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31 Gennaio 2013 | Racconti d'autore

Gotico rurale 2000-2012

Di Eraldo Baldini, Einaudi, 2012 (terza puntata)

A cura di Claudio Bacilieri. Lettura di Fulvio Redeghieri.

31 gennaio 2013

Torna dopo dodici anni il libro culto dello scrittore ravennate Eraldo Baldini. “Gotico rurale” si arricchisce di nuovi racconti ela Romagna, pianeggiante o collinare, torna ad essere protagonista con le sue campagne insidiose, le sue paludi piene di mistero, i fantasmi della mitologia popolare rievocati in storie gotiche che spargono orrore, paura ed emozioni. L’ancestrale, il primitivo, l’oscuro resistono sotto la superficie, nelle profondità immaginarie della nostra mente, nelle distese dei campi di grano dove sono ambientate allucinazioni che conducono al Medioevo di Romagna o alle pagine più belle di Stephen King. 

Nella nebbia

Quando salii sull’argine basso e coperto di canne palustri, affacciandomi su uno stagno, le anatre partirono, veloci e scure contro il cielo. Le seguii con lo sguardo finché si persero dietro un’isola di alberi. Lontano, la macchia bianca e lenta di una garzetta si muoveva nell’azzurro, e richiami di uccelli si sentivano ovunque, nel folto o dietro dossi invisibili che chiudevano bassure e pozze nascoste.

Sedetti in terra, cacciando con la mano le zanzare, e disegnai sul taccuino che portavo con me il macchione d’alberi, l’elegante airone bianco in volo, gli arbusti.

Quando mi avevano assegnato alla scuola elementare di quel paesino della bassa, perso fra acquitrini, canali e lingue di bosco residuo, dove i campi di terra scura e ancora piena di frammenti di vecchie conchiglie, segni evidenti della bonifica, finivano negli argini e nei canneti, avevo avuto un attimo di scoramento. Come ci avrei vissuto, in un posto come quello?

E in verità, l’impatto col paese era stato quasi un trauma: alcune case, una chiesa dove, mi parve di capire, andavano in pochi; una strada che correva sull’argine di un canale, poi campi sterminati coltivati a granturco e barbabietole e, a est e a nord dell’abitato, le paludi, o meglio le valli, come le chiamavano li. Un intrico di acqua e di vegetazione, un silenzio pesante pieno di piccoli rumori, un’immobilità, a guardar bene, piena di vita.

Avvertii subito una sensazione strana quando per la pri­ma volta mi addentrai a girare nelle valli: emanavano un fa­scino fortissimo e, insieme, incutevano un sottile senso di inquietudine, quasi di paura.

A metà ottobre avevo già familiarizzato con i bambini. Erano pochi, perché poche erano le famiglie di agricoltori e braccianti che vivevano in luogo cosf avaro e difficile.

Avevo legato in particolare con due fratelli, Francesco e Giorgio; erano figli di un salariato che, oltre ai pesanti lavo­ri nei campi, si dedicava alla confezione di canestri e stuoie fatti con le erbe palustri. I due bambini l’aiutavano a racco­glierle nella valle, e vidi grandi fasci di canne, di giunchi e di carici nel cortile della loro vecchia casa quasi nascosta sotto un argine, proprio sul confine della palude.

Francesco e Giorgio conoscevano i sentieri, gli stagni, le barene e il labirinto delle valli come pochi altri; e conosceva­no inoltre tutti i loro abitatori, animali o piante che fossero. Certo, spesso i nomi con cui li chiamavano erano diversi da quelli che io sapevo, ma presto imparai a districarmi fra le insidie di quel dialetto duro e difficile, eppure bello, proprio come la palude misteriosa, e come quella gente, a volte cosf rude, a volte cosf dolce. Accompagnai spesso, nei pomeriggi di quell’ottobre luminoso, Francesco e Giorgio e gli altri ragazzi nelle valli. Imparai molto di loro e da loro. Cominciai a capi­re il posto e la gente, e a sentirmene in qualche modo parte.

