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26 Ottobre 2013 | Paesaggio dell'anima

Giuseppe Verdi tra nebbie e tabarri

Un viaggio in regione attraverso la musica

A cura di Claudio Bacilieri. Lettura di Fulvio Redeghieri.

26 ottobre 2013


Musica. Nino Rota: Valzer di Giuseppe Verdi.

Cari ascoltatori, tutto il mondo celebra Giuseppe Verdi nel bicentenario della nascita e anche noi vogliamo unirci a una festa che riguarda in particolare la nostra regione. Lo confessiamo: non siamo dei patiti del melodramma. Ma se nei teatri dell’intero pianeta le stagioni d’opera si reggono principalmente sul nome di Verdi, significa che i sentimenti che la sua musica evoca alle varie latitudini sono universali, anche se mai, forse, c’è stata una musica così legata alla terra da cui è scaturita. Verdi ci piace ascoltarlo, più che nei teatri, girando in macchina nelle stesse sue terre. Eccoci arrivati a Roncole di Busseto, davanti alla casa in cui nacque il 10 ottobre 1813; a pochi metri da lì, Giovannino Guareschi nel 1964 aprì un ristorante. Ora, siamo appena usciti da una trattoria che ha alle pareti vecchie locandine e manifesti di opere verdiane. Vi abbiamo mangiato salumi e culatelli che prima penzolavano dai soffitti delle cantine. La casa di Verdi, come la chiesa in cui il Maestro iniziò a suonare l’organo del 1797 ancora esistente, è avvolta da un’onirica nebbiolina autunnale. Dalla campagna salgono le note del preludio della Traviata, che ascoltiamo in un’esecuzione de I Violini di Santa Vittoria.

Musica. Giuseppe Verdi: La Traviata, Preludio, Atto I (arrangiamento Davide Bizzarri, esecuzione de I Violini di Santa Vittoria; dal cd “L’osteria del fojonco”, 2009).

Com’erano questi posti duecento anni fa? Il musicista e critico musicale Bruno Barilli scriveva nel 1930 ne “Il paese del melodramma”: «In quella enorme zanzariera che è la valle del Po, tra Parma e Mantova doveva nascere il genio di Giuseppe Verdi, e Parma diventare la roccaforte dei verdiani. (…) Quella era l’epoca delle sedizioni fulminee, dei grossi adulterii, dei preti e dei mangiapreti, l’epoca del gaz, dei ladri di gatti, e dei lampionari che vanno con l’asta nell’Ave Maria fuligginosa e accendono dei lampioni rotti: la plebe porta il tabarro alla spagnuola, il cappelluccio calcato sugli occhi, e sputa fuori dei denti con tracotanza parlando a grumi quel dialetto mescolato e gagliardo che ancora dura. Il cosiddetto vino della bassa, mistura schiumosa e spropositata che faceva bum nello stomaco, dava fuoco ai loro discorsi e aggiungeva risonanza all’umore fondo di questi odiatori del genere umano». Oggi non ci stupiremmo di veder sbucare dalla foschia uomini avvolti in tabarri neri, pieni di figli e di debiti. Non solo i prati, ma anche i capannoni moderni sono velati, nascosti, e le Roncole sembrano un pezzo di Ottocento. Questo era anche il secolo in cui in un paese della Bassa bolognese, Budrio, veniva messo a punto un flauto in argilla chiamato ocarina. Nel repertorio del settimino di ocarine oggi ripreso dall’Ensemble Novecento, vi erano arrangiamenti di arie tratte dai brani d’opera di Verdi, la cui popolarità derivava anche dall’affinità con la musica popolare.

Musica. Giuseppe Verdi: I due Foscari. Scena e duetto (esecuzione: Ensemble Novecento; dal cd “Melodramma ballabile. L’ocarina tra Verdi e il ballo”, 2013).

Il lambrusco che a pranzo generosamente ci scaldava, ci ha fatto capire d’un tratto il melodramma verdiano, l’amore impossibile e il furore in agguato. Barilli aveva colto alla perfezione il carattere della gente di Parma: «Tutta la città era un teatro continuo: contumelie, gazzarre e tumulti finivano la giornata di questi cittadini pericolosi e fierissimi. Quante volte non abbiamo veduto scoppiare da un nonnulla la ribellione (…). Le cagnare, nella luce verde dell’inverno, si trasformavano in sommosse e in un baleno, fra mille urli e sbatacchiamenti di imposte, la situazione diventava grave». Parma era un «dedalo di straducole, porticati, tane e borghetti carichi di passione, di violenza e di generosità». Non poteva che venire alla luce qui il gran teatro di Verdi. Passioni incontenibili, scene esagerate, gelosie, rimorsi e vendette che si scatenano in un palazzo di città o in una corte padana, si trascinano lungo i filari di pioppi, s’impaludano nelle golene o al filo degli argini, e fatalmente si riverberano ovunque. Duetti amorosi, sfide per l’onore tradito: le tempeste romantiche incendiano gli animi, e i languori diventano sublimi se la voce che li canta è quella di Mirella Freni. Speriamo possiate apprezzare questa celebre aria della Traviata nonostante la scarsa qualità della riproduzione. Si tratta di un’esecuzione del 1965 proveniente dall’archivio del Teatro Municipale di Reggio Emilia.

Musica. Giuseppe Verdi: La Traviata, Atto III, Scena IV, Teneste la promessa … Addio del passato (esecuzione dell’11 febbraio 1965 dell’Orchestra e coro dei Teatri Emiliani Associati; soprano Mirella Freni).

Il 6 giugno 1987 il giornale “La Repubblica” uscì con un pezzo su Verdi scritto da uno dei più noti giornalisti italiani, il piacentino Alberto Cavallari. Nel «triangolo Roncole-Sant’Agata-Busseto che contiene il mondo di Verdi, c’è il confine con il resto del mondo», scriveva Cavallari. «E’ qui che comincia la landa che chiamiamo “Siberia” tanto è fredda l’inverno, sepolta nella nebbia sei mesi l’anno; e che diventa rovente d’estate, afosa umida come la Cocincina, ancora avvolta di vapori e fumi. E’ qui che si spalanca il regno dei contrasti drammatici, dove a novembre tutto si cancella e diventa bianco, un muoversi di tabarri, d’ombre shakespeariane, un paesaggio giunto al grado zero, e dove a giugno stride la vampa che assecca il pantano, fulmina le vipere sui greti, spacca l’anguria rossa in mezzo ai prati, incendia le pannocchie alla Faulkner nella “nebbia da caldo”. Capisci Verdi, che insegue la gloria ma poi sempre cerca una vita nascosta, misteriosa, avvolta di nebbie; che chiama Shakespeare “Signor Guglielmo” e “Papà”; tutto buio, tutto Trovatore, tutto pianto, tutto Rigoletto; oppure tutto luce, tutto Aida, tutto Falstaff. Tant’è vero che non si muove mai di qui». Cari amici, non si capisce Verdi se non si conosce il suo territorio. E non si può arrivare all’anima di queste terre senza la musica del Cigno di Busseto. E senza la voce di Luciano Pavaraotti.

Musica. Giuseppe Verdi: Macbeth. Ah, la paterna mano (tenore Luciano Pavarotti).

 

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