamano, e poi la tela sul cavalletto e, senza nemmeno sapere da dove cominciare, ecco, lì, il suo primo quadro.
Riposa sul cavalletto, quando la matrigna gli passa davanti e lo squadra: “È orribile. Se vuoi dipingere, bisogna che tu vada a scuola e impari”.
È così che, di ritorno a Parma, con l’estate che si avvia a finire, il ragazzino incontra il suo vero maestro, professore all’Accademia di Belle Arti: Nando Negri.

Gli ho dedicato un libro, addirittura, quando ero soprintendente a Parma. Ho fatto un libro sul Settecento parmense e l’ho dedicato a lui. Non sapevo neanche se fosse ancora vivo, ma dopo qualche giorno la mia segretaria mi dice: “C’è un signore che ha in mano il suo libro” ed era lui. Quando ha compiuto ottant’anni e i suoi amici hanno deciso di organizzargli una mostra, perché lui è bravissimo ma non ha mai fatto mostre, non ha mai partecipato a nulla, mi ha scritto una lettera chiedendomi se poteva citare quella mia dedica nel catalogo.

Nando Negri prende molto sul serio l’incarico che gli viene affidato e, nella sua villa poco fuori Parma, una o due volte alla settimana, aspetta che il ragazzino arrivi, in sella alla sua bicicletta, sotto il sole caldo, per due ore di lezione. Deve iniziare dal nulla, perché quel ragazzino non sa ancora niente e lui vuole portarlo a dipingere: occorrono anni di disegno, prima! Carboncino, matita, penna, sanguigna, e poi la mano diventa agile, impara a non esitare e, anni dopo, anche a guidare un pennello nei primi passi sulla tela.
Ma non è pittore, che quel ragazzino vuole diventare.

Ciò che già allora mi frullava per la testa era l’idea che non avevo i numeri per diventare un pittore, e poi la pittura già allora, e oggi ancora di più, era una cosa che non aveva nessun contatto con la pittura antica.
Oggi un artista che va alla Biennale magari non sa neanche dipingere, non c’è bisogno: usa altri mezzi, fa dei quadri col computer o mette insieme degli oggetti, fa delle installazioni; invece Negri mi insegnò a dipingere davvero, copiando sempre disegni antichi, difficili anche, da Michelangelo, Raffaello e Dürer, Piazzetta e tanti altri e alla fine io capii che quello era il modo migliore per apprezzare la qualità di un’opera d’arte antica.
E non è poco, per uno storico dell’arte approdare alla storia dell’arte per una via così diversa, perché gli storici dell’arte non hanno mai disegnato, non hanno mai provato a ripetere i gesti che conducono a un quadro, a una scultura. Questo lo si fa con la scrittura per esempio. Perché chi va a scuola, in qualunque scuola, e tanto più quando si arriva all’università, alla facoltà di Lettere, il perno della formazione è ripetere il gesto che hanno compiuto tutti gli scrittori prima, dalla Grecia antica fino a Pasolini, fino a oggi, per diventare pratici di un mestiere che è quello stesso di tutti gli scrittori da Omero in poi. Gli storici dell’arte non lo fanno, questo percorso; loro fanno esami di storia dell’arte, ma la storia dell’arte non è la comprensione dell’opera d’arte. È la narrazione attorno all’opera d’arte, e dentro non ci vai mai, non capisci come è fatta e alla fine puoi scrivere anche un bel libro su Raffaello, su Michelangelo, su Fragonard o su Cézanne, ma non hai mai provato a metterti in gara con loro. Questo è fondamentale per spiegare perché un quadro di Raffaello è bello, ed è una delle cose più difficili, oggi che il gusto è così cambiato e a volte quasi lo si deride, Raffaello, come si è deriso Annibale Carracci per anni, quando io ero all’università e mi dicevano che i Carracci era meglio non guardarli neanche perché non avevano inventiva; forse non avevano tutti i torti, rispetto a ciò che fa un dadaista o un futurista che nell’inventiva mette tutto e non c’è magari nessuna abilità di mano ma, allora, l’abilità di mano stava insieme con l’inventiva e un quadro non aveva nessun senso se era ben inventato e dipinto male.

I primi musei che il ragazzo frequenta e che gli aprono gli occhi non sono italiani. C’è una vasta zona d’Europa dove i prezzi sono così bassi da diventare appetibile meta di vacanza per la famiglia. Priva di mezzi, priva di turismo, con lunghe coste senza nemmeno una casa per chilometri e chilometri, a perdita d’occhio, la Spagna di Francisco Franco è per diverse estati la loro meta prediletta.

[…]

