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3 Dicembre 2009 | Racconti d'autore

Da Bologna all’India

Il viaggio del Signor Marchese Francesco Pizzardi (1877-78), Bononia University Press, 2006. Seconda puntata

A cura di Claudio Bacilieri. Lettura di Fulvio Redeghieri.

3 dicembre 2009

La lettura che vi presentiamo è tratta dalle lettere, raccolte in volume a cura di Angelo Varni, inviate dall’India da Francesco Pizzardi, appartenente a una ricca famiglia bolognese che aveva possedimenti terrieri in pianura e un’importante partecipazione a diverse attività industriali, dallo sfruttamento delle miniere ai mulini meccanici. Cresciuto dunque in un ambiente benestante, Francesco Pizzardi può dedicarsi alla sua divorante passione per la caccia, che lo porta a esperienze di vita nei luoghi esotici, mosso da un irrefrenabile bisogno d’avventura.
Le lettere sono anche, di riflesso, una testimonianza dell’ambiente bolognese dell’epoca, ancora immerso nelle atmosfere risorgimentali, quando il trentunenne marchese lasciò la città per le sue escursioni esotiche. Il viaggio avviene, infatti, tra il 13 ottobre 1877 – data della partenza da Bologna per Brindisi, dove Francesco s’imbarca per Bombay sul piroscafo della Società Inglese Peninsulare e Orientale – al 30 maggio 1878, data dell’arrivo da Alessandria d’Egitto.


Bombay Calcutta 14 marzo 1878

Calcutta, 14 marzo 1878. Fin quì ho tenuto calcolo delle diverse date appoggiandomi ai brevissimi appunti che giornalmente prendevo al campo. Ora vi dirò in breve ciò che abbiamo fatto dopo il 3 Marzo.
Mr. Dalton ci pregò ad accettare per qualche giorno l’ospitalità in una delle sue tende, per assistere alle feste pel matrimonio del Rajah. Questo è un gio­vane di 15 anni, alla buona e educato completamente all’Europea. Veste all’Europea con una certa eleganza; parla inglese, monta a cavallo, gioca al criket a lawn tennis5, guida il suo Phaeton come un giovane elegante di Lon­dra. Viene quasi tutti i giorni da Mr. Dalton. Montammo a cavallo insieme una volta. È troppo grasso per essere un bel cavaliere. Sposa una ragazza di 10 anni di modesta condizione. Domanda] a Mr. Dalton se l’aveva vista ed egli mi rispose: «Diavolo! l’ho scelta io! ho impiegato 2 mesi per trovarla». Poi concentrandosi come per ricordarsi delle sue forme aggiunse: «ha dei begli occhi; un petto che promette; le anche sviluppate indicano un baccino piuto­sto largo; potrà fare dei figli robusti». Pareva che parli di una cavalla.

Gli Inglesi sono buffi! La famiglia della sposa è di religione Bramoh, mentre il Rajah è Hindu; i Bramoh credono in un Dio solo. Ci dicono che la funzione religiosa pel matrimonio comincia alle 8 1/2 pomeridiane. Ci rechiamo tutti sotto un padiglione apposito. Indovina a che ora il Rajah è comparso colla sposa? Alle 2 1/2 dopo mezzanotte!! Avevano impiegato quelle 6 ore nelle fun­zioni religiose di rito Bramoh, nell’interno del Palazzo, mentre in pubblico non si doveva procedere che alle cerimonie di rito Hindu. Il Rajah tutto vesti­to di rosso entra sotto un tempio di carta pesta, eretto per la circostanza; è tutto circondato di fiori finti, di papagalli di carta, di conchiglie ecct. Siede in terra sopra un tapeto. Portano la sposa a braccia sopra una specie di sgabello. È talmente coperta di gioje di ornamenti e di ciondoli, e si tiene talmente inmobile che noi tutti crediamo che sia un’idolo. È carina; tiene gli occhi bassi. Pare una madonna. Morivo di sonno e di noja. Trovo il Dr. Simpson che era nelle stesse disposizioni d’animo, e approfitto del suo legno e della sua compagnia per andarmene a casa e a letto. Mi dissero poi che avevano bruc­ciato dei profumi, fatto del baccano, urlato delle preci ecct.

Il Rajah è indi­pendente dal governo Inglese, e ha diritto di vita e di morte su i suoi sudditi. Il suo matrimonio è ora solo celebrato ma non consumato. Egli parte fra una settimana per l’Inghilterra, fermandosi in Italia e in Francia. Al suo ritorno prenderà possesso della moglie. La sera susseguente al matrimonio assistiamo ai fuochi d’artifizio in mezzo a una risaja. Poi il Rajah ci conduce in carrozza ad un vasto padiglione ove numerose nautch e un pubblico indigeno anche più numeroso, ci aspettano per cominciare lo spettacolo. Il Rajah però se ne va a letto. Finché alcune signore Inglesi (tutti mostri) furono presenti, le nautch furono insulse, ma partite quelle cominciarono un ballo così lascivo, così eccitan­te da far perdere la testa a un cantore della capella Sistina. E tutto questo con un aria compunta e modesta come se si vergognassero. Mi dicono che quando non vi sono Europei, e il pubblico è composto solo di indigeni, le cose sono spinte anche di più. Il padiglione è sontuoso; molto illuminato. In terra un tapeto bianco per far risaltare i vivissimi colori delle richissime vesti di queste donne. Non hanno di nudo che le braccia, e le lunghe sottane impediscono di vedere le gambe e i piedi che del resto sono piccolissimi. Hanno bellissime taglie come tutte le donne di questo paese, e belle braccia e belle mani.

