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4 Giugno 2020 | Racconti d'autore

Di guerra e di genti

Testi tratti dal volume omonimo (sottotitolo: “100 racconti della Linea Gotica”, a cura di Andrea Marchi, Gabriele Ronchetti, Massimo Turchi, Bologna, Pendragon, 2020)

Vittorio Ferorelli

Ripercorrere la nostra storia attraverso le vicende di uomini, donne, giovani e bambini che l’hanno vissuta: è questa l’intenzione dei 100 racconti ambientati tra Emilia-Romagna, Marche e Toscana nei giorni che andarono dall’estate del 1944 alla primavera del ’45, raccolti in un libro realizzato anche grazie alla legge regionale 3/2016, che promuove e sostiene la memoria del Novecento. Eccone alcune pagine, lette da Marzio Bossi dell’associazione “Legg’io”.

At sta bän!

Di Carlo Venturi “Ming”, di Casalecchio di Reno, vero bolognese di fiume, nato nel 1925, si può dire che abbia percorso il settore centrale della Linea Gotica come la spoletta volante fa con la trama e l’ordito di un tessuto, da nord a sud, da ovest a est. Con coraggio, prodigalità, stanchezza, azzardo e calcolo. Come partigiano, sempre.
Aveva diciotto anni nel settembre 1943, quando con alcuni compagni, andò alla ricerca di armi abbandonate dopo il tracollo. Trovarono una ventina di fucili al Lido di Casalecchio che nascosero per mesi in diversi ripari ben conosciuti da battitori dei luoghi, quali erano, compresa la soffitta della casa nella quale Carlo stesso risiedeva, alla Fondazza, sopra la testa di un attivista repubblichino. Nessuno spiffero, nessuna cauta, timorosa o obliqua ammissione, nonostante un interrogatorio pressante (perché in una realtà di borgate non mancano mai le voci). Fino alla consegna a certi emissari dei “ribelli” della Settima GAP “Bologna”, nella primavera del 1944.
Ma non è ancora Linea Gotica. È però tempo di andare, perché le bombe cadono sempre più vicino con il fronte che avanza, il desiderio di fare qualcosa brucia e l’inerzia uccide. Perché Carlo Venturi si sente un “ribelle”.
E allora a Sasso, a Vado (col paese che “pullulava di fascisti”) e ancora oltre, sempre a piedi con un curioso armamentario da viandante tipo Tempi moderni, alla ricerca della “Stella Rossa”, la formazione partigiana del comandante “Lupo”, ben noto anche nei dintorni della città.
Arruolato avventurosamente il 16 maggio, sospettato di essere una spia, costretto a scavarsi la buca che l’avrebbe accolto dopo l’esecuzione, salvato da ottime referenze giunte fortunosamente in tempo, stretta la mano al Lupo e armato con Sten, cinque caricatori e una “sipe”. Nome di battaglia “Casalèc”, Casalecchio. Pronto.
Mesi di sorveglianza, agguati, requisizioni, marce di trasferimento, contatti con le popolazioni, incontri improbabili e poco comprensibili (il marchese Beccadelli, padrone di mezza Fondazza di Casalecchio e ora amico del Lupo, mah!), fuoco amico a Cà di Marsili, con la morte di un partigiano a causa di un’azione sconsiderata e i tedeschi sempre più pressanti. Perché la Linea Gotica si faceva concreta sul serio, nei lavori di apprestamento e di rinforzo che colonne di reclutati della Todt compivano sotto l’attenta guardia di militari nazisti e nelle carte rinvenute in una camionetta tedesca assaltata da un distaccamento della Stella Rossa e consegnate agli alleati, che ringraziarono con un volantinaggio aereo.
Nell’estate del ’44 la brigata Stella Rossa visse momenti molto complessi e anche travagliati, con la separazione di un forte nucleo di partigiani capeggiati da Sugano Melchiorri, diversi spostamenti e combattimenti e il ritorno definitivo a Monte Sole dopo la metà del mese di agosto.
