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7 Luglio 2016 | Racconti d'autore

Il suonatore di trombone

Un racconto di Sfinge, tratto dal volume “La gaia scienza. Novelle” (Milano, Arnoldo Mondadori, 1924)

A cura di Vittorio Ferorelli. Lettura di Alessia Del Bianco

Sotto il nome d’arte di Sfinge si faceva velo, tra Otto e Novecento, la scrittrice romagnola Eugenia Codronchi Argeli. A distanza di circa un secolo, il suo gusto per l’ironia ce la rende ancora vicina.

Abitavo in una piccola città di Romagna, con mia madre. Eravamo quasi povere, ma di famiglia distinta: la casa era nostra, situata in una via solitaria.
Non so perché, è più vivo in me, di quel tempo, il ricordo delle giornate d’estate che di quelle delle altre stagioni. Forse perché il caldo mi era molto molesto e i ricordi disaggradevoli si cancellano meno facilmente.
Si andava in campagna solo in settembre, presso una parente di mia madre, agiata ed arcigna.
Ma il luglio e l’agosto li passavamo in città. Si tenevano aperte le finestre di notte, chiuse o socchiuse di giorno, si mettevano le fodere ai mobili e si cercava d’illudersi d’essere in villeggiatura. Veramente la posizione della nostra casetta si prestava abbastanza all’illusione.
Aveva davanti, al di là della viuzza petrosa ed erbosa, il grande orto del curato di Sant’Agostino, annesso alla chiesa. Il bel campanile rossiccio si ergeva fra il verde, e alcune belle piante fruttifere (specialmente un immenso albero di fico) sopportavano serenamente la loro prigionia tra le mura cittadine. Da quell’orto veniva su, in primavera, un profumo delizioso e malinconico, che andava d’accordo col suono delle campane del fulvo campanile, suono particolarmente triste e snervante. D’estate, in modo speciale, i rintocchi di quelle campane assumevano un’intonazione quasi funebre, che mi fasciava l’anima di inesplicabile pena.

Di pene reali, per essere sincera, allora non ne avevo. Per allora intendo parlare di un periodo che ebbe grande importanza nella mia vita sentimentale. Allora, dunque, avevo vent’anni. Una grande ricchezza, non è vero? La mia giovinezza mi teneva buona compagnia. Cosa facevo? La mia vita era quella di una monaca, o press’a poco. Ma fantasticavo. E l’estate era la stagione, chi sa perché, maggiormente amica del mio fervido fantasticare. Inventavo storie, storielle, favole, romanzi addirittura, di cui la protagonista, anzi l’eroina, ero sempre io.
Racconti delle mille e una notte, fioriti su dal chiuso orticello del mio cuore… in faccia al grande orto del curato di Sant’Agostino, che era il mio orizzonte.
Che silenzio intorno a me! D’estate, dopo il pranzo (che avveniva all’una del pomeriggio, alla romagnola), la mamma, attiva come Marta della Scrittura, si concedeva il lusso di andare a riposare un’oretta. La vecchia domestica rigovernava in cucina, io davo ordine al salottino da pranzo e mi concedevo un lusso anch’io: quello di affacciarmi alla finestra, dietro le griglie socchiuse. Non passava anima viva per minuti, per mezz’ore intere! Qualche cicala, nell’orto, qualche frullo d’ali, nel malinconico profumo effuso nell’afa meridiana.

Da una viuzza vicina giungeva un altro odore meno piacevole, ma non disaggradevole alle mie nari, (forse per l’abitudine) d’unghia di cavallo bruciata, dalla bottega di un maniscalco che non si vedeva, ma di cui si sentivano i colpi, quando configgeva i chiodi negli zoccoli dei cavalli, attaccati per un grosso anello al muro. Qualche grido di venditore di bibite o di frutta, ogni tanto, con le cadenze solite, cognite al mio orecchio fino dalla mia infanzia…
E la voce legnosa di una cornacchia, appartenente al maniscalco, che saltellava qua e là, un po’ zoppicante, e che appariva fino allo svolto della via, richiamata a casa dalla voce amorevole del padrone: «Mingon, a cà, Mingonazz!».
Passava anche un venditore di ombrelli, qualche volta, e uno di pantofole, che attirava teste femminili alle finestre e che faceva sbucare dalle porte qualche serva dai piedi «dolci»…
Sempre, così da tanti anni, le estati, uguali nel mio ricordo! Vent’anni, che mi sembravano, talvolta, fuggiti via come un branco di uccellini, gettati via come un povero mazzo di fiori vissuto un giorno, e talvolta, invece, pesanti ed immobili come fossero stati di piombo!