Dai bambini e dagli altri in paese sentivo parlare molto spesso, quasi ossessivamente, della nebbia che sarebbe arri­vata. I discorsi di quelle settimane di ottobre andavano tutti a finire sullo stesso argomento: la fortuna che ancora i gior­ni nebbiosi non fossero cominciati, e la consapevolezza che quella fortuna non sarebbe durata a lungo.

La nebbia la conoscevo; dopotutto venivo da una città di pianura non lontana, e sapevo bene quale inconvenien­te rappresentasse. Capivo anche che qui, fra gli acquitrini e i campi, in un paese perduto tra spazi enormi e deserti, sarebbe stata un problema ancora maggiore. Però mi sem­brava che l’ansia di quella gente fosse esagerata: alla nebbia dovevano pur esserci abituati, come alle zanzare, o al coro delle rane nei canali e negli stagni.

Eppure, negli stessi componimenti che i bambini scrive­vano in classe, in quelle mattinate ancora inondate di sole, coglievo l’inquietudine per quello che sarebbe venuto. «Fra un po’ cominceranno i giorni della nebbia, delle luci sempre accese nelle case, – scrisse Antonia, una bambina che abita­va ai margini del paese, – e girando per le strade e i sentieri sembreremo fantasmi, e solo da vicino capiremo chi è che abbiamo incontrato ».

I migratori erano partiti. Francesco mi stava accompa­gnando verso una pozza della valle, a guardare le anatre, e io girando in quel pomeriggio ancora caldo osservavo come stessero cambiando i colori della vegetazione, e sorridevo alla vista di piccoli grappoli di bacche rosso fuoco che spic­cavano fra i cespugli.

Svoltammo dal sentiero in uno spiazzo erboso, da cui volò via urlando un fagiano, e salimmo su uno dei dossi che de­limitavano l’acqua. Scrutai attento fra le canne per scorger­vi il movimento delle anatre e delle folaghe; ma Francesco, riparandosi gli occhi dal sole con la mano, guardava oltre, lontano, verso il cielo e l’orizzonte.

– La nebbia! – disse.

Io alzai svelto gli occhi. Ormai m’avevano contagiato, con quel loro attenderla e temerla; ma non notai nulla, se non uno strano tono dei colori, uno sfocarsi leggero delle forme.

Francesco scese inquieto dal dosso: – Andiamo, maestro, ché viene giú nebbia!

Ebbi un bel protestare: era metà pomeriggio, c’era il sole, e avevamo camminato tanto per arrivare li, nella zona degli stagni piú belli e ricchi di animali. Ma il ragazzo mi tirò per la mano, convincendomi a riguadagnare il sentiero del ritor­no; ci avviammo, e il suo passo era svelto e nervoso.

Man mano che avanzavamo, qualcosa cambiava. Cambiava la luce; e quando ci affacciavamo in un punto in cui era possibile spaziare con lo sguardo, mi accorgevo che la realtà si stava trasfigurando.

Arrivava, arrivava davvero: veloce e insidiosa, silenziosa e quasi di soppiatto, la nebbia giungeva a cancellare i colori, a cambiare i suoni, a confondere i contorni. Francesco muoveva le sue gambette rapide e instancabili, spostava quasi con rabbia le canne e i rami che intralciavano il percorso e mi dava spesso la voce senza voltarsi: – Maestro, venga, mi venga dietro!

Quando arrivammo all’argine del Canalone, dove la valle `finiva, le luci che venivano dalle finestre della sua casa non lontana parevano aloni sospesi nel grigio. Francesco si fermò, mi guardò e sospirò di sollievo.

– Entri a bere qualcosa, – mi disse ansimando ancora per la camminata.

Non mi feci pregare. La tensione che avevo sentito crescere nel bambino aveva piano piano preso anche me, e la lunga marcia mi aveva messo sete. Da una finestra qualcuno ci guardava, e ci aprirono la porta.

I genitori del piccolo parvero molto sollevati dal nostro arrivo; bevemmo vino, chiacchierammo, e manco a dirlo si parlò della nebbia.

– Francesco sa bene che deve tornare, quando viene giú cosí fitta, – disse il padre, versando un buon rosso nei bic­

chieri. – Non ci si deve far prendere dalla sera in valle, con la nebbia.

