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25 Luglio 2013 | Racconti d'autore

La scoperta del mondo

Racconto tratto dal libro omonimo di Luciana Castellina (Roma, Edizioni Nottetempo, 2011)

A cura di Vittorio Ferorelli. Lettura di Mascia Foschi

25 luglio 2013

Luciana Castellina, militante e parlamentare comunista, fra i quattordici e i diciotto anni ha tenuto un diario che narra la sua iniziazione politica. Il racconto comincia una mattina di luglio del ’43, quando a Riccione la partita a tennis con la sua compagna di scuola Anna Maria Mussolini viene interrotta: la figlia del Duce deve fuggire, suo padre è stato appena arrestato, è la fine del fascismo.

Riccione. 25 luglio 1943
Dovevano essere pressappoco le sette di sera. A luglio, a quell’ora, è ancora giorno, anche se le ombre della pineta che circondava il tennis avevano cominciato ad allungarsi. Ricordo che il campo era ombroso mentre io e Anna Maria ci tiravamo palle inesperte oltre la rete. Lei, oltretutto, aveva avuto la paralisi infantile e correva male.
Fu allora che la guardia in borghese venne a chiamarla e il palleggio terminò bruscamente. Senza spiegazioni. Mi disse solo: “Devo andare via subito”. E sparì dietro al poliziotto che da sempre fungeva da governante per lei e per suo fratello Romano. Anna Maria era Anna Maria Mussolini, figlia di Benito e Rachele, mia compagna di classe alle elementari e nei primi due anni delle medie: ’40-’41, ’41-’42. Non in terza, ’42-’43, perché io avevo dovuto trasferirmi a Verona. Ma ci eravamo ritrovate lì a Riccione, dove il nostro gioco venne interrotto. Era la sera del 25 luglio 1943 e suo padre era stato arrestato a Roma nel corso della giornata. “Trattenuto alla caserma Podgora, a Trastevere” (“per proteggerlo”, si fece sapere in seguito, quasi scusandosi).
Capii solo a tarda notte cosa c’era dietro quell’inspiegabile, improvviso commiato. Davanti all’Hotel Vienna dove, per via del ping-pong nel giardino, si riuniva il nostro gruppo, trovai gli altri, per lo più amici di mia cugina Paoletta e dunque quasi tutti parecchio piu vecchi. A me, neppure quattordicenne, quasi non rivolgevano la parola. Ma mi stettero a sentire, quella volta, quando cominciai a raccontare di Villa Mussolini. Avevo intuito che quell’anticipata fine di partita doveva avere un significato.
Dell’arresto del Duce, l’EIAR [l’Ente italiano per le audizioni radiofoniche, ndr] dette informazione che era già notte.
L’indomani, sul mare, molti cutter, le piccole barche a vela all’epoca di moda, avevano inalberato il gran pavese. “Per festeggiare”, mi spiegarono i più grandi. Sui bragozzi ormeggiati al largo, comitive di villeggianti cantavano niente di meno che l’inno di Mameli e le canzoni della Prima guerra mondiale. Sempre per festeggiare. E all’ora di pranzo, in pensione, arrivarono a tavola inaspettate le tagliatelle di farina bianca. “Per festeggiare”, ripeté in un sussurro complice e circospetto la cameriera romagnola.
È cosi che, a quattordici anni, sono stata iniziata alla politica. Una scoperta importante, tant’è vero che proprio quel giorno – il 26 luglio 1943 – cominciai a redigere un “diario politico”, come scrissi sul frontespizio. Usai il retro di un vecchio quaderno di scuola (Classe III media, Collegio degli Angeli, Verona, città dove per un anno fui costretta a vivere per ragioni famigliari), precedentemente dedicato alle “cronache”, le esercitazioni di italiano allora in uso alle medie. Una di queste, qualche mese prima, era intitolata “Tornano gli alpini”. Vi si parla di quelli della Julia che “hanno valorosamente combattuto in Russia e lungamente marciato nella steppa nevosa, e ora sfilano con le bandiere e gli stendardi laceri e sporchi, testimoni della furia nemica e del valore italiano. Noi abbiamo la mano protesa nel saluto romano”.
È appoggiandomi a questo diario, scritto fino all’autunno del ’47 (una quantità di quaderni fittissimi), che cercherò di ricostruire le tappe della mia iniziazione politica, un pezzo di storia di un pezzo della mia generazione, nata fra la fine degli anni Venti e l’inizio dei Trenta.