Noi giriamo nelle nostre città, che sono musei, e non ci accorgiamo quasi mai di nulla. Abbiamo una vista distratta, superficiale. Anche la facciata di una cattedrale francese, che è una ridda di avvenimenti, personaggi, demoni, angeli, donne, panneggi, la guardiamo in modo superficiale e sommario, senza pensare alle difficoltà che lo scultore ha dovuto superare, alla sua bravura nel condurre lo scalpello fra una piega e l’altra di un peplo, di una toga, di un drappeggio di un angelo e di una madonna. Ciò che non sappiamo ammirare è la bravura, la capacità di fare le cose che gli altri non sanno fare. 
Quando noi andiamo all’estero aguzziamo lo sguardo. Se andiamo a Parigi dobbiamo vedere il Louvre, i monumenti: quando siamo lontani osserviamo le opere d’arte, ma alla Pinacoteca di Bologna non ci va mai nessuno, perché è sempre qui e quindi noi bolognesi non ci andiamo.
Io invece sostengo che bisogna entrare, per esempio, nelle chiese. Intanto perché forse poi dopo serve, magari, chissà, lassù c’è qualcuno che se ne accorge, e poi perché le nostre chiese sono come musei. E sono oasi. Io spesso, quando giravo a piedi per la città, quando ero stufo del frastuono, dei tubi di scappamento, della gente, entravo in una chiesa. Addirittura avevo studiato dei percorsi per cui un pezzo di strada lo facevo dentro la chiesa: attraversavo San Petronio invece di fare il Pavaglione, e lo stesso per la chiesa dei Servi e per diverse altre. E lì dentro sei al riparo, nel silenzio, ti puoi perfino sedere e intanto aguzzi lo sguardo su bellissime cose. 
Per questo ho parlato tanto di Bologna ai bolognesi.
I bolognesi sono curiosi della propria città, ma non la girano con la guida in mano come farebbero i turisti. Io l’ho fatto: ho letto le guide e i testi antichi per scoprire le sue bellezze e perfino in tempi recenti sono entrato in luoghi che non conoscevo e che sono bellissimi, ricchi di stimoli.
Quando devo condurre qualcuno in giro per Bologna e ho poco tempo lo porto a vedere soprattutto due cose: il Compianto di Nicolò dell’Arca e la Boschereccia di Palazzo Hercolani.

Il Compianto non è una cosa tipicamente bolognese: l’artista era dell’Italia meridionale, si firmava Nicolas de Apulia; forse era pugliese, forse dalmata, di Ragusa, come si legge in certi documenti. È un’opera che ci fa capire che alla fine del Quattrocento il dolore e lo strazio, l’urlo e il pianto di fronte alla morte di un caro erano gli stessi di oggi. Le foto di certe madri piegate sul corpo dei figli durante la guerra d’Algeria mostrano che quelle donne sono similissime a quelle ritratte da Nicolò dell’Arca e quindi fra antico e contemporaneo ci sono ponti lunghi e noi siamo le stesse persone, con gli stessi sentimenti, le stesse emozioni, le stesse gioie e gli stessi dolori.
L’altra opera che, secondo me, è fra le più fascinose della città è la Boschereccia di Rodolfo Fantuzzi. La boschereccia è un’invenzione bolognese della fine del Settecento e quella di Palazzo Hercolani è stata dipinta da un pittore bolognese nel 1810. È una sala ovale completamente dipinta come se fosse un paesaggio, come se si fosse in piedi in mezzo a un grande giardino che continua anche sopra la testa: i rami si intrecciano, le rondini guizzano e sopra ancora c’è il cielo, solcato da qualche nube bianca. È una specie di finzione filmico-scenografica di grandissimo fascino che, pur essendo a Bologna, pochissimi conoscono. Io mi sono dato da fare perché le persone la conoscessero e l’ho anche inserita in uno di quei miei libretti sulla città.

Un tema di cui ho discusso parecchie volte, e che mi sta molto a cuore è questo: noi prendiamo bambini di cinque o sei anni e insegnamo loro l’alfabeto, poi a scrivere pensierini e alla fine del loro percorso scolastico pretendiamo che quegli ex bambini sappiano scrivere un saggio, il tema di maturità. Riusciamo, insomma, a fare di un analfabeta una persona che sa scrivere. Magari sa farlo male, magari esprimendo idee mediocri, ma lo sa fare. E lo stesso si fa, un po’ a scuola e poi nei conservatori, per la musica, insegnando a leggere le note, il solfeggio e portando i ragazzi a saper suonare uno strumento.
Se noi insegnassimo ai bambini di sei anni a disegnare, facendoglielo fare spesso, a diciotto anni noi avremmo pittori: alcuni mediocri, altri bravi, ma nessuno pretende che facciano i pittori per tutta la vita, come nessuno pretende che i ragazzi scrivano temi per tutta la vita anche se sono capaci di scrivere. Scrivere è una capacità che si dà per acquisita, dopo la scuola. Perché non lo è il disegnare? Se tutti gli italiani sapessero disegnare o dipingere il risultato non sarebbe quello di avere milioni di pittori, ma milioni di conoscitori di pittura. E questo sarebbe un nostro dovere, soprattutto per noi italiani che abbiamo così tante opere d’arte. Mi chiedo perché i nostri governanti non ci abbiano mai pensato, ma anche loro sono laureati tutti in legge ed economia e non sanno nemmeno tenerla, una matita in mano.
[…]

E quindi la morale della favola è questa: io sono contentissimo di aver scelto questo mestiere nelle due versioni di soprintendente, e cioè curatore della salute e sopravvivenza delle opere d’arte, e di narratore, avendo insegnato a centinaia di persone, giovani dell’università e meno giovani delle sale dei cinema, a vedere ciò che li circonda. Anche perché io sono comunista e di tutto quello che il Partito comunista italiano, soprattutto quello bolognese, ha significato, a me è rimasta questa idea: che chi sa deve spezzare il pane per gli altri e non può farsi forte di quello che sa e sfruttarlo a proprio beneficio; deve insegnarlo agli altri, come io ho fatto con i miei figli, con i miei allievi, con te e con tanta altra gente.
Questa è l’attività che forse mi convince di più e che mi ha cambiato la vita (anche se probabilmente non ne resterà nessuna traccia, se non nelle registrazioni filmate, e di questo un po’ mi dolgo): ho preso per mano i miei amici, o i miei affezionati ascoltatori, ho insegnato loro a vedere, ad aprire gli occhi e ho trasmesso loro, almeno in parte, il mio amore per la curiosità, per la conoscenza e per la bellezza.

Brano corrente

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