– Oh, ma suo figlio è una guida bravissima. Né nebbia né buio potrebbero farlo perdere. Conosce le paludi come le sue tasche.

L’uomo sorrise. – Lo so; ma non è per quello.

Avrei voluto chiedergli: e allora per che cos’è, questa paura? Ma bevvi e tacqui.

Fu Giorgio, l’altro bambino, che mi rispose senza che avessi chiesto. – E per la Borda, – disse.

Alzai gli occhi e lo fissai. – Cos’è la Borda?

Giorgio guardò suo padre, perché parlasse lui; l’uomo si strinse nelle spalle e ci pensò un attimo. – E la nebbia col buio. Noi la chiamiamo cosí.

Non mi parve una spiegazione esauriente, ma pensai che fosse inutile fare altre domande.

Nei giorni che seguirono non ci furono né alba, né meriggio, né tramonto. Solo un grigio, uno scuro, un nulla che cambiavano d’intensità a seconda delle ore del giorno.

Guardavo dalle finestre della scuola i bambini arrivare ben coperti, piccole ombre, gnomi vaganti nella nebbia. Finita la lezione se ne tornavano svelti a casa, e di pomeriggio non si allontanavano dai cortili o dalla strada principale del paese.

Verso sera, poi, in giro non si vedeva piú nessuno. Io avrei voluto fare una breve passeggiata nella valle, in quell’atmosfera cosí strana e irreale: pensavo che gli argini, gli stagni, le canne e gli uccelli, in quella trasfigurazione, in quel grigio, in quel fumigare, avrebbero avuto un fascino particolare, unico, misterioso. Ma nessuno volle accompagnarmi.

Un pomeriggio andai da solo; e fu un giro molto breve, perché la valle era sí affascinante, nella nebbia e nel silenzio, ma si avvertiva un qualcosa, quasi una minaccia, che metteva a disagio. «Mi hanno proprio contagiato con le loro paure», pensai.

Ed ebbi paura davvero quando, a una curva del sentiero, mi imbattei in un argine che secondo me non doveva esserci, ci salii sopra e non vidi altro che un grigiore cupo e insondabile, e andandomene non trovai piú il sentiero. I miei passi procuravano l’unico rumore, oltre a qualche ramo che si schiantava, a qualche grido che si levava dall’acqua o dai cespugli invisibili, e io non capivo chi o che cosa avesse gridato, non riconoscevo che animale fosse e se fosse un animale, e presi quasi a correre fino a che arrivai in un posto conosciuto. Li mi chinai, mi appoggiai le mani sulle ginocchia e ripresi respiro, e fui contento quando, dopo poco, vidi le luci offuscate del paese.

Era quasi sera. Mi fermai all’osteria prima di rincasare, scambiai due battute coi pochi avventori, tra il fumo delle pipe e l’odore del vino, e quando dissi che ero stato in valle mi guardarono in modo strano. Biascicarono frasi di disapprovazione in dialetto, e fra le parole che capii, una la conoscevo, anche se non sapevo bene cosa significasse: Borda.

Era la seconda volta che la sentivo.

Per la terza volta l’udii quella sera stessa. Abitavo con una famiglia che mi ospitava per un modico prezzo, mangiavo con loro e avevo una stanza per dormirci e tenerci le mie cose. Dopo cena stavo leggendo sdraiato sul letto, quando sentii nella stanza accanto la donna che cantava una ninna nanna al suo bambino. Non era una novità, l’aveva fatto an­cora; ma stavolta una parola, ancora quella, mi fece rizzare le orecchie: Borda.

E ascoltando bene, vicino alla parete, colsi alcuni brani di quella nenia: « Fa’ la nanna che viene la Borda, è dietro la porta che ti ascolta; con una corda e con una legaccia prende i bei bambini e poi li ammazza; con una corda di canapa rozza, prende i bei bambini e poi li strozza… »

Non mi pareva proprio un canto adatto ad addormentare un bambino. Ma al di là di ciò, adesso questa Borda cominciava ad assumere una sua – spaventosa – fisionomia. E io ero curioso di saperne di piú.

– La Borda? È la nebbia.

