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27 Gennaio 2021 | Racconti d'autore

Dipinti a voce

Testo tratto dal libro omonimo di François Le Lionnais (sottotitolo: “Sopravvivere con l’arte in un lager nazista”, a cura di Roberto Alessandrini, Bologna, Marietti 1820, 2021)

Vittorio Ferorelli

Nel 1944 i nazisti deportano l’ingegnere François Le Lionnais nel campo di concentramento di Mittelbau-Dora, dove insieme ai prigionieri politici come lui sono rinchiusi anche molti ebrei, sinti, rom e internati militari italiani. Mentre lavora alla costruzione dei missili V-2 (e ne sabota con cura il funzionamento) escogita la sua personalissima strategia di sopravvivenza: ricorda le opere d’arte che ama e le descrive ai suoi compagni di prigionia. Sopravvissuto alla violenza nazista, Le Lionnais metterà a frutto il suo talento di scrittore e fonderà con Raymond Queneau la celebre “Officina di letteratura potenziale”. Nel “Giorno della memoria” vi proponiamo le prime pagine del racconto in cui rievoca i suoi “dipinti a voce”, ringraziando per la lettura l’attore Faustino Stigliani. Il Museo ebraico di Bologna pubblica la videolettura integrale.

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A Henri Seeliger
In ricordo della gioia di essersi ritrovati


