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9 Gennaio 2020 | Racconti d'autore

E cielo e terra

Testo tratto dal libro di Marco Martinelli “Nel nome di Dante. Diventare grandi con la Divina Commedia” (Milano, Ponte alle Grazie, 2019)

A cura di Vittorio Ferorelli e Rita Giannini. Lettura di Ermanna Montanari

Regista e drammaturgo apprezzato dentro e fuori i confini italiani, cofondatore del Teatro delle Albe a Ravenna, Marco Martinelli sperimenta da molti anni la “non scuola”, una pratica teatrale che mette in contatto diretto i grandi autori con gli adolescenti. A loro, in particolare, è dedicato il libro in cui racconta che cos’ha da dirci, ancora oggi, Dante Alighieri. Ringraziamo per la lettura l’attrice e autrice Ermanna Montanari.

Se mai continga che ’l poema sacro
al quale ha posto mano e cielo e terra
sì che m’ha fatto per molti anni macro.
Paradiso, XXV, 1-3

Andiamo all’origine. Alla scintilla, da cui è nato l’incendio. Dimenticate ciò che intimidisce. Dimenticate il nome altisonante nei secoli. Dimenticate i monumenti sparsi in tutta Italia e nel mondo, la corona di alloro sulla testa di pietra, dimenticate la pietra, dimenticate le ore di scuola in cui pensavate ad altro mentre il professore vi leggeva quel poema noioso e incomprensibile, dimenticate quella cantilena, dimenticate come ce lo hanno sempre presentato, con spreco di maiuscole, il Genio Universale, il Poeta Sommo, il Creatore della nostra lingua, dimenticate tutte le maiuscole, dimenticate il massiccio imponente, la montagna che fa paura, che non si può scalare. All’origine non c’è una montagna. C’è un bosco, buio, in cui vi siete persi, in cui tu, tu che mi stai leggendo, ti sei perso. Io? Proprio io? È di me che si parla?

All’origine c’è un uomo perduto in una selva. È la selva oscura delle sue paure, della sua disperazione, dei suoi errori. È il suo fallimento, quella selva, amaro come tutti i fallimenti, come tutte le sconfitte, amaro come la morte. Vi ricorda qualcosa questa immagine? Qualcosa che avete vissuto, qualcosa che state vivendo ora, proprio ora, mentre vi parlo? Quella selva piena di legni storti, che ci fa le cose stonate, che ci impedisce l’abbraccio. Che ci fa acida la bocca, che ci strozza il respiro. Ma quando ci sono caduto dentro? Ma come è potuto accadere? Quell’uomo non sa rispondere. È forse l’amarezza nata da un abbandono, dall’essere o avere abbandonato, da una ferita che non si rimargina, di cui solo il ferito balbetta il nome? Stavo dormendo forse, quando la vita mi si è accartocciata tra le mani, come un foglietto illeggibile? Forse. Ma com’è che non me ne sono accorto? Certo quel sangue che sgocciola è il mio, adesso sì che me ne accorgo, adesso sì che quella ferita mi svuota il cervello, che quel dolore mi impedisce di respirare. Quell’uomo nel bosco dai rami intricati, in una notte che pare non finire mai, siamo tutti noi. È l’umanità, uomini e donne. Sei tu, mio lettore. Sono io.

E quando ci pare di poterne uscire, quando un raggio di luce filtra tra le ombre dei rami, ecco che si fanno avanti tre bestie feroci, per divorarci. Anche qui, ve lo chiedo ancora, vi ricorda qualcosa questa immagine? La sensazione di essere fatti a pezzi, dell’alzarci la mattina e sentire che il corpo non è intero, che non ce la possiamo fare, che è troppo faticoso ricominciare, che forse era meglio restare nel magma indifferenziato del sonno, restare ombra tra le ombre, e non affrontare, ancora, ancora oggi, quella insensatezza che è la vita, quel branco di belve là fuori, pronte a sbranarci, anche solo con uno sguardo, con un giudizio cattivo. È tutta qui? ‒ ci siamo domandati in certi istanti del nostro cammino ‒ è tutta qui la vita? Quante volte ce lo siamo domandati: è tutta qui la vita? Nel mezzo di una lite feroce, davanti a una violenza incomprensibile, davanti al cadavere di un amico, nel lento scorrere degli anni, sospesi tra la paura di essere inadeguati davanti alle sfide o ubriachi di presunzione, è tutta qui, è questa orrenda stupidata, e noi non siamo che pacchi, spediti dalla sala parto al becchino?

Il poema così puntigliosamente autobiografico, pieno di fatti e persone, e vicende storiche che riguardano, da vicino o da lontano, un certo Dante Alighieri, nato a Firenze nel 1265, inizia con un uomo senza nome. Smarrito. E il suo nome apparirà un’unica volta in quei 14.233 versi, nel canto XXX del Purgatorio, e sarà Beatrice a pronunciarlo. E Dante quasi si scusa: nel volgersi, al suono del suo nome, aggiunge che per «necessità» lo ha dovuto mettere, perché se questo pellegrinaggio dalle tenebre alla luce riguarda l’umanità intera, la rampogna che Beatrice ora gli farà, la colpa che Beatrice ora gli ricorderà, il pentimento che Beatrice ora esigerà, riguardano lui e nessun altro, Dante Alighieri, fiorentino, qui rosso per la vergogna.

All’inizio del viaggio c’è la paura, e la paura fa a pezzi.