Era la quarta o quinta persona che mi rispondeva allo stesso modo. Ma questo era il parroco del paese, don Fausto, a cui mi ero rivolto proprio per avere una risposta convincente, e così insistetti.

– Be’, se vuole proprio che io sia piú preciso, – disse, – allora si potrebbe affermare che la Borda è la personificazione della nebbia nella valle, col buio; è vista come un essere mostruoso, una strega degli stagni e delle paludi, che cattura le persone, in particolare i bambini, per strangolarli con una corda e poi gettarli nell’acqua.

– Direi che è agghiacciante come immagine, – mormorai dopo qualche attimo di silenzio.

– E una leggenda, una superstizione come tante altre che ci sono da queste parti. I miei parrocchiani vengono poco a sentire quello che io dico in chiesa, e preferiscono ascoltare le storie che si raccontano la sera, nelle veglie davanti al fuoco.

– Ma qui la gente sembra quasi che di questa Borda abbia paura davvero…

Sorrise. – È un modo per convincere i bambini che girare nella palude e lungo i canali con la nebbia è pericoloso. E in realtà lo è davvero: ci si può smarrire, si può cadere in acqua, si possono fare brutti incontri, eccetera.

– Ma sa, – dissi, – che hanno messo in guardia anche me, riguardo a questa Borda?

Il prete scosse la testa e mi versò del vino.

Qui i vecchi raccontano cose, se le tramandano da ge­nerazioni, e magari finiscono per crederci.

Bevemmo qualche bicchiere, poi me ne andai.

Tanto per cambiare, la nebbia era cosí fitta che stentai a trovare la casa dove abitavo.

Durante le brevi vacanze di Ognissanti tornai dai miei genitori. Mi fece un piacevole effetto essere di nuovo nel­le strade della città piene di gente e di luce, dove la nebbia era presente, ma non padrona. Qui si limitava a ingrigire, a sfocare, a piovigginare rendendo lucidi i ciottoli, ma non poteva soffocare, incombere sulle persone e sulle cose con le sue spire fumose e con le paure che portava con sé, come invece accadeva in quel paese perso nel nulla.

Il paese. Mi pareva molto lontano mentre mangiavo coi miei, ridevo, incontravo amici, guardavo le vetrine dei negozi.

Poi, la seconda notte che ero in città, feci un sogno orribile. Mi pareva di essere ai margini della valle col piccolo Francesco, in un giorno di nebbia piú cupa e piú densa che mai. Insieme avanzavamo nei sentieri tra le canne. A un certo punto si alzava una bava di vento, come un alito gelido, e un gemito spaventoso ci faceva sobbalzare e fermare. Tra la vegetazione una figura alta, avvolta in drappi neri bagnati e a brandelli, si muoveva piano e veniva verso di noi brandendo con mani bianche una corda, e la sua faccia era spettrale e orrenda, coperta di alghe scure e gocciolanti. Io e Francesco urlavamo, ci davamo alla fuga incespicando e ci perdevamo di vista. Correvo con le gambe trattenute da una forza beffarda e malvagia, e chiamavo a gran voce il bambino. Poi arrivavo a uno stagno e mi pareva di vederlo là, buttato come un cencio nell’acqua. Gridando mi precipitavo per raccoglierlo, e mi accorgevo che non era Francesco, ma un grande airone, morto e quasi decomposto. Allora mi sdraiavo sulla riva e ridevo, ridevo di sollievo fino alle lacrime.

Mi svegliai grondante di sudore, e negli occhi avevo an­cora l’immagine spaventosa di quella figura nera che si aggirava nella palude.

Dopo le vacanze, durante una mattina in cui i bambini avevano finito in fretta l’esercizio di aritmetica, mi armai di pazienza e tentai di spiegargli che ogni posto ha le proprie leggende e superstizioni, come ad esempio quella della Borda, ma che queste non vanno prese alla lettera. Non ardirono contraddirmi anche se, nei loro occhi, leggevo chiaramente che le parole di un mattino – e di un estraneo quale dopotutto io ero – non avrebbero cancellato dalle loro teste anni di racconti e di fantasticherie inculcate fin dalle ninne nanne nelle culle.

