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20 Settembre 2012 | Racconti d'autore

Giacomo Leopardi. Lettere da Bologna

A cura di P. Palmieri e P. Rota, Bononia University Press, Bologna 2008.

A cura di Claudio Bacilieri. Lettura di Fulvio Redeghieri.

20 settembre 2012

Nel luglio 1925 Leopardi parte da Recanati per Milano, chiamato dall’editore Stella a dirigere l’edizione completa delle Opere di Cicerone. Sosta a Bologna dal 17 al 26 per incontrare amici, trovando la città, come scriveva al padre Monaldo il 22, “quietissima, allegrissima, ospitalissima”. Arrivato a Milano, la capitale del romanticismo gli appare indifferente; torna quindi a Bologna, roccaforte del classicismo liberale, che lo accoglie benevolmente nella casa al numero 33 della centralissima via Santo Stefano. Rimarrà a Bologna, salvo una breve parentesi, dal 29 settembre 1825 al 3 novembre 1826, e vi tornerà dal 26 aprile al 20 giugno 1827 e per una decina di giorni nel maggio 1830.

Le 143 lettere scritte da Bologna e le pagine bolognesi dello Zibaldone, testimoniano che nella nostra città si è formata una parte importante del pensiero leopardiano. E’ qui, infatti, che prende forma una delle più drammatiche allegorie del poeta: quella del giardino-ospedale, generata, forse,  dalla visione del celebre “Giardino delle Esperidi” di Casa Rossi-Martinetti.

Vi leggiamo questa intensa pagina dello Zibaldone scritta a Bologna tra il 19 e il 22 aprile 1826, facendola seguire da una lettera inviata il 3 luglio 1826 al padre, che si preoccupava per le notizie di “omicidii” che venivano da Bologna.  

Dallo Zibaldone, 19-22 aprile 1826

Tutto è male. Cioè tutto quello che è, è male; l’esistenza è un male e ordinata al male; al fine dell’universo è il male; l’ordine e lo stato, le leggi, l’andamento naturale dell’universo non sono altro che male, nè diretti ad altro che al male. Non v’è altro bene che il non essere; non v’ha altro di buono che quel che non è; le cose che non son cose: tutte le cose sono cattive. Il tutto esistente; il comples­so dei tanti mondi che esistono; l’universo; non è che un neo, un bruscolo in metafisica. Lesistenza, per sua natura ed essenza propria e generale, è un’imper­fezione, un’irregolarità, una mostruosità. Ma questa imperfezione è una picco­lissima cosa, un vero neo, perchè tutti i mondi che esistono, per quanti e quanto grandi che essi sieno, non essendo però certamente infiniti nè di numero nè di grandezza, sono per conseguenza infinitamente piccoli a paragone di ciò che l’universo potrebbe essere se fosse infinito; e il tutto esistente è infinitamente piccolo a paragone della infinità vera, per dir così, del non esistente, del nulla.

Questo sistema, benchè urti le nostre idee, che credono che il fine non pos­sa essere altro che il bene, sarebbe forse più sostenibile di quello del Leibnitz, del Pope ec. che tutto è bene. Non ardirei però estenderlo a dire che l’universo esistente è il peggiore degli universi possibili, sostituendo così all’ottimismo il pessimismo. Chi può conoscere i limiti della possibilità?

Si potrebbe esporre e sviluppare questo sistema in qualche frammento che si supponesse di un filosofo antico, indiano ec.

Cosa certa e non da burla si è che l’esistenza è un male per tutte le parti che compongono l’universo (e quindi è ben difficile il supporre ch’ella non sia un male anche per l’universo intero, e più ancora difficile si è il comporre, come fanno i filosofi, Des malheurs de chaque étre un bonheurgénéral. Voltaire, Epitre sur le dèsastre de Lisbonne. Non si comprende come dal male di tutti gl’indivi­dui senza eccezione, possa risultare il bene dell’universalità; come dalla riunio­ne e dal complesso di molti mali e non d’altro, possa risultare un bene). Ciò è manifesto dal veder che tutte le cose al loro modo patiscono necessariamente, e necessariamente non godono, perchè il piacere non esiste esattamente par­lando. Or ciò essendo, come non si dovrà dire che l’esistere è per sè un male?

Non gli uomini solamente, ma il genere umano fu e sarà sempre infelice di necessità. Non il genere umano solamente ma tutti gli animali. Non gli ani­mali soltanto ma tutti gli esseri al loro modo. Non gl’individui, ma le specie, i generi, i regni, i globi, i sistemi, i mondi,

