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14 Gennaio 2021 | Racconti d'autore

Il delfino di Plinio

Testi tratti dal libro di Giancarlo Susini “L’Antico in terza pagina. Scritti giornalistici” (a cura di Valeria Cicala, Faenza, Fratelli Lega editori, 2020)

Vittorio Ferorelli

Da maestro dell’epigrafia, lo storico Giancarlo Susini metteva in azione la sua straordinaria capacità di leggere le iscrizioni antiche anche quando si confrontava con il presente, viaggiava per il mondo e scriveva sui quotidiani. Vi proponiamo alcune pagine dal libro che raccoglie una parte degli articoli pubblicati sul “Resto del Carlino”, ringraziando per la lettura Marzio Bossi e l’associazione “Legg’io”.

Se quel baobab potesse parlare

Ve l’immaginate un epigrafista, uno studioso di scritture antiche (anzi classiche) a Ouagadougou, capitale del Burkina Faso, di quell’immenso paese a monte del golfo di Guinea che era più noto col nome di Alto Volta? Metto il naso fuori dell’università, fuori dal recinto che ospita strutture modernissime entro edifici bianchi e stereotipati e, tra tanta gente coloratissima nelle vesti, affronto le interminabili contrattazioni per poter fotografare senza sollevare improperi e senza ricevere arcane maledizioni: cosa farai, signore, della mia immagine?
Se si tolgono le targhe all’occidentale sulle bottegucce, e qualche insegna luminosa d’hotel, la scrittura tradizionale non va oltre qualche versetto del Corano ripetuto sulle pareti delle moschee e qualche tabellina in ferro su di un paletto nei cimiteri: per gli europei, o per coloro che si erano adattati a vivere all’europea, il nome verniciato e niente più. In fin dei conti, penso, anche mio nonno, Susini Cesare, a Bazzano cioè a quattro passi da casa, lo seppellirono così (aveva ottantasei anni, si prese la scheggia d’un bombardiere nel Natale del ’44).
La gente qui legge libri e giornali, ma il fondamento del sapere è rappresentato dalla parola, ripetuta pressoché immutata, raccontata quasi uguale per il volgere di tante generazioni: è vero che alcuni tra i versetti della sapienza antica vengono scritti, come si è detto, nelle moschee o presso le tombe dei santoni, ma nulla risulta accattivante come la radio – i transistor da appendere ai retrovisori nelle cabine dei camion, alle orecchie dei cammelli in carovana – perché la radio ripete all’infinito le cose che tutti sanno da sempre. Per un epigrafista, è come se una processione si snodasse a non finire recando i tituli, cioè i cartelloni che ripetono sempre le stesse parole, per un sociologo è come se dietro agli striscioni gente quieta e composta ripetesse all’infinito gli stessi slogan. Vien fatto di chiedersi se la passione di queste genti per gli specchietti non abbia solo motivazioni magiche ma anche si spieghi con il prodigio di ripetere infinite volte la luce.
La conoscenza si articola però mediante la scrittura, solo per tale via raggiunge i contorni dell’universalità: anche l’immenso mondo della cultura orale subisce quindi stimoli e processi di gravitazione verso gli orizzonti della cultura scritta. Accade, così, che spesso si confrontano rituali dell’Africa nera con le antiche prescrizioni scritte della magia egizia e greca, e si cercano identità di nomi di re o di patriarchi, di battaglie o di città, di tribù o di sette – nomi ripetuti infinite volte sotto i baobab – frugando tra le scritture bibliche o sabee o poi tra le cronache arabe. È il Sudan, è l’Etiopia a far da tramite, tanto che ne scaturisce in alcuni cenacoli culturali la domanda: ma la civiltà degli uomini nasce a Oriente (e in tal caso di là o di qua del Mar Rosso) o a Occidente, cioè verso le sponde del golfo di Guinea?
A partire dal Quattrocento i racconti orali delle genti dell’Africa equatoriale filtrano nelle cronache dei portoghesi e degli olandesi, e via via degli altri europei. Per comprendere il valore culturale di ciò, bisogna riflettere che le genti africane temono sì la polvere dei deserti (c’è solamente un male peggiore alla desertificazione, asseriscono i loro saggi, ed è l’inaridimento, cioè la desertificazione dello spirito, l’una oscura di polvere il sole, l’altra attutisce le coscienze); ma temono ancora di più il buio dell’oceano. C’è il sapore della nèkyia odisseica, il senso del dominio dei morti a caratterizzare il profondo oceano nell’immaginario africano: è frequente che le basse isole costiere e le alture di riva sopra e sotto del golfo di Guinea fioriscano di leggende di spiritelli e di giganti (si pensi alle Madeleines e alle Mamelles di Dakar), come a creare una diafana muraglia del terrore.
A poche bracciate dalla costa la gente percepisce l’esistenza di una barriera, resa tangibile dalla grande ondata di risacca, che spesso è fatale alle piroghe e ai nuotatori. La si sente un po’ ovunque sull’Atlantico, in Irlanda o in Bretagna, per esempio a Noirmoutier, poi in Galizia e in Portogallo: saranno i navigatori europei a valicare questo limes d’occidente, e a portarsi dietro, ma come schiavi, molti tra gli africani. Così, a valicare l’oceano assieme alle scritture del vecchio mondo furono le parabole ripetute delle savane e del deserto: ne nacquero i racconti e le nenie di Tobago e di Pernambuco, delle Antille e della Guiana.