Ma Carlo Venturi non c’era più. Con un amico e compagno (o, almeno così credeva, prima di rivederselo settimane dopo come spia repubblichina), si fermò a Brento di Monzuno e, dal settembre, entrò nella Sessantaduesima brigata “Garibaldi”, tra le valli Zena e Idice, nei dintorni di Monterenzio, comandata dall’ottimo Aldo Cucchi “Jacopo”, Medaglia d’oro al valor militare. E riprese il suo nomignolo giovanile, “Ming”. In piena bufera militare. In piena Linea Gotica. Condizioni difficilissime, con poche armi, feroci combattimenti dappertutto ed esecuzioni di civili per rappresaglia.
Si trovava con l’amico “Cicci”, Sabattini Eugenio, diciassette anni e un bolognese detto “Timoshenko”, in località Sant’Anna, quando, disarmati, impegnati nel tentativo di “passare il fronte”, furono catturati dai tedeschi. Saltò fuori una pistola che non si sapeva a chi appartenesse. Ma tanto bastò perché il più anziano, Timoshenko, vent’anni, venisse immediatamente fucilato. Ming e Cicci utilizzati per alcuni giorni come trasportatori di munizioni e vettovagliamenti per chilometri in salita, una fatica disumana, con brodaglia per cibo e vessazioni per contorno.
Durante un cannoneggiamento americano, Ming trovò riparo dentro una buca riparata da un castagno. Tutto bene fin quando un tedesco, in malo modo, lo fece sloggiare per ricoverarsi al suo posto, lasciandolo allo scoperto. Il groviglio dei destini si incaricò di ristorare l’ingiustizia avvenuta. Al termine dello scontro, Ming era illeso, il soldato tedesco, dentro la buca, aveva una scheggia conficcata in una gamba e inveiva urlando contro di lui e la sua fortuna, zittito dai suoi. “At sta bän!”, ti sta bene, disse Ming a mezza voce.
E così arrivò la svolta. Abbandonati dai tedeschi al proprio destino, una mattina i due si trovarono di fronte le armi spianate degli americani che prima li interrogarono, poi li lasciarono senza mangiare, poi, dopo le loro lamentele, li caricarono di malavoglia e li portarono a Loiano, in una situazione desolata, per loro e per i civili rimasti. Erano giovani, erano partigiani, erano attivi. E si diedero da fare con sacchi di farina per impastare e cuocere del pane per tutti. Ma il comandante della piazza non apprezzò l’iniziativa autonoma e li spedì “in esilio” a Firenze, al Centro profughi. Un “at sta bän!” rovesciato.
Sarà ancora lunga la vicenda di Carlo Venturi. Perché la spoletta dovrà ancora volare all’ospedale San Gallo, dove lavorerà per gli americani a cibo e sigarette. Poi sul fronte di Lizzano, a fianco degli alleati, con il comandante “Armando”, incontrato casualmente nel capoluogo toscano. Qui conoscerà uno stile di combattimento organizzato e rigoroso. Qui, nel febbraio del ’45 sarà ingaggiato nella battaglia della Sassaia e ferito, con onore, insieme a uno statunitense che non avrebbe mai più incontrato. Sarebbe stato ricoverato a Pistoia, trascurato e mal curato, tanto da conservare alcune schegge nel corpo per tutta la vita. Sarebbe tornato a Lizzano, sarebbe stato disarmato dagli alleati, come tutti i combattenti partigiani, in modo da non poter partecipare attivamente alla liberazione di Bologna e trasferito a Pescia, in Toscana. Sarebbe, infine, tornato in jeep nella sua Casalecchio distrutta, guidato da un soldato di colore e in compagnia di “Elica”, un ex aviatore bolognese che non avrebbe più rivisto.
Cosa “ci sta bene”, si sarebbe domandato per tanti anni Carlo Venturi, dopo la guerra? La libertà ritrovata? La Repubblica conquistata? La democrazia realizzata? Il benessere acquisito? Le tante ingiustizie vecchie e nuove rimaste o intervenute? Perché, per un partigiano, la battaglia non si posa mai e non esiste buca, dietro un castagno, dove potersi acquattare e attendere che passi la buriana. Ecco, lottare “ci sta bene”.