Entrate in un giardino di piante, d’erbe, di fiori. Sia pur quanto volete ridente. Sia nella più mite stagione dell’anno. Voi non potete volger lo sguardo in nessuna parte che voi non troviate patimento. Tutta quella famiglia di vegetali è in istato di souffrance, qual individuo più, qual meno. Là quella rosa è offesa dal sole, che gli ha dato la vita; si corruga, langue, appassisce. Là quel giglio è succhiato crudelmente da un’ape, nelle sue parti più sensibili, più vitali. [4176]. Il dolce mele non si fabbrica dalle industriose, pazienti, buone, virtuose api senza indicibili tormenti di quelle fibre delicatissime, senza strage spietata di teneri fiorellini. Quell’albero è infestato da un formicaio, quell’altro da bruchi, da mosche, da lumache, da zanzare; questo è ferito nella scorza e cruciato dall’aria o dal sole che penetra nella piaga; quello è offeso nel tronco, o nelle radici; quell’altro ha più foglie secche; quest’altro è roso, morsicato nei fiori; quello trafitto, punzecchiato nei frutti. Quella pianta ha troppo caldo, questa troppo fresco; troppa luce, troppa ombra; troppo umido, troppo secco. L’una patisce incomodo e trova ostacolo e ingombro nel crescere, nello stendersi; l’altra non trova dove appoggiarsi, o si affatica e stenta per arrivarvi. In tutto il giardino tu non trovi una pianticella sola in istato di sanità perfetta. Qua un ramicello è rotto o dal vento o dal suo proprio peso; là un zeffiretto va stracciando un fiore, vola con un brano, un filamento, una foglia, una parte viva di questa o quella pianta, staccata e strappata via. Intanto tu strazi le erbe co’ tuoi passi; le stritoli, le ammacchi, ne spremi il sangue, le rompi, le uccidi. a donzelletta sensibile e gentile, va dolcemente sterpando e infrangen­do steli. Il giardiniere va saggiamente troncando, tagliando membra sensibili, colle unghie, col ferro. Certamente queste piante vivono; alcune perchè le loro infermità non sono mortali, altre perchè ancora con malattie mortali, le piante, e gli animali altresì, possono durare a vivere qualche poco di tempo. Lo spettacolo di tanta copia di vita all’entrare in questo giardino ci rallegra l’anima, e di qui è che questo ci pare essere un soggiorno di gioia. Ma in verità questa vita è triste e infelice, ogni giardino è quasi un vasto ospitale (luogo ben più deplorabile che un cemeterio), e se questi esseri sentono, o vogliamo dire, sentissero, certo è che il non essere sarebbe per loro assai meglio che l’essere.

Lettera a Monaldo Leopardi, 3 luglio 1826

Carissimo Signor Padre

La sua Lettera mi ha cagionata una vera gioia, come sempre me ne cagio­nerà il trattenermi con Lei, e come mi aveva dato e mi darà sempre pena il suo lungo silenzio, se non in quanto io penserò che questo possa nascere da sue occupazioni più rilevanti e che serva a risparmiarle fastidio. Certamente, se a Dio piace, io non passerò mai più l’inverno in climi più freddi del mio nativo. Io conto, se la salute non me lo impedisse insuperabilmente, di essere in ogni modo costi pel primo entrar dell’autunno, e quanto al trattenermi, Ella disporrà di ciò a suo piacere. Intanto Ella non si dia pensiero alcuno circa la mia sicurezza. La frequenza degli omicidii in questi ultimi giorni è stata qui veramente orribile; ma io ho preso il partito di non andar mai di notte se non per le strade e i luoghi più frequentati di Bologna, sicchè fintanto che non assassineranno in mezzo alla gente (nel qual caso il pericolo sarebbe altrettan­to di giorno, come di notte), non mi potrà succedere sicuramente nulla. Ho anche il vantaggio di abitare nel centro della città, e in faccia a un corpo di guardia, in modo che per tornare a casa non sono obbligato a traversar luoghi pericolosi.

Non ho posto il nome di Recanati in fronte al Petrarca non certamente perchè io mi vergogni della mia patria, ma perchè il metterlo avanti a ogni cosa mia, mi sarebbe sembrata un’affettazione, ed Ella vede che nessuno scrittore ai nostri tempi lo fa, o illustre o non illustre che sia la sua patria. Stampandosi le mie operette in un corpo, non parrà affettazione il nominar la patria, ed io lo farò senza fallo. Il Petrarca è sembrato allo Stella un’ottima speculazione, non solo per gli esteri, ma anche perchè questi studi o pedanterie sono dominanti in Italia, e massimamente in Lombardia, dove non si conosce quasi altro; sicchè egli crede di fare un bellissimo interesse stampando quest’opera, e ancor io sono della sua opinione. Del resto il lavoro è stato di somma difficoltà, lunghezza e noia. Nondimeno, benchè avessi dato speranza di finirlo solo in au­tunno, l’ho già terminato e spedito tutto fin da ora, e se non l’avessi interrotto per cinque mesi, occupati parte in altre cose, parte nello smaniare dal freddo, che mi fece tralasciare affatto ogni studio, l’avrei terminato assai prima.

Qui, da più di una settimana abbiamo sereno e caldo. Il tempo ha favo­rito la festa degli addobbi, che a me, poco amante degli spettacoli, è parsa una cosa bella e degna di esser veduta, specialmente la sera, quando tutta una lunga contrada, illuminata a giorno, con lumiere di cristallo e specchi, apparata superbamente, ornata di quadri, piena di centinaia di sedie tutte occupate da persone vestite signorilmente, par trasformata in una vera sala di conversazione.

La mia salute, grazie a Dio, è passabile. II Zio Mosca, che la saluta cara­mente, vorrebbe sapere che cosa è del medico Giordani, del quale non ha più notizia da molto tempo. I miei tenerissimi saluti alla Mamma e ai fratelli. I miei rispetti alla Marchesa Roberti e a Broglio se Ella ha occasione di scriver­gli. Ella mi ami, e se non le è grave, mi dia notizia della sua salute e delle sue occupazioni presenti. Avrò in mira quello che Ella mi scrive. Sia persuasa del vivissimo e cordialissimo amore che io le porto, e dell’immensa gratitudine che le ho ed avrò per tutta la vita. Le bacio la mano coll’anima, e chiedendole la benedizione mi ripeto
Suo affettuosissimo figlio Giacomo

Brano corrente

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