Andare verso l’Alto significa anche andare verso l’Altro. L’uomo sta per essere divorato dalle belve. Vede un’ombra farglisi incontro. Che fa? Chiede aiuto. «Miserere di me». Abbi pietà di me, chiunque tu sia. Che invenzione, quell’implorare aiuto metà in latino e metà in volgare, come sarebbe oggi partire con una frase in italiano e poi cadere nel dialetto, che invenzione! Gridata quindi non da un dotto che sa parlare, che si controlla, ma da un comune mortale le cui gambe tremano. Quell’espressione pasticciata è il corpo, è il suo affanno a gridarla. E l’aiuto arriva. Qualcuno gli tende una mano. A guidarlo, dal basso profondo dell’inferno fino alle luci del paradiso, saranno in tre: Virgilio, un pagano ‒ pensate che scelta ardita per quell’epoca: Dante non si fa guidare da un santo eremita, da un credente, ma dal suo maestro di poesia, confinato nel Limbo ‒, e Virgilio lo scorterà fino al paradiso terrestre, e lo consegnerà a Beatrice, e con Beatrice ascenderà all’Empireo dei beati, e là, negli ultimi passi, sarà san Bernardo a pregare per lui la Vergine, a metterlo di fronte al Mistero. Una catena di mani.

Qual è il punto? Il punto decisivo, qual è? È quello che Dante scrive nell’Epistola XIII a Cangrande: ho composto la Commedia per rimuovere i mortali dallo stato di miseria e condurli alla felicità. Splendida megalomania dei poeti! La felicità, nientemeno! Non li ha scritti, quei 14.233 versi, per compiacere un principe o vincere un premio letterario o crogiolarsi nei talk-show televisivi (diremmo oggi). Li ha scritti per condurci alla felicità. Tutti noi, anche tu, mio lettore. Che presunzione. A guardarci bene, che insolenza.
Eppure noi tutti sappiamo che il punto, il punto che grida dentro di noi, è proprio quello: il nostro desiderio. Abbiamo fame di luce. E Virgilio, il «dolce padre» come lo chiama Dante, glielo spiega per bene: se vogliamo arrivare alla luce, dobbiamo prima attraversare le tenebre. E passare attraverso l’inferno, il «cieco carcere», il labirinto in cui l’umanità si trasforma in mostro, e guardare in faccia il male, in tutte le sue orride variazioni. Dobbiamo sostenere lo sguardo, senza paura, «specchiarci» in quella rovina che è l’uomo, in quell’inferno di distruzioni che ognuno di noi ‒ nessuno escluso ‒ può infliggere agli altri e a se stesso. Noi contemporanei l’inferno lo conosciamo bene. Siamo specialisti di inferni, e soprattutto di inferni senza uscita.

[…]

Ma da questo inferno si esce. Camminando. La guida Virgilio davanti, e Dante dietro. L’anima ce la salviamo con i piedi. Scrive il poeta russo Osip Mandel’ŝtam: «L’Inferno, e ancor più il Purgatorio, celebrano la camminata umana, la misura e il ritmo dei passi, il piede e la sua forma. Del passo, congiunto alla respirazione e saturo di pensiero, Dante fa un criterio prosodico. Egli designa l’andare e il venire ricorrendo a un gran numero di espressioni multiformi e affascinanti. In Dante, filosofia e poesia sono sempre in cammino, sempre in piedi». Mandel’ŝtam ha scritto queste frasi nel 1933 nella sua Conversazione su Dante, prima di morire in un campo di concentramento stalinista.

L’inferno è una voragine immensa, un pozzo che, cerchio dopo cerchio, arriva al centro della terra. Dante e Virgilio discendono, è quella la direzione del loro movimento, e in quel loro discendere vedono come la violenza possa sfigurare il volto dell’umanità. Al centro della terra, il corpo gigantesco di Lucifero, l’angelo ribelle, la cui caduta dai cieli ha provocato la voragine infernale: uno schianto enorme, all’inizio dei tempi, e da allora il Male assoluto è là, in fondo, là conficcato. Lucifero è il traditore di Dio, è uno spaventoso mostro a tre teste, e nelle sue tre bocche maciulla Bruto e Cassio, i traditori dell’impero, e Giuda, che ha tradito Cristo. Per Dante, accusato ingiustamente di tradimento dai suoi nemici, è proprio il tradimento il male più grande.
Si esce «a riveder le stelle», ci si trova al finire della tenebra su una spiaggetta. Il Purgatorio è la cantica del ricominciare. Si può ricominciare? Dopo un fallimento, una sconfitta, una delusione? Ce la facciamo, a cavarci dalla bocca quell’amaro che sa di morte, a ritrovare il gusto della vita? Si può ancora sorridere, dopo che l’angoscia ti ha serrato il cuore con le sue tenaglie, fin quasi ad arrestarlo? Certo che si può. È come ritornare sui banchi di scuola, in prima elementare, e apprendere una lingua nuova. Hai sfogliato il catalogo di tutte le violenze e di tutti gli orrori, hai scrutato nel buio di tutti quei volti malvagi che sono il tuo volto, ora apprendi l’alfabeto della compassione. Per questo il Purgatorio inizia all’alba, con un colore del cielo disegnato da un verso che Borges definiva il più bello di tutta la Commedia: «Dolce color d’oriental zaffiro». L’interminabile notte è terminata. Al buio fa seguito l’azzurro. Sveglia presto, e tutti a scuola. Davanti a Dante, una sfilza di penitenti, che sono al contempo allievi e maestri: ricordando a Dante e al lettore e a sé stessi il proprio peccato, mettono tutti sulla via di una vita nuova.

non v’accorgete voi che noi siam vermi
nati a formar l’angelica farfalla,
che vola alla giustizia sanza schermi?
(Purgatorio, X, 124-126)

Musiche di Federico Mecozzi tratte dall’album “Awakening” (Warner Music Italy, 2019)

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