***

Ma quell’estate, nella mia calda e monotona prigione cittadina aureolata di sogni, si fece udire una voce nuova. Il suono delle campane, il frinire delle cicale, le rare grida dei venditori ambulanti, il martello del maniscalco, il gracchiare della cornacchia, ebbero un compagno: un trombone. D’onde veniva? Mi fu difficile seguire l’aerea traccia del suono, che ora pareva venisse dalla destra, ora dalla sinistra, per uno strano effetto di acustica.
Veniva da sinistra, da una casa bianca e alta, che aveva una finestra dominante il tetto di una casa più bassa, la quale separava la casa alta e bianca dalla nostra. La voce del trombone veniva giù di là, e scendeva nell’ora più calda della giornata, nell’ora della siesta di mia madre e della mia libertà. Potevo così affacciarmi alla finestra del salottino da pranzo ed ascoltare. Perché mia madre aveva tale orrore delle signorine provinciali che stanno alla finestra, che, lei sveglia, non potevo nemmeno avvicinarmi a quel luogo di perdizione!
Non passava mai nessuno, la viuzza era sassosa ed erbosa… eppure la mia povera buona mamma temeva quei rettangoli aperti sul mondo… come una madre moderna potrebbe temere, che so io?, la scappata di sua figlia ad un qualsiasi Bal Tabarin!!

Dunque il trombone suonava, suonava, nell’afa meridiana, con la sua voce tonante, un po’ oscillante, spesso stonata, qualche volta limpida, più sovente roca e malsicura, e allora, non so perché, buffa e ridicola. Però era una voce che mi attirava, che mi piaceva, che ogni tanto mi commoveva, col patetico del suo accento così ingenuamente sincero! Rammento che ripeteva spesso: Qual cor perdesti della Norma, con una relativa limpidità di suono e con una passione che rendeva bene la linea magnifica di quel brano divino. Per quel pezzo e per qualche altro, il trombone solitario che pareva scendere dal cielo, trasse lagrime dai miei occhi e rimescolò sentimenti oscuri sonnecchianti nel mio cuore ventenne.
Altre volte, invece, le stonature patetiche della grossa, rauca voce dell’invisibile trombone, mi facevano ridere. Si dice che una persona non ride, da sola. Non è vero. Io rammento con precisione d’essere scoppiata in irresistibili risate udendo certi suoni di quello strumento, così malsicuri che somigliavano a versi di animali… boati, ruggiti, mugolii, ragli, barriti! Tutto, fuorché quello che dovevano essere.

Il trombone, invero, si presta male alla musica d’amore. Fanfare guerresche, pezzi eroici, squilli ribelli, note esprimenti sentimenti bellici e forti. Mi sembrerebbe questo il genere adatto al vigoroso soffio di quel metallo. Invece, no. Il trombone mio vicino aveva tutto un repertorio sentimentale che poco si addiceva alla sua voce tonante. O perché poi le persone d’animo appassionato scelgano un istrumento cosí disdicevole alla passione, non si sa! Non sarebbe stato meglio il violino o il violoncello? O se, proprio aveva deciso, colui, di scegliere un istrumento a fiato, per la forza dei suoi polmoni, non era da preferirsi il clarino, l’oboe, qualche cosa di più gentile? Concedevo perfino la tromba, ma proprio il trombone mi pareva una prova di grottesco cattivo gusto.
Eppure, così com’era, il concerto quotidiano mi distraeva e mi interessava, e se un giorno il trombone fosse rimasto muto, ne avrei provato dispiacere… Ma ciò che era strano in me, ragazza di vent’anni, incline, come ho detto, alla fantasticheria, era il completo mio disinteresse, la mia incuriosità a proposito di colui che soffiava in quel tremendo e patetico ottone. Chi era? Non mi ero mai rivolta questa semplice e pur naturale domanda, e, quindi, non l’avevo mai rivolta a nessuno. Quel trombone mi pareva, oramai, una voce della natura o delle cose circostanti, senza personalità. Le campane, le cicale, qualche frullo d’uccello, qualche grido di venditore ambulante, il martello del maniscalco, la cornacchia, il trombone. Era la completa sinfonia di rumori che mi offrivano, nella calma, le finestre aperte sul mondo. E il suono del trombone, ultimo arrivato nella piccola orchestra, aveva conquistato ai miei rosei orecchi di allora, il primo posto; e talora mi faceva ridere. Patetico, commovente ma anche così buffo, così buffo! Ah, ah, ah!!