[“il Resto del Carlino”, 27 agosto 1988]

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Arte a bordo

A Rotterdam, da molti anni si va costruendo il più grande porto del mondo, con moli, banchine e docks che si prolungano a tenaglia in mare aperto: visitare il porto nella sua crescita è una curiosità, anche perché si contano a migliaia, sulle rive, i container pronti all’imbarco o appena sbarcati (per essere trasferiti su altre navi o su lunghi articolati su gomme o infine su carri pianali delle ferrovie). Ecco: navi, camion e treni trasportano di tutto, in collettame come si suol dire. Gli esempi grandiosi del mondo d’oggi trovano un archetipo, un minuscolo antefatto, nel barcone di Comacchio, che naufragò tra i canali e i canaletti del Delta padano all’incirca quindici anni prima dell’anno zero, nei primi decenni del tempo d’Augusto.
Non sappiamo dove si dirigesse quel barcone, che da oggi entra in mostra, esposto a Comacchio assieme ai molti oggetti che trasportava: se verso il cuore della Padania, magari sino a Piacenza o addirittura sino a Torino (Strabone, il geografo greco, annota che tra Ravenna e Piacenza occorrevano – a scendere – due giorni e due notti di navigazione) oppure bordeggiando le rive dell’alto Adriatico, ma per lo più al riparo di dossi e cordoni litoranei e quindi di laguna in laguna, in direzione, di Aquileia e dell’Istria. Di sicuro quel natante serviva a risalire i grandi fiumi (cambiando di pilota s’intende) ma anche a costeggiare le rive sul mare, sotto costa.
Nel mondo antico la navigazione sui fiumi era assai più diffusa di quanto sia accaduto nelle età successive e sino all’Ottocento, quando in Europa si scavarono alcuni importanti canali tra fiume e fiume per facilitare le comunicazioni attraverso il continente: di fatto gli invasi fluviali erano in antico più profondi, non ancora colmati da imponenti strati alluvionali. Che molte tra le città europee vivessero di traffici su porti e attracchi fluviali distanti anche centinaia di miglia dalle foci era fenomeno molto comune; anche allora diversi bracci di fiume, alle foci, erano collegati da canali, le fossae.
Ciò spiega anche un’altra considerazione: se non sappiamo esattamente dove il barcone di Comacchio fosse diretto, non sappiamo neppure da dove venisse. Molta parte delle mercanzie che trasportava proveniva dalla Spagna (in particolare il carico pesantissimo dei lingotti di piombo, che forse lo sbilanciò in un momento di tempesta e lo fece naufragare), ma non siamo in grado di asserire se per esempio il natante veniva addirittura dalla foce dell’Ebro (o da uno scalo interno alla penisola iberica), se aveva poi costeggiato, per settimane e mesi, il Golfo del Leone, le rive del Tirreno, lo stretto di Messina, poi le rive dello Ionio e dell’Adriatico, oppure se come i container in trasbordo nell’immenso porto di Rotterdam, le sue mercanzie erano state travasate da scafo a scafo una o più volte durante il tragitto, o se addirittura le merci più leggere avevano compiuto parte del viaggio per via di terra.
Perché, come si vede, quel barcone di Comacchio è prezioso per la conoscenza della tecnologia marinara mediterranea dell’antichità: infatti non è naufragato in mare aperto, e quindi non è stato svuotato dalle correnti profonde, non è una nave d’apparato come quelle ben famose del lago di Nemi, non è una nave da guerra, è un grosso barcone da carico, nulla più e nulla di meno, ma è destinato a divenire un capitolo insostituibile della grammatica della marineria antica, dove altri capitoli sono ancora da scrivere.
