Salta al contenuto principale
6 Marzo 2014 | Racconti d'autore

La Maria dei dadi da brodo

Racconto di Marinella Manicardi tratto dal libro omonimo di Marinella Manicardi e Federica Iacobelli (sottotitolo: La storia industriale di Bologna tra romanzo e teatro, Bologna, Pendragon, 2012) – prima puntata

A cura di Vittorio Ferorelli. Lettura di Alessia Del Bianco

6 marzo 2014

Un bel giorno, stanca di conservare il brodo in un cartoccio, “la Maria” chiede al marito: inventami una macchina che impacchetti il glutammato. Nasce così, a Bologna, il dado da brodo. E nasce così la tradizione del packaging, che oggi cerca di resistere alla crisi. A raccontarci la storia è Marinella Manicardi, attrice e autrice teatrale, che ne ha tratto uno spettacolo appassionante.

La vera Maria è arrivata al teatro delle Moline una domenica pomeriggio per assistere allo spettacolo La Maria dei dadi da brodo. Federica non l’aveva mai incontrata.
Io sì, nel 2001. Con Luigi Gozzi andammo ad abitare in via Mascarella, anzi nella Mascarella, come dicono i bolognesi, casa nuova, nuovi vicini, quindici campanelli, quindici storie, alcuni lì da molti anni, altri arrivati poco prima di noi nel condominio anni Sessanta, tutti molto gentili e accoglienti. Una vera fortuna.

– Sono la Maria, abito sopra di voi, però ho anche una casa in campagna, ci vado domani, vi porto le uova fresche, c’ho i polli, le galline, anche le fragole, d’estate.

Molto elegante, la Maria, di un’eleganza sobria, con occhi tra il celeste e il viola, brillanti come gli orecchini e gli anelli che sembra orgogliosa di possedere.

– Vado a Venezia, a giocare al casinò. Vedi, è venuto a prendermi il mio ragazzo, mi riporta a casa stanotte. I soldi ce li ho, sono miei, me li sono guadagnata lavorando tutta la vita con mio marito, che è morto…

Pausa, la voce si abbassa leggermente.

– Così, ogni tanto vado a Venezia. Delle volte vinco, delle volte perdo. Ma non è mica quello, che m’interessa.

L’autista, sempre lo stesso, la Maria tra il materno e il malizioso lo chiama il mio ragazzo, la saluta con deferenza affettuosa, apre la portiera dell’auto blu. Partono.

Presi dal nostro lavoro al teatro delle Moline, né io né Gozzi abbiamo chiesto quale fosse, o fosse stato, il lavoro della Maria. Capita che ti isoli nella città, che prepari mappe e sogni per raggiungere Parma, Milano, Roma, non il vicino di casa. E capita che certe mattine apri la porta per uscire e trovi lì ad aspettarti un sacchetto con le uova, o le prugne, o le fragole, d’estate.

Qualche anno dopo, ogni anno è sempre così, alla ricerca di figure e racconti della contemporaneità da mettere in scena, Gozzi e io decidiamo una visita al Museo del patrimonio industriale di Bologna. Una delle idee in ballo, mi piace che le idee danzino nella testa, era raccontare la storia del lavoro a Bologna, il lavoro come motore del racconto. E forse anche la città come personaggio? No, questo è venuto dopo. È un’idea di Federica.
Il Museo del patrimonio industriale è bellissimo, andate a vederlo, sono solo poche fermate del bus 27 per la Bolognina, uno dei quartieri rossi e operai di Bologna… Non tutti sono d’accordo.

– Ma quali operai! Una volta!
– Adesso ci sono solo pensionati, studenti e cinesi.
– Hai visto quanti negozi e ristoranti cinesi che hanno aperto?