Cercai l’alleanza di Francesco e di Giorgio, che avevano ascoltato tutto molto attentamente, e chiesi rivolto a loro: – Secondo voi, dunque, se in un pomeriggio o in una sera di nebbia uno se ne va in giro nella palude, cosa può succedergli?

Mi guardarono per un po’ in silenzio.

– E molto pericoloso, – disse Francesco.

– Certo, – confermai. – Può perdersi, può finire in acqua.

– No; è soprattutto per la Borda, – mormorò Giorgio.

Sentii una rabbia infantile montarmi dentro. Neanche le mie guide di tante passeggiate mi davano ragione, anche lo­ro erano cocciuti come gli altri.

– Bene, – dissi chiudendo un quaderno di appunti e osten­tando calma. – Oggi pomeriggio, a quanto pare già di vede­re, ci sarà un nebbione coi fiocchi; e io me ne andrò a fare un giro in valle.

Mi guardarono come un animale strano. E non avevano tutti i torti: addentrarsi nelle paludi in quelle condizioni era un’emerita stupidaggine, e io lo sapevo bene, ma ero trop­po stizzito e fiero per fare marcia indietro. Non sarei anda­to in valle, ma solo il giorno dopo l’avrei confessato ai miei scolari, ai quali avrei però, di nuovo, cercato di spiegare che leggende e realtà sono cose ben diverse.

Passai il pomeriggio in osteria, preso in una lunga serie di partite a briscola con alcuni vecchi; poi, verso l’imbrunire (se imbrunire si può chiamare l’infittirsi e l’iscurirsi di una coltre impenetrabile di vapori) decisi di passare a salutare Francesco e Giorgio, per poi andarmene a casa.

Camminai, col bavero del giaccone alzato e i capelli che si bagnavano di umidità, lungo l’argine che portava alla casa dei ragazzi. Vidi avvicinarsi le luci delle finestre, e notai che altri lumi erano nel cortile, e si spostavano, e si sentivano voci e l’abbaiare di un cane.

– È il maestro! – sentii gridare da Giorgio, che mi corse incontro.

– Maestro, ha incontrato Francesco? – mi chiese suo padre, che avanzava verso di me reggendo un lume in mano.

– No, – risposi, e sentii un brivido corrermi per la schiena.

– E salito prima sull’argine del Canalone con una torcia, – continuò l’uomo, che nel frattempo era stato raggiunto dalla moglie. – Ha detto che lei era in valle, e che si sarebbe perso con la nebbia che c’è. Voleva che lei vedesse la luce per trovare meglio la strada.

– E non è ancora rientrato, – mormorò la donna.

La fronte mi si velò di sudore gelido, e provai una stretta alla bocca dello stomaco. – Dobbiamo cercarlo, – riuscii a dire.

La donna fu mandata a una casa poco lontana a chiedere aiuto. Vennero due uomini grossi e silenziosi, mentre noi avevamo preparato in fretta altre torce.

Chiamando ad alta voce il bambino scomparso, scendemmo l’argine e ci inoltrammo nel sentiero che avanzava tra grandi stagni e canneti, e poi svoltava verso un dosso al di à del quale stavano altri fitti e altre pozze. Le costeggiammo in fila, cercando di far luce sulle rive, corteo inquieto di spiriti smarriti in un luogo non adatto agli uomini. Ogni tanto alzavamo le torce perché le si vedesse di lontano, sempre chiamando: «Francesco!» mentre la nebbia era diventata una bambagia buia che soffocava tutto e sembrava respin­gere i nostri passi.

Non dovemmo cercare molto. L’uomo che era in testa si fermò di colpo, si accostò al bordo di uno stagno e avanzò di qualche metro fra le canne.

Col cuore in gola lo seguii, e vidi qualcosa nell’acqua.

E un airone morto, pensai. Come nel sogno. Deve essere un airone morto; e immagini veloci del mio incubo si confondevano con la realtà.

L’uomo, fatto qualche altro passo, sollevò un fardello gocciolante; e la mia torcia illuminò il viso di Francesco, con gli occhi rovesciati e nera erba palustre fra i capelli.

Una corda stringeva il suo collo, gonfio e ormai livido.

Brano corrente

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