I denti sono schifosi; mangiano continuamente dei bitter nuts che loro rendono i denti rossastri, quasi neri. Il loro ballo non è un ballo. Io lo chiamerei piutosto un coito simulato; certo è che è voluttuosissimo; quasi più voluttuoso del vero coito. La musica che le accompagna è incomprensibile per noi, ma non è ingrata e non stuona; è una specie di gemito continuo e monotono. Queste donne avanzano, rinculano, girano in tondo a piccoli passi; e siccome il movi­mento dei piedi non si vede, così pare che girino sopra delle roulettes, poi pie­gano le braccia, le stendono orizzontalmente, le irrigidiscono, e cominciano un movimento prima regolare e poi convulsivo colle anche simile a quello che accompagna l’atto del coito. E tutto questo cogli occhi bassi, la bocca seria, la fisonomia concentrata, come se, dimentiche dei cento occhi che le guardano, non pensassero che ad ottenere un desiderato e piacevole risultato.

Poi ad un tratto volgano intorno degli occhi languidi come per implorare l’ajuto di un uomo; siccome nessuno si muove uniscono le mani sul sotto ventre accompa­gnando con esse e secondando il movimento delle anche, quasi che un’istinto dicesse loro che in un caso disperato la mano può far le veci dell’uomo. Il pub­blico silenzioso non applaudisce mai, non ride mai; ma assiste con un racco­glimento religioso che dà a tutto l’insieme un carattere e una tinta di serietà, senza la quale (secondo me) non c’è vera libidine. Basta. Non ne parliamo più. È inutile che ti dica di non leggere questa lettera. L’ho gettata giù in fretta in questi pochi giorni che ho passato a Calcutta, grondando di sudore il giorno, e di sonno la notte (direbbe il Conte Biscia). È scritta male: ma non scrivo per gli altri, e mi basta che rileggendola un giorno, mi rammentino gli episodij più interessanti del mio viaggio.

Dalla nota che tu mi mandi risulta che ho ricevuto una lettera di più di quelle che tu mi haj scritto. Questo forma l’elogio del servizio postale. Rin­grazia tanto Gommi del gentile biglietto che acluse in una tua lettera e digli che appena avrò un momento di tempo gli risponderò direttamente. Intanto gli mando una buona stretta di mano. In una delle mie ultime ti parlaj di 3 casse e ti diedi la lista degli oggetti in esse contenute. Queste casse partiranno da Calcutta nella prima settimana di Aprile con un vapore della Società Rubattino chiamato Roma. Credo che vada a Genova. Godo che tutti gli oggetti spediti siano giunti in buono stato. È inutile che tu tenga pronte le £ 10.000 per me. Non ho bisogno di danaro per ora. Per la fine di Settembre prossimo fammi avere a Calcutta 1500 lire sterline in cheques della banca Coutts di Londra di Lire sterline 100 l’uno. Puoi mandare questo denaro in lettera assicurata o raccomandata al mio indirizzo a Calcutta aggiungendo le parole «Care of Italian Consul». Haj fatto benissimo ad incaricare Pierino di vendere il mio legno.

Quando Schmits ti manderà il danaro, gli risponderaj suppongo per rilasciarne ricevuta. Nelle ultime lettere non mi parli affatto di affari: suppongo che anderanno bene. E il famoso prestito? Ti confesso che sarei molto contenta di trovar tutto sistemato al mio ritorno. Mi dirai che mi piace di trovare la pappa fatta; ma giacché ti occupi di queste facende è meglio agire presto e energicamente. Guarda se puoi affittare. Credi è il miglior siste­ma. Non più pensieri, non più seccature. Sono in debito di una lettera a Carlo.

Lo pagherò quanto prima. Mi occuperò dei minerali, se mi fermerò più a lungo a Calcutta in altra epoca. Tutti i residenti Inglesi che ho conosciuto mi hanno parlato molto di cavalli, di caccia, ma nessuno di minerali. Forse capivano dalla mia fisonomia, che fra i tre regni della natura quello era il meno interessante per me. Se potrò mi dirigerò a persone competenti. Per pulire i vasi di ottone di Benares bisogna prima lavarli col limone, poi coll’ac­qua e asciugarli bene. Ti mando la lista dei vasi da me acquistati, coi relativi prezzi. Non sono cari. Domani partiamo per raggiungere una partita di caccia a cui fummo invitati dal Maharajah di Darbunga.

Non so quanto staremo assenti. Non credo più di un mese. Fino al mio ritorno probabilmente non avrò possibilità di scrivere.
P.S. Ti permetto di leggere il brano che riguarda le nautch a qualche vecchio libidinoso.
Checco

 

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