In effetti.
Ma non è per i cinesi che siamo qui, è per il museo, che non è un museo normale, voglio dire come ti aspetti che sia un museo con quadri o pannelli o teche con reperti di un passato che sembra non riguardarti più. E non è nemmeno un museo moderno da archistar. No.
Da fuori sembra una casona di campagna con tante finestre tutte uguali, ma dentro, dentro, c’è la sorpresa. È la Fornace Galotti, un anello, no anzi un’ellisse, un’infilata di camere, una dietro l’altra, con muri grossi così, che formano come uno stampo da budino rovesciato di un rosso caldo e pietroso. Dentro quelle camere, una dopo l’altra, venivano impilate le argille da cuocere e la legna per il fuoco. Mentre si cuoceva in una stanza, si preparava la successiva e si svuotava la precedente con i mattoni già cotti. E si procedeva così, una stanza dopo l’altra. Così nei tre mesi estivi, quando il forno era in funzione, il lavoro non si interrompeva mai. La fornace, che ha funzionato fino al 1966, produceva mattoni, tegole, comignoli, giunti per fognature, ma anche vasi da fiori, mensole ornamentali, cornici modellate.
Il forno è solo una delle meraviglie del museo. Al primo piano c’è il paese dei balocchi, dei presepi con gli automi, perché lì certi modelli in legno ricostruiscono il sistema delle acque di Bologna, con le case, le stalle, le persone, i canali, le chiuse che si aprono e chiudono.
Inevitabile per me e Gozzi, ripensare a Natale in casa Cupiello, la straordinaria commedia di Eduardo De Filippo, in cui il padre costruisce il presepe, con l’acqua della boule da enteroclisma che scende vicino alla grotta, e intanto chiede insistente e insinuante al figlio: “T’ piace o’ presepio?”.
Qui invece l’acqua è azionata da minuscole e precise pompe idrauliche costruite dagli allievi delle Aldini-Valeriani, le scuole tecniche di Bologna, e i plastici non riproducono un paesaggio inventato e improbabile come quello del presepe, ma piazze e strade ben riconoscibili perché sono le strade del centro storico di Bologna. Molte sono rimaste uguali dal Duecento a oggi. Più o meno.
Nota: noi non avremmo raccontato la storia consolante del buon tempo antico, dove tutti erano felici come a Natale. Ma neanche De Filippo l’ha scritta.
Ci spostiamo da uno spazio all’altro del museo, dal sistema dei canali, ai telai e torcitoi meccanici per la seta. E lì capiamo che la lavorazione della seta a Bologna non è un mestiere tra i tanti nella storia della città. La seta modifica l’urbanistica, svuota le campagne, forma nuove classi sociali, rende necessarie istituzioni, collega la città con il mondo. Come l’università. Seta e sapere, protoindustria e cittadinanza, ricchezza e assistenza crescono insieme alla città per quattro secoli, dal Duecento al Seicento, e anche dopo.
Nota: dovremo studiare, documentarci, chiedere, capire. Poi inventare un modo per raccontarla a teatro, questa storia di lavoro, di invenzioni e di sbuzzo, questa storia di Bologna.

Altre stanze del museo, dalla seta ai motori: il salto ci sembra brusco.
Che cosa c’è in mezzo? Tra Sette e Ottocento che cosa succede a Bologna? C’è un buco, un vuoto, c’è paura: di perdere il lavoro, di dover tornare in campagna, di prendersi il colera perché l’acqua dei pozzi è inquinata, c’è paura di non battere la concorrenza delle seterie francesi, poi dei cotton mills inglesi. C’è l’unità d’Italia che incalza come la nascente industria e Bologna è nello Stato della Chiesa, immobile.
Nota: perché nella storia della città si parla così poco dell’Istituto delle Scienze, dell’eccellenza di Bologna nelle scienze medicina, fisica, astronomia, matematica, anatomia. Perché? E perché Ferdinando Marsili non viene celebrato e raccontato con mostre, libri, romanzi, film, come un eroe?
Nota: questa storia è tutta da raccontare.

Nelle ultime sale del museo esplode la passione della Pianura Bassa per i motori, i meccanismi, gli ingranaggi, viti, bulloni, dadi, pulegge, leve, alberi a camme, la desmodromica!
Le splendide moto Guzzi e Ducati, le Maserati e Lamborghini, gli apparecchi ottici, i telescopi e microscopi e infine, in una sfilata di macchine automatiche che sembrano uscite da libri di storia dell’arte del Novecento e del Futurismo, le macchine impacchettatrici, quelle che nel dopoguerra hanno reso Bologna la capitale della Packaging Valley: ecco la macchina che prepara cinquemila tortellini all’ora, quella che imbusta la polvere Idrolitina del cavalier Gazzoni, quella che inscatola il cioccolatino FIAT Majani e quella che può imbottigliare qualsiasi liquido, bibita, detersivo, medicinale, la GD che rolla migliaia di sigarette al minuto, le sigilla in pacchetti, poi stecche e quella…
E qui ci fermiamo perché in un video accanto alla macchina della ditta Corazza, che incarta i dadi da brodo, riconosciamo la Maria, la nostra vicina di casa, quella che ci regala le uova. Nel video è più giovane, ma è lei.
Racconta come lei e il marito negli anni nel dopoguerra abbiano inventato il dado da brodo, cioè la macchina Corazza che compatta il glutammato a forma di dado, lo avvolge in carta stagnola argentata, poi ne infila dieci o dodici in una scatolina colorata, che con altre trenta o quaranta viene sigillata in un cartone, che sarà impilato sui pallet pronti a essere spediti a negozi e supermercati.
La Corazza, la macchina impacchettatrice, è stata venduta in tutto il mondo, acquistata da tutti i grandi marchi produttori di dadi da brodo: Star, Liebig, Knorr, Maggi, Lombardi, tutti. Ed è stata inventata, come tutte le altre che sono nel museo, ma non solo, a Bologna.
Nota: dovremmo esserne orgogliosi!