26 luglio 1943
Il primo giorno del postfascismo scopro moltissime cose.
Intanto lo smarrimento: il regime fascista è il contesto trovato quando ho raggiunto l’età della ragione, il solo a disposizione, altri non ne ho, nessuno me ne ha fatti intravedere, se non dicendomi che la guerra, che quell’estate ha già traversato mezzo mondo, porta l’Italia al disastro. Come tutti i miei coetanei, sono disorientata.
Scopro anche, nientemeno, lo spirito patriottico. Dico che si risveglia, perché “si era assopito in tutti gli italiani che vedevano la loro Patria” (sempre con la P maiuscola) “comandata da un uomo che la portava alla rovina”. Infatti, riferisco, “poiché sono ed ero antifascista, desideravo, a malincuore, che gli inglesi venissero in Italia e ci liberassero dai tedeschi, in una parola che noi perdessimo la guerra”. Adesso decido che la guerra, invece, va vinta, “perché ora si combatte per Casa Savoia”. Aggiungo persino un “Viva l’Italia”.
Bisogna vincere la guerra, dunque, ma resto male quando vengo a sapere che non è scoppiata la pace.
“Il 26 è lunedi e i giornali non escono. Perciò continuiamo a saper poco. Ma all’una”, scrivo, “siamo corsi tutti alla radio. Cosa diranno? Ecco: Giornale Radio… Bollettino 1157… Comando Supremo… In Sicilia… Qualche cambiamento di forma, ma il contenuto è sempre uguale. E poi, il proclama di Badoglio: rigidezza innanzitutto e niente entusiasmi né manifestazioni fuori luogo in questo momento in cui tutti gli sforzi della nazione devono essere tesi verso la vittoria. ‘L’Italia’ – prosegue il comunicato, a ulteriore chiarimento dei cittadini – ‘tiene fede alla parola data, gelosa custode della sua millenaria tradizione’. Fine della trasmissione”, annoto sconsolata nel diario, dopo aver riportato il testo della dichiarazione. (Piu tardi, sotto il tendone della spiaggia, giunge voce che il senatore Morgagni – presidente, mi dicono, dell’Agenzia Stefani, l’attuale ANSA – si è sparato).
“Tutti ci smontiamo un po’. Niente pace vicina, i tedeschi sempre in casa nostra”. Anzi, la guerra, ora, durerà anche più a lungo, perché “le due divisioni italiane che si sono arrese in Sicilia senza combattere, se avessero saputo che Mussolini il giorno dopo non sarebbe stato piu capo del governo, si sarebbero fatte martoriare pur di non cedere”. “Perché”, aggiungo, “io sono italiana e gli italiani li conosco”.

27 luglio 1943
Il 27 luglio, sempre a Riccione, incontro per la prima volta l’antifascismo militante. Lo incontro in centro, lontano dalla zona balneare, dove sono andata in perlustrazione in bicicletta. Davanti alla Casa del Fascio c’è molta gente che acclama quelli che si sono arrampicati sulla facciata e, a picconate, stanno demolendo i fasci che la decorano. C’è molta tensione e annoto che “non credo avessero buone intenzioni”.
Il giorno successivo i giornali annunciano che “‘qualunque manifestazione verrà dispersa senza preavviso: col fuoco’. La circolare del generale Roatta, capo di Stato Maggiore, ordina che ‘i caporioni e gli istigatori di disordini presi sul fatto siano senz’altro fucilati’ e i ‘militari che eventualmente solidarizzassero immediatamente passati per le armi’. Che accadrà di quelli che ho visto arrampicati sulla Casa del Fascio di Riccione?”.
Ma la Riccione dei bagni rimane tranquilla. Sotto il tendone discutiamo molto della Patria e del suo rapporto con la guerra in corso. La sera, però, andiamo a vedere Il figlio del corsaro rosso, con Luisa Ferida.
In fondo siamo in vacanza, e le vacanze – persino nel ’43 e nonostante la guerra e i bombardamenti – ci sono sempre, sia pure, almeno per me, in questa forma inedita: senza la famiglia, solo io e la mia cugina grande, non più al Lido di Venezia dove sono andata ogni estate sin dalla nascita, ma in questo posto sconosciuto che è per me Riccione. Un posto che mi sembra subito più interessante di quanto avessi pensato, modello di una modernità balneare lontana mille miglia dal mondo ancien régime del “Des Bains”. Sulla spiaggia non ci sono le cabine, ma tendoni a righe. Più in là, un’istituzione nuova: le colonie, con i bambini magrissimi provenienti da quell’entroterra miserabile che erano allora le campagne emiliane.

[…]

Anna Maria Mussolini, dopo una prolungata assenza per via della paralisi infantile che l’aveva colpita, era sempre nella nostra classe. E l’ambizione di tutte era essere fra quelle che venivano invitate il pomeriggio a giocare a Villa Torlonia. Fui fra le privilegiate e una volta, di scorcio, vidi persino il Duce sulla soglia della casa, dove non entravamo quasi mai e che a me parve comunque pessimamente ammobiliata.
Restavamo nel parco, dove talvolta compariva donna Rachele. E qui avevamo tutto quello che da bambini si può desiderare: piattaforme fra i rami, capanne nei boschetti, giochi di tutti i tipi. Bastava che Anna Maria chiedesse e stuoli di guardiani eseguivano. La sola cosa di cui noi non godevamo era della merenda: alle cinque i poliziotti che fungevano da governante la portavano ad Anna Maria e a Romano, non a noi ospiti. Mia madre non voleva capacitarsi che la famiglia del Duce fosse cosi maleducata. Oltretutto, non erano generosi romagnoli? Io stessa tuttora non capisco. È che i ragazzi erano affidati alla polizia, che aveva evidentemente ricevuto l’ordine di portar loro un panino. Noi non eravamo previste.

[…] 

Anna Maria era arrogante, ma simpatica. Pienamente consapevole del potere che le derivava dall’essere la figlia del Duce, lo sfruttava sfrontatamente, terrorizzando il nostro povero professore di italiano e latino, il professor Gianni, un uomo mitissimo, costretto a portare all’occhiello, come tutti i docenti, un distintivo su cui era scritto: “Dio stramaledica gli inglesi”. E questo sebbene il preside del Tasso, il professor Amante, si facesse vanto di trattare i ragazzi Mussolini come tutti gli altri. E una volta rimandò persino a ottobre Romano, evento che assunse i contorni della leggenda.
Il professor Gianni, tuttavia, non si fidava delle proclamazioni del suo superiore e, a ogni buon conto, preferiva dare ad Anna Maria sempre buoni voti. Ma lei, impudente, si alