Salta al contenuto principale
19 Dicembre 2013 | Racconti d'autore

La mia infanzia a tavola

Testo di Silverio Cineri, tratto dal libro omonimo (Faenza, Valfrido, 2010).

A cura di Vittorio Ferorelli. Lettura di Fulvio Redeghieri

19 dicembre 2013

Natale, tempo di cose buone da pensare… e da mangiare. Come buon augurio, leggiamo qualche pagina dal libro dei ricordi di un grande cuoco, chef del ristorante “Silverio” di Faenza.

Profumi diversi
Mamma, alla sera, quando tornava a casa, aveva con sé una sporta con qualche nuova o vecchia sorpresa gastronomica.
Quella sera, la sua sporta conteneva un sacco di verdure fresche sì, ma appena toccate da piccole ammaccature; verdure che nel suo negozio non poteva più vendere.
In negozio le aveva pulite da quelle piccole ammaccature, le aveva lavate, e ora a casa le riduceva a piccoli cubetti sul suo consumato tagliere.
Il piano della stufa era caldo, il suo grembiule le copriva il corpo, e i suoi occhi erano lucidi mentre tagliava finemente le cipolle.
Io sorridevo da solo pensando a quella cantilena infinita che in questi momenti era quasi d’obbligo e incominciai: “Come piangeva, o se piangeva, e più gli dava e più piangeva, la poverina come piangeva!”. “Smettila Silverio, piuttosto vatti a lavare le mani, che profumano d’inchiostro; a proposito: hai finito i compiti?”. “Ma certo!”.
Il chiacchierìo dell’olio nel tegame si mescolava all’acqua della fontana che scendeva lenta. Le mie mani, sotto, cercavano di togliere tutte le macchie d’inchiostro che avevano accumulato durante il duro lavoro dei compiti. Le cipolle soffriggevano lentamente emanando il loro inconfondibile profumo.
Mamma in queste cose era veramente maestra, il soffritto poi lo smorzava, si fa per dire, aggiungendo dei cubetti di patata che aveva tagliato; poi, rosolate le patate, tolte con una ramina e messe su un piatto, iniziava quello che io allora chiamavo il cambio della guardia. I cubetti delle melanzane, poi quelli delle zucchine, poi quelli dei peperoni: ero sempre incantato da quei semplici perfetti movimenti. Il profumo di ogni singola verdura si metteva uno a fianco all’altro nella cucina, come io mettevo i miei soldatini sulla tavola, creando un vero esercito.
Il tegame dei sapori era vuoto, le verdure erano profumate, croccanti, con i loro colori vivi, mantenute nell’attesa dentro piatti separati, quando nel tegame entrava a soffriggersi il generale dei sapori, con il colore vivo e pulito della sua divisa, lo stesso delle mie giubbe rosse. Vedevo quei cubetti di rosso pomodoro con i pennacchi di maggiorana scendere nel tegame, coccolati e rigirati dal cucchiaio di legno.
Li sentivo sollazzarsi rosolandosi nel poco olio rimasto all’interno di quel cortile, protetti dalle alte mura di quello strano fortino.
Dopo aver salato e fatto bollire per pochi minuti, mamma univa una a una nel tegame tutte le verdure, ponendo il tegame dove il fuoco era più dolce, a lato della stufa.
A quel punto, i profumi si facevano sentire, volteggiavano nell’aria. Sobbollivano assieme per pochi minuti, poi, via dal fuoco, li copriva con un coperchio e lasciava che il suo vapore li portasse a cottura. “Ma cosa fai ancora sulla tavola? Suona la tromba, ritira il tuo esercito di giubbe rosse! Dai, su, sbrigati, devo apparecchiare la tavola!”.
“Va bene, eccomi, faccio presto, non vedo l’ora di mangiarmi il tuo esercito!”. “Ma cosa dici? Ma certo, quando hai i soldatini per le mani, tutto diventa una enorme battaglia”.
Ripreso il mio cartone del panettone, dove li riponevo, “Via sergente! Svelti, tutti dentro, si ritorna nel forte!”.
Mentre mamma apparecchiava la tavola, io in un sediolino, con il cartone del panettone fra le gambe che mi faceva da tavolino, controllavo le mie figurine.
“Pronti! Lavati le mani, Silverio, poi tutti a tavola!”.
Il tegame trionfava al centro di quella tavola con i suoi tiepidi vapori; il pane a conci era di fianco, l’acqua di viscì muoveva lentamente l’acqua, mentre il fiasco del vino era sul pavimento a fianco alla sedia del babbo.
I piatti erano ancora vuoti, puliti, ma sapevo già che, di lì a poco, sarebbero stati di nuovo vuoti, di nuovo puliti, ma dal pane.

Un ricordo di seconda mano
Quando ero in grado di capire un po’ di più, e soprattutto di ricordare, mamma mi raccontava di tutte le difficoltà che avevano avuto quando io e la Nives eravamo molto più piccoli.
Mi descriveva tutti i sacrifici che avevano dovuto affrontare con il babbo per poter vivere in quel periodo particolare del dopoguerra.
La difficoltà del babbo a trovare il lavoro, la difficile impresa di trovare una casa in affitto… Poi mi diceva che in certe giornate di carestia anche il pane non si trovava e, per averlo, bisognava comprarlo al mercato nero: in quel caso, costava quanto una mezza giornata di lavoro.
Queste storie mi parevano un po’ barbose, ma, di tutte, una mi piaceva in particolar modo, e non posso negare di averci pensato molto, poi, utilizzandone l’essenza in qualche mio momento di difficoltà…