[Andrea Marchi]

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Palìn di Gal

Il piccone regalatogli dal sottufficiale tedesco – insieme a una manata sulle spalle per aver fatto un buon lavoro – Paolo Crescentini lo conservò tutta la vita. Quell’attrezzo era stato, nel volgere di una notte, prima garanzia di incolumità e poi potenziale strumento di morte.
Era già buio quel 17 settembre 1944 a Montegiardino, il più meridionale dei nove Castelli della Repubblica di San Marino, dove le colline dell’antica “terra della libertà” si affacciano sul corso del fiume Marano, quando nella casa della famiglia Crescentini, a due passi dalla piazza del paese, fecero irruzione i tedeschi.
Già si sentivano, quella notte, provenire dalla vallata i sordi colpi dei cannoni in appoggio all’offensiva alleata in pieno svolgimento: dopo aver superato il fiume, le truppe dell’Ottava armata prendevano d’assalto la Repubblica di San Marino, solo fino a pochi mesi prima territorio neutrale e inviolato. La prima a farsi beffe di questo secolare status era stata l’aviazione inglese che, convinta della presenza tedesca, la mattina del 26 giugno aveva attaccato Città di San Marino, sganciandovi sopra oltre duecento bombe che avevano devastato gli edifici e ucciso 63 cittadini inermi.
Ai primi di settembre, poi, durante la ritirata dalla prima Linea Gotica, le truppe tedesche di Kesselring avevano pensato bene di occupare il territorio sammarinese, per sfruttarne la posizione panoramica come punto d’osservazione per le artiglierie. Così, tra il 17 e il 18 settembre, i reparti di ben tre divisioni alleate – la Cinquantaseiesima e la Quarantaseiesima britanniche, oltre alla Quarta indiana – cominciarono a risalire i pendii della Repubblica, mettendo in allarme rosso tutto lo schieramento tedesco.
In casa Crescentini, i soldati germanici cercavano manodopera e, soprattutto, il carro trainato dai buoi. Già due settimane prima, col fronte a Morciano, a ridosso del fiume Conca, il carro era stato requisito dai tedeschi per portare granate e munizioni dalle parti di San Giovanni, sotto le “penne” del monte Titano dove si stavano piazzando batterie di cannoni. Ma quella notte era diverso. Il carro e le braccia servivano per le mine con cui i tedeschi intendevano disseminare la strada principale di Montegiardino, in vista di una ormai inevitabile ritirata. Andarono Paolo e il padre Giuseppe, che tirò fuori dalla stalla i buoi e attaccò subito il carro.
Paolo Crescentini era un giovane di ventiquattro anni energico e attivo, sempre in movimento. Per tutti era “Palìn di Gal”, “Paolino dei Galli”, il soprannome che si porterà addosso tutta la vita, dovuto al gallo raffigurato sullo stemma di famiglia, ma anche, si dice, all’abitudine, fin da giovane, di alzarsi da letto molto presto, in competizione col primo canto del gallo. A lui toccò il piccone e il compito di scavare le buche per le mine. Mentre scavava, la notte era illuminata dai sinistri bagliori dei bengala che lasciavano intravvedere, sull’altro versante della valle, le colonne di soldati alleati che scendevano dalla strada di Montescudo.
Ventiquattro furono le buche scavate da Palìn, che poi accolsero altrettante mine. Ultimato il posizionamento, sempre sotto lo stretto controllo tedesco, il giovane fu obbligato anche a collocare per ognuna il relativo detonatore. Un ottimo lavoro, secondo i tedeschi, attestato dalla pacca sulla spalla a Palìn e dall’omaggio del piccone.
I tedeschi, nella frenesia di quelle ore, se ne andarono subito, così come Giuseppe Crescentini si avviò verso casa con i buoi, il carro e il fosco pensiero di cosa avrebbe potuto accadere in quella notte da tregenda. Paolo, invece, si attardò sulla strada appena minata e, quando fu certo che i tedeschi se ne fossero andati, con il favore dell’oscurità, piccone in mano, si mise a riscoprire le mine, disinnescando i detonatori che aveva collegato poco prima.
Lo fece d’istinto, senza pensare, dando soddisfazione a quell’irrequietezza tipica della sua natura. Se lo avesse fatto, anche solo per un istante, il rischio tremendo che si accingeva a correre lo avrebbe sicuramente distolto dai suoi propositi, consigliandogli l’immediato rientro a casa. Prevalse invece in lui l’impulso a neutralizzare quegli ordigni, sicuramente destinati, di lì a poche ore, a produrre lutti e distruzioni al suo paese.
Così come li aveva collegati, con procedimento inverso tolse uno a uno tutti i detonatori, ricoprì le buche e se ne ritornò a casa, nascondendo gli inneschi in un barattolo sotto a un tino.
Poche ore dopo, all’alba del 18 settembre le truppe gurkha andarono all’assalto del monte Pulito e la Quarta divisione indiana continuò ad avanzare nei giorni successivi verso il monte Titano giungendo fino a Valdragone, dove i tedeschi resistevano strenuamente. Anche gli scozzesi Cameron ebbero del filo da torcere per conquistare Borgo Maggiore, liberata a mezzogiorno del 20 settembre, prima di raggiungere, verso sera, Città di San Marino ormai abbandonata dai tedeschi che, usciti dai confini della Repubblica, si ritirarono sulla nuova linea difensiva posta fra Torriana e Santarcangelo. Lo stesso giorno, l’avanzata indiana verso Montegiardino e Fiorentino non trovò particolari resistenze, essendo quella porzione di territorio ormai fuori dalla linea di difesa tedesca.
La mattina del 20 settembre le truppe gurkha entrarono a Montegiardino percorrendo quella strada prima minata e poi resa sicura un paio di notti prima dal coraggioso gesto di Palìn di Gal. Ma, nonostante questo, era destino che Montegiardino dovesse piangere vittime di guerra tra la popolazione. Nella gioia incontenibile dell’arrivo dei liberatori, tutta la gente uscì dai rifugi di fortuna nelle grotte sotto il castello e scese in piazza a festeggiare. All’improvviso, nelle primissime ore del pomeriggio, cominciarono a piovere sul paese granate tedesche. Nove persone rimasero sul selciato, fra cui i fratelli Giuseppe e Domenico Pietro Casadei della Guardia civile ausiliaria, addetti alla scorta del capitano reggente Sanzio Valentini, che rimase ferito. Tra le vittime, anche Primo Pasquali, padre di Agata, fidanzata e futura moglie di Palìn.
Nell’estate del 2012, sessantotto anni dopo quei tragici fatti, nella piazza di Montegiardino già intitolata a loro, fu apposta una targa alla memoria dei fratelli Casadei.
Paolo Crescentini, il mitico Palìn di Gal, minatore per obbligo e sminatore per coraggio, morto nel 1999 dopo una vita trascorsa sui camion di linea, ancora attende un riconoscimento per quel gesto – un po’ eroico, un po’ incosciente – compiuto in una notte del settembre ’44, che salvò il Castello di Montegiardino da lutti ancor più gravi.