Andava secondo le correnti e i venti aiutandosi con le vele issate sull’albero, andava anche a colpi di remo, e lungo i fiumi forsanche con il sistema dell’alaggio (trainato cioè da animali da trasporto lungo le rive). Se e quando navigava in mare aperto, come accadeva del resto alla maggior parte del naviglio antico, possibilmente non perdeva di vista la costa. I portolani antichi che conosciamo con corredi per lo più di mano greca o fenicia o romana e gli itinerari marittimi dimostrano che il riferimento alle rive è costante. Si annotavano i promontori meglio visibili a distanza, le foci dei fiumi e gli approdi, dove era possibile il rifornimento dei viveri, a cominciare dall’acqua potabile.
Il barcone di Comacchio si rivela ai tecnici che vi hanno posto mano (la Soprintendenza archeologica dell’Emilia Romagna, anzitutto, poi gli istituti e i centri del restauro, infine gli esperti dei beni culturali e delle università) un capolavoro complesso di carpenteria, un gioiello di manovrabilità per i piloti e le ciurme dei suoi tempi. Ma non bisogna dimenticare che il tempo d’Augusto segna nel Mediterraneo il traguardo maturo di plurisecolari esperienze cantieristiche, eredi delle marinerie delle grandi civiltà (la fenicia, la greca, la cartaginese) e di evoluti sistemi politici e mercantili (i reami ellenistici di Siria e d’Egitto, il regno di Pergamo, le repubbliche marinare come Rodi e Samo).
Indubbiamente l’analisi minuta del fasciame del barcone di Comacchio consente scoperte sulla rifinitura del legno quali sinora si erano compiute, in parallelo, solamente sulla lavorazione della pietra nell’antichità: si conoscerà dei carpentieri quanto già si conosce dei lapicidi e dei marmorari. Il recupero intatto del carico e di ogni arredo di bordo (poiché la nave fu abbandonata evidentemente poco prima che si arenasse tra i canneti, quando il suo naufragio apparve inevitabile), comprese le vesti e i calzari, compresi gli oggetti di cambusa, restituisce un’immagine impareggiabile del «quotidiano» marinaro di venti secoli orsono.
La Soprintendenza archeologica, e per essa il direttore del Museo nazionale di Ferrara, Fede Berti, il Comune di Comacchio, la Regione Emilia-Romagna e il suo Istituto per i beni culturali hanno posto mano a un’impresa eccezionale: hanno chiamato la mostra col nome di Fortuna Maris e molta gente finirà per pensare che quello era il nome del barcone naufragato e oggi ripescato, dopo duemila anni. Invece quel nome è un presagio di nuove ricerche.
E poi: dove era diretto tanto piombo, in lingotti; verso quale officina e quale mercato? E i sei minuscoli tempietti votivi in piombo, con le immagini di Venere e di Mercurio, trovati nel carico, erano destinati alle sagre di santuari lontani, alle bancarelle per i devoti e i pellegrini come sinora si è congetturato, o invece – come suggerisce Valeria Cicala – facevano tutt’uno con il carico dei lingotti e servivano di modello alle officine che lavoravano il piombo e gli altri metalli? Come si vede, la banca dati del barcone dà già da pensare.