“Tu non avevi neanche due anni, la Nives poco più di cinque (eravamo nel 1953), il babbo erano giorni e giorni che cercava lavoro. Io, pur facendo tutte le economie, non avevo rimasto molto, anzi, ora che rammento, avevo rimasto le ultime ottantacinque lire, che anche allora erano poche. Già, non erano proprio un granché.
Giravamo all’ombra dei grandi platani nello stradone, io in mezzo e voi bambini vi tenevo per mano, uno per lato. La mia testa era piena di pensieri che si accavallavano uno sull’altro, come le mele in un cesto.
Il nostro futuro era incerto, anche voi due non sembravate felici, come se in qualche modo respiravate quelle difficoltà riservate a noi adulti. Girando, pensavo sempre a cosa potevo, a cosa serviva di più da comprare per non sciupare quegli ultimi soldi rimasti.
Le gambe si muovevano lentamente, rispettando i vostri piccoli passi. La testa bassa mi pesava, quando a un tratto mi venne un’idea; alzai la testa, sfoggiando un grande sorriso, da troppo tempo i nostri sacrifici avevano avuto il sopravvento sulle gioie e la spensieratezza nella nostra famiglia. Così pensando, dissi: ‘Allegri, bambini, stasera organizziamo una bella festa per quando torna il babbo’.
La mia voce si era fatta diversa, diventando squillante, più allegra. Aumentammo il nostro passo, i vostri visi sembravano più contenti, anche se senz’altro avevate solo respirato il mio essere cambiata in quel momento. Imboccammo corso Matteotti e ci infilammo dritti dentro la pasticceria di Ceroni e feci preparare un bellissimo vassoio di pasticcini, i più colorati.
Con il nostro piccolo tesoro corremmo, si fa per dire, subito a casa.
La tovaglia più bella sulla tavola, come un mantello. Io canticchiavo, in quel momento ero felice, e anche voi vi muovevate in quell’atmosfera cambiata: il vassoio, scartato, troneggiava al centro della tavola con tutti i suoi colori profumati.
I quattro cannoli alla crema erano per il babbo, erano quelli che gli piacevano di più.
Tutto era pronto. Poco dopo, la chiave nella serratura annunciò l’aprirsi della porta. Il babbo entrò e voi bambini gli saltaste addosso facendogli sbocciare un sorriso. E, guardando, disse: ‘Ma cosa succede qui, c’è una festa? Ma come facevate a sapere?’. ‘Sapere cosa?’ – gli chiesi – ‘È per festeggiare il nostro momento, lo stare tutti assieme un po’ felici’.
‘Se è così, se è la nostra festa’ – disse lui con un bel sorriso – ‘si può aggiungere anche un’altra cosa!’. ‘Cioè?’, gli chiesi. ‘Che ho trovato lavoro!’. ‘Hai trovato lavoro! Dio che bello!’. Mi abbracciò, e tutti, con la gioia che avevamo in corpo, cambiammo quell’aria triste che ormai da troppo tempo regnava in quella piccola stanza”.

Quegli ultimi soldi erano proprio stati spesi bene. Mamma questa storia la tirava sempre fuori quando ci vedeva un po’ in difficoltà, ma ancora oggi mi dà forza, facendomi affrontare i gradini della scala della vita, che a me sembrano troppo alti, in modo più sereno, sentendomi ancora protetto da loro due.
Quando mamma se ne è andata, nel suo cassetto ho ritrovato una carta della pasticceria “Ceroni Giacomo”. Penso che sia la carta di quel vassoio di paste che lei ha sempre tenuto, e ora io la tengo per lei.

Ah però, le tagliatelle di casa mia…
Chi è che non si ricorda la domenica, l’unico giorno in cui non si andava a scuola, come era bello poter stare a letto di più, anche se non si dormiva? Poter gongolare sotto le coperte, fra i lenzuoli caldi, ascoltando il chiacchierìo che facevano sottovoce le salse e gli intingoli, dentro a pentole e tegami, nella cucina lì vicino.
Così, in tutto quel calore, si inventavano giochi. Il cuscino poteva diventare un temibile nemico, o un grandissimo amico, mentre in cucina la più grande dei maestri dirigeva, come una grande orchestra, i profumi e i sapori, anche se ancora non erano a pieno nella loro formazione.
Poi, quando la pancia urlava dalla fame, ci si alzava, ci vestivamo velocemente, prima che il freddo potesse stringerci fra le sue braccia. Quindi salivo la piccola scala di legno, “quattro gradini in tutto”, e sbirciavo dalla porta socchiusa senza farmi scorgere. Dalla stufa vedevo innalzarsi, in una danza senza veli, profumati vapori. Salivano piano verso il soffitto, lasciando per sempre i simpatici brontolii provenienti da quei tegami che fino allora ne erano state le dimore.
La maestra copriva a volte la mia vista con volteggi, mescolanze, attenzioni a tutti quei tegami che sobbollivano sopra ai cerchi della stufa.
Si respirava quell’aria umida ancora informe, ma intrisa di buono e d’amore per i propri cari.
“Ciao, buongiorno! Cosa fai lì? Vieni qui, dammi un bacio”.
Che bel sorriso abbondava in quel buongiorno. Il mio, invece, un saluto veloce, poi via di corsa verso la stufa a curiosare.
La gioia poi di credersi invisibili agli occhi della mamma, e con gesti furbi e furtivi poter beccare qualcosa, con la sicurezza, in quelle machiavelliche manovre, di non essere visti. Una gioia difficile da descrivere, ma quanto sono felice nel ricordarla!
“Su, dai, Silverio, vatti a lavare! E mentre si asciuga la spoglia delle tagliatelle ti preparo una bella colazione”.
“Cosa c’è?”.
“Sbrigati, se la vuoi!”.

Brano corrente

Brano corrente

Playlist

Programmi