[Gabriele Ronchetti]

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Il libro “Di guerra e di genti. 100 racconti della Linea Gotica” ‒ promosso dall’associazione “Linea Gotica – Officina della Memoria” e pubblicato con il contributo di EmilBanca, Comitato regionale per le Onoranze ai Caduti di Marzabotto, Unione dei Comuni Appennino Bolognese ‒ contiene testi di: Daniele Amicarella, Rinaldo Falcioni, Maria Angela Ferrara, Andrea Marchi, Luca Morini, Giancarlo Rivelli, Gabriele Ronchetti, Lamberto Stefanini, Massimo Turchi.
Il lavoro di ricerca storica per realizzare i racconti è stato in parte finanziato dalla Regione Emilia-Romagna nell’anno 2018 sul bando “Sostegno ad iniziative di valorizzazione e divulgazione della memoria e della storia del Novecento promosse da istituzioni e associazioni senza fine di lucro” (Legge regionale n. 3/2016).


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Musiche
Üstmamò – “Siamo i ribelli della montagna”
CCCP – “Spara Jurij”
Luciano Renan – “Bella Ciao”
Tosca – “Bella ciao – Live Primo Maggio 2020”
Ivano Fossati – “Il passaggio dei partigiani”
Francesco De Gregori – “La storia”


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