***

Ma un giorno una mia amica maliziosetta, non certo per darmi una notizia piacevole, forse per darsi il piccolo spettacolo di studiare la mia faccia, mi disse così: «Come sta, Isa, il tuo suonatore di trombone?».
Io risposi, ridendo, sincera: «Ah lo sai anche tu? Ma guarda che mi ci fai pensare! Effettivamente deve esserci un suonatore visto che c’è il trombone!».
La mia amica (per modo di dire) indispettita riprese: «L’innocentina! Come se tu non sapessi che il suonatore è un tuo innamorato, che ti dedica ogni giorno il suo programma musicale!».
Cascai dalle nuvole, protestai… affermai… e naturalmente, poiché dicevo la verità, non fui creduta. Ma devo confessare che quella notizia mi turbò. Di uno strano turbamento, fatto di amor proprio soddisfatto e di… umiliazione. Ho detto che ero una sognatrice, che il mio cervellino fermentava di continuo, dando vita a fantasticherie che a me sembravano meravigliose. L’amore che non conoscevo personalmente, dirò così, mi pareva una cosa magnifica e grande, una specie di chimera alata, avvolta in un nimbo d’oro… Ora, come mai osava l’Amore (con l’A grande, s’intende), presentarsi a me per la prima volta… con la voce gutturale e stonata di un trombone?
Arpe, arpe eolie, ci volevano per me! Ero anche bellina e lo sapevo; ero di buona famiglia (se pure non ricca), avevo una certa istruzione… e mi credevo anche in diritto di essere un poco esigente. Un suonatore di trombone! Ma per chi mi prendeva? Un violinista… oh allora, sarebbe stata un’altra cosa! C’è un’inesplicabile ma innegabile e tradizionale estetica delle professioni, in cospetto dell’amore, che agisce sui nervi femminili, a loro insaputa. Questa scoperta l’ho fatta più tardi, allora la subii, senza rendermene conto. Quelle note profonde, spesso false, spesso ridicole… non erano fatte per esprimere l’amore. È vero che qualche volta parevano racchiudere sentimenti pieni di slancio e di passione che riuscivano a commuovermi, ma ai momenti di commozione seguivano troppo frequentemente le impressioni disgustevoli e buffe che mi ricordavano versi animaleschi… e allora, addio poesia!…
Non potevo persuadermi che la voce dell’amore potesse far piangere e far ridere, o far rabbia, alternativamente!…

Ero molto giovane, l’ho già detto, molto illusa, molto nemica della miserella «verità»… E non volli mai conoscere da vicino il suonatore di trombone che, per mezzo di una parente della mamma, fece la sua regolare domanda di matrimonio. Mi vedeva alla messa di Sant’Agostino, mi vedeva alla finestra (io non avevo mai visto lui), sapeva di me vita e miracoli, e mi amava ardentemente.
Era un bravo giovane, impiegato alla Sottoprefettura, che avrebbe fatto «carriera». Non era bello, diceva la zia, ma così così. Amava la musica appassionatamente… e dava, da qualche tempo, i suoi concerti sui tetti, per me.
La mamma trovò che ero una pazzerella a non volerlo accettare e nemmeno conoscere. Però, l’idea di vedermi andar lontano, l’avrebbe talmente addolorata (egli doveva essere promosso), che si consolò del mio capriccioso rifiuto.
No. No. La voce dell’amore non doveva giungere a me, per la prima volta, con simili accenti!

Sconto col sangue mio…

Era, questo pezzo del Trovatore, uno dei suoi preferiti. Nei giorni che seguirono il mio rifiuto, lo suonò a perdita di fiato, con alti squilli tremebondi, con boati da cratere vulcanico… con ambigui suoni tra di raglio d’asino e di triste pianto umano! Povero trombone!
Anche in quei momenti, insieme ad una irresistibile pena, provavo per lui un senso di dispetto… che si scioglieva in una irrefrenabile risata! Un innamorato ridicolo? ah proprio no! Eppure, se fossi stata allora più saggia o più colta, avrei saputo che quel primo campione inviatomi dal destino era un avvertimento, una non troppo oscura allegoria. «Jean qui pleure et Jean qui rit». L’essere umano è tutto qui. In tutte le cose sono lagrime e risa. Anche nell’amore, anzi nell’amore!
Anche nell’amore, che accolsi e condivisi più tardi, udii a tratti, senza volere, con mia umiliazione grande… qualche nota dell’antico trombone… Come si fa? Quando si ha l’orecchio troppo fine…

«Ecco. Questa storiella vera, è per lei, Sfinge! Solo per lei. Non la racconti a nessuno!».
Io dissi: «Lei muore di voglia ch’io la racconti a tutti, invece! Non dica bugie!».
Isa tacque… ed io ho raccontato.

Brano corrente

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