[“il Resto del Carlino”, 28 aprile 1990]

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Il delfino di Plinio il Giovane

I bimbi giocavano, prima uno poi gli altri, con qualche trepidazione e infine tanta gioia. Ma non finisce così. Leggo sul giornale una notizia dal lago di Garda: i bimbi erano felici di quel daino, comparso giù dalle pendici di monte Baldo, giocavano col loro Bambi, gli portavano il cibo. No, mi sbaglio, la notizia viene dal mare d’Africa, anzi dalla costa mediterranea proprio di fronte alla Sardegna: sto leggendo uno scrittore antico e famoso, Plinio il Giovane. Costui era un personaggio influente, nato a Como ma cresciuto a Roma, un notabile di corte al tempo di Traiano. Suo zio, Plinio il Vecchio, il grande scrittore di scienze naturali, era morto asfissiato per l’eruzione del Vesuvio nel 79 dopo Cristo: comandava la flotta imperiale ed era accorso per sgomberare quelle popolazioni in fuga.
Di Plinio il Giovane resta un epistolario vastissimo, quasi un monitoraggio sulla vita dell’impero all’inizio del II secolo: tantissime lettere scritte anche al suo principe, per esempio per raccontare le storie dei primi cristiani, quando lui era governatore in Bitinia. In una lettera scritta a Caninio, suo amico, riferisce una storia raccontatagli a tavola da un commensale.
Era accaduto in Algeria, a Ippona, una città fenicia divenuta poi colonia romana: dove oggi è Annaba, o Bona, famosa perché vi fu vescovo Sant’Agostino, nota anche alla cronaca di ieri per un feroce massacro. Allora, al tempo di Traiano, accadde un episodio curioso: anche a Ippona, come dappertutto lungo le rive del mare, tanti bimbi giocavano in spiaggia, qualcuno si spingeva in laguna e poi in mare aperto, al largo. Nel raccontare quel che successe, Plinio è commosso: sembra una poesia, scrive. Ma non finisce così.
Una volta un bimbo fu raggiunto da un delfino; loro due si seguivano a sbuffi finché il delfino prese il bimbo – tutto tremante, scrive Plinio – e lo portò a riva dai suoi compagni. Corrono tutti, anche i grandi, il bimbo viene interrogato come un piccolo oracolo, era stato protagonista di un prodigio. Per qualche giorno continuano i giochi: il delfino gira attorno al piccolo, poi lo molla. Tanti bimbi lo seguono, cavalcano il delfino, non hanno più paura, è uno spettacolo: il delfino si lascia accarezzare, addirittura la gente gli parla. Arrivano nuove persone e spuntano altri delfini. Un giorno il primo delfino prende terra, si rotola sulla spiaggia: il legato del proconsole romano lo fa cospargere di un unguento, secondo una vecchia usanza. Ma il profumo non piace al delfino, lui si sciacqua poi torna a giocare. I curiosi crescono, in paese sono ormai in troppi: c’è chi si lamenta, quel delfino è un disturbo per la quiete pubblica. Allora il delfino fu ucciso, di nascosto, senza chiasso. La storia è raccontata in giro, giunge a Roma e Plinio il Giovane la scrive al suo amico.
Anche il daino del Garda dava noia: correva qua e là felice con i suoi bimbi, talvolta si spauriva quando sbucava sulla strada piena di macchine. Era un pericolo per il traffico: meglio toglierlo di mezzo, gli hanno sparato. Ecco, non è cambiato nulla da un tempo, fuorché per quegli spari che fanno rumore. E le storie si raccontano proprio come un tempo.

[“il Resto del Carlino”, 20 marzo 1997]

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Musiche
Sona Jobarteh – “Gambia”
Ismaël Lo – “Tajabone”
Pat Metheny Group – “Above the Treetops”

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