Accadde un mattino, nel corso di una di quelle adunanze alle quali eravamo abituati. Eravamo alcune migliaia di detenuti e ristagnavamo sul piazzale dell’appello mentre era in corso una perquisizione generale.
Il mio sguardo si posò istintivamente sulla collina che sorgeva a lato dell’infermeria. L’autunno finiva di dispiegarsi. Fu allora che, senza preavviso, i grandi alberi spogli piombarono su di me e mi rapirono. A un tratto l’inferno di Dora si trasformò in un Breughel [sic] del quale ero l’ospite. Favorita indubbiamente dalla prostrazione fisica e mentale nella quale tutti noi ci trovavamo, un’intensa esaltazione s’impossessò di me: l’impressione di essere evaso, come avrebbe potuto fare un filo di fumo, sotto l’occhio di quegli stupidi guardiani.
Fu un’euforia di breve durata. Ma fu abbastanza lunga da permettermi di sopportare la robusta raffica di colpi e pugni e schiaffi da staccare le mascelle (ancora un caso in cui appare evidente la superiorità espressiva del linguaggio popolare sul vocabolario accademico: si dovrebbe dire “sberle”) che mi toccarono in sorte quando fu il mio turno per la perquisizione.
Seppi allora di essere stato nuovamente sedotto dal richiamo di un’antica passione. Tuttavia, dovetti reimpararla da capo. Quel processo di nuovo apprendimento sarebbe avvenuto nel mio “blocco”.
I blocchi venivano talvolta decorati con dipinti che erano il frutto del talento dei detenuti. Non si trattava tanto di un modo piacevole per intrattenerci, quanto di abbellire un angolino della nostra prigione, quello che i nostri capi-blocco, veri e propri potenti potentati, si erano riservati. Per lo più quei dipinti non erano di alcun interesse e oscillavano tra la Fiera delle Croste e il Salone degli Artisti Francesi.
Nondimeno, ce n’era uno che mi affascinava. Rappresentava un corso d’acqua nel sud della Germania, o in Tirolo (almeno credo). Giungendo dal fondo della tela, il fiume si precipitava addosso allo spettatore. La corrente era allo stesso tempo agitata e perfettamente immobile. Saldamente inalberata su una zattera, una guardia forestale la governava insieme a un carico di legna.
Per la totale e felice inesperienza nella sua arte, il pittore aveva dipinto una zattera leggermente più ampia del corso d’acqua. L’opera avrebbe potuto partecipare degnamente alla Mostra dei Pittori Popolari della Realtà, dove avevo trascorso piacevoli momenti nel 1937, oppure alla recente Mostra dei Pittori Autodidatti. Avrei portato volentieri con me quel piccolo pannello di legno colorato: i nazisti impedirono la realizzazione del progetto, obbligandoci a evacuare Dora alcuni giorni prima della Liberazione.
Nel campo di concentramento avevo conosciuto due o tre pittori. Ma li incontravo di rado, per le difficoltà connesse al mestiere di detenuto, e per altro non cercavo affatto la loro compagnia. Non avevamo lo stesso modo di comprendere e amare la pittura. Sull’argomento preferivo intrattenermi con il miglior amico che avevo lì, un giovane al quale mi ero legato come accade solo in queste circostanze eccezionali e che, ahimè, non sarebbe sopravvissuto a quella terribile avventura: si chiamava Jean Gaillard.
Tanto intelligente quanto sensibile, era avido di sapere tutto ciò che riguardava le cose dello spirito. Trascorrevamo insieme tutto il tempo che ci era concesso per tracciare il periplo della conoscenza umana, una sorta di inventario di ogni cosa che le diverse civiltà hanno saputo realizzare.
Per il mio amico ripercorsi la storia della teoria dei numeri, che ben presto sviluppammo in una storia più generale della Matematica. E poi fu il turno dell’Elettricità, dell’Ottica e della Chimica. Deviammo verso la Filosofia, di cui ricostruimmo la traiettoria, dalle teogonie primitive all’esistenzialismo e al marxismo. Arrivò il giorno della Pittura, e Jean mi chiese di condividere ciò che sapevo e pensavo sull’argomento.
Iniziai con l’esporgli il progetto del mio grande libro sulla Pittura. L’opera (che, per mancanza di tempo, ha serie probabilità di non vedere mai la luce) propone sull’argomento il punto di vista di un matematico dilettante e, dunque, un punto di vista di fantasia. Per illustrare la mia teoria delle “due porte” e alcune altre tesi (che non mancarono di scandalizzarlo piacevolmente) sarebbe stato necessario servirmi di numerosi esempi, precisi e tangibili. Purtroppo, non potevo mostrargli le opere e nemmeno delle riproduzioni. Ci dovemmo accontentare di un espediente: gli descrissi quelle opere nel modo più minuzioso durante le interminabili ore di attesa sul piazzale dell’appello.
Dotato di un’eccellente memoria, Jean riuscì nell’impresa di familiarizzare con alcuni quadri celebri, al punto di essere in grado di discuterne con più cognizione di causa di tanta gente che li aveva osservati senza comprenderli, senza amarli e, credo, spesso senza vederli.
Fu così che contemplammo a lungo con gli occhi della mente la Madonna del cancelliere Rolin di Van Eyck. Proiettavo, come attraverso una lanterna magica, lo sguardo severo del donatore, i conigli pigiati sotto le colonne, l’ebbrezza di Noè narrata su un capitello, i piccoli ciuffi di erba che crescono tra la pavimentazione del cortile e i sei gradini della scalinata che conduce alla terrazza, tutti i dettagli del traffico fluviale e il fermento cittadino sullo sfondo.
Le tragiche diagonali intrecciate delle Stigmate di san Francesco di Giotto lo sconvolsero, la tenera e deliziosa Decapitazione dei santi Cosma e Damiano del Beato Angelico lo affascinarono. Compimmo lunghe escursioni presso il Trittico delle Tentazioni di sant’Antonio di Bosch (a Lisbona); la Vergine delle rocce di Leonardo; un certo tondo del Perugino (che si trova al Louvre e rappresenta la Vergine tra santa Rosa, santa Caterina e due angeli) al quale non si presta l’attenzione che meriterebbe (e soprattutto non si presta attenzione alla circostanza che non ci si possa opporre alla mitezza – indiscutibile – delle figure, il problema è altrove); Lot e le sue figlie di Luca da Leida, di straordinaria atmosfera apocalittica; la Melencolia di Dürer (della quale ricostruimmo il quadrato magico, ricordandoci che contiene la data della sua creazione: 1514); quel piccolo Veronese del Museo di Grenoble che rappresenta l’apparizione di Cristo alla Maddalena e che probabilmente non è il più notevole fra i quadri celebri del Veronese, ma senz’altro il più magico che io conosca. (Non avendo ancora rivisto il quadro, mi chiedo se la veste di Maria Maddalena è davvero quella – da fata – che credo di ricordare).
Pietra su pietra, costruivamo il più meraviglioso museo del mondo. In tal modo, finimmo per estrarre da ciascuna opera un solo dettaglio, talvolta due, infinitamente più sonori, pesanti, giusti – più veri della miserabile realtà che ci stritolava senza per questo vincerci. La Kermesse fiamminga di Rubens ci consegnava la piccola gelosa in primo piano, a sinistra, e al contempo, a destra, il prodigioso passaggio dalla tumultuosa umanità alla malinconica pacificazione della natura. Rubammo il grappolo d’uva all’Allegoria della fecondità di Jordaens, il ciuchino del Cespuglio di Ruisdael, la tovaglia miracolosa della Cena in Emmaus. Entrammo col cuore in gola nella stanza che fa da sfondo a Las Meninas

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Musiche
Wolfgang Amadeus Mozart – “Quintetto in la maggiore per clarinetto K. 581 – 1. Allegro” (David Shifrin – Emerson String Quartet)
Claudio Monteverdi – “Zefiro torna” (Nuria Rial, Philippe Jaroussky, Christina Pluhar)

Brano corrente

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