Nel video, Maria è seduta su un divano di pelle, direi in un ufficio della fabbrica. Elegante anche allora, giro di perle, vere. Sul tavolino basso davanti a lei c’è la foto di un uomo sorridente in cornice d’argento. È il marito, Natalino Corazza, morto qualche anno prima.

– Dunque: mio marito, che aveva fatto le Aldini-Valeriani, è entrato all’ACMA prima della guerra, ed è uscito dopo.

Il tono è di chi ha già fatto questo racconto molte volte ma lo rifà volentieri.

– Poi assieme ad altri amici, che lavoravano, lui di giorno e questi amici venivano a dare una mano la sera, facevano dei motori. Nel ’57 mio marito voleva costruirne uno nuovo, che aveva in mente lui. Allora io ho gli ho detto con Natalino, mio marito, dico: “Ma perché, te che sei così bravo” che c’aveva delle mani d’oro! “Invece di… perché non inventi una macchina…”.

Si ferma, non sa bene come proseguire.

– Dunque: è che io non mi compativo a fare il brodo. Usavo il glutammato, che allora te lo davano in un cartoccino che si rompeva, ti cadeva, non sapevi mai come fare. Allora dico a Natalino: “Perché te che c’hai delle mani d’oro non mi fai una macchina che mi prepara come dei pezzettini. Sarebbe più comodo”. Lui non era tanto d’accordo, voleva fare il suo motore. Io ho insistito, mi sembrava una buona idea. Lui c’ha pensato, lì in officina, i suoi bulloni, le sue viti… mi ha fatto un dado. Mi fa: “Maria, va bene così?”, “Ohi, se invece che di ferro me lo fai da brodo, è meglio!”. E quello fu l’inizio di tutta la nostra carriera.

Sorride, ma subito incalza.

– Però, caro mio, per avviarsi con le macchine ci volevano i soldi e noi purtroppo non li avevamo. Fintanto, parlando dove abito ancora io nella Mascarella, amicissima del salumiere, parlando così, un giorno dice: “Ah signora Maria…”. Dico: “Lasci stare, che non sono mica tanto signora, che quasi vorrei essere al suo posto…”. Lui quasi quasi capì che avevo bisogno di soldi, e il Signore si vede che c’ha messo la sua santa mano, e mi fa: “Ha bisogno di soldi, Maria? Guardi che io, fin dove posso, le posso venire incontro”. E mi dette, allora, un milione e seicentomila lire, in contanti. E quello fu l’inizio della nostra carriera. Abbiamo sempre fatto così con mio marito, io ci mettevo delle idee e lui ci metteva le mani, perché senza le sue mani le mie idee valevano poco. Sa come chiamavano mio marito gli americani? Mister Cubo.

Fine del video. Io e Luigi Gozzi restiamo in silenzio qualche secondo. Sono certa che stiamo pensando la stessa cosa: la Maria, che ci regala le uova, ha inventato, con il marito Natalino, una macchina automatica che ha cambiato la storia di Bologna. Non solo lei, certo, però la sua storia è così importante che è già in un museo, anche se la incontriamo tutte le mattine sotto casa.
Improvvisamente la Storia, la Storia grande, che per essere raccontata ha bisogno di distanza, è troppo vicina, troppo intima, addirittura casalinga.
La Maria della porta accanto, gentile, curiosa, ma in fondo conoscente, più che conosciuta, almeno da noi, è diventata enorme, ingombrante, grande come una città. Come faremo a raccontarla?
E anche la città, Bologna, forse è troppo grande, o troppo antica, o troppo complicata, o troppo… Forse è un’idea assurda pensare di raccontarla; a teatro, poi! Fosse un film! Però in fondo, a pensarci bene, anche noi abbiamo regalato alla città qualcosa che prima non c’era!
Anche un teatro, il teatro delle Moline per esempio, è una bella macchina da lavoro, una macchina che costruisce oggetti pensanti, domande inaspettate, intuizioni, relazioni, emozioni, che costruisce un luogo dove “io” non può fare a meno di “noi”.
Con un rimpianto: che la macchina Corazza, ancora funzionante, può regalarti lo stupore che nessun oggetto teatrale, nemmeno il più prezioso, può restituirti. Perché la materia vera di cui è fatto il teatro è la stessa dei nostri sogni.
Però possiamo esserne orgogliosi.
Lasciamo il museo ringraziando Maura Grandi, l’appassionata direttrice che ci ha accolto. Per lo spettacolo, vedremo.

[continua]

Brano corrente

Brano corrente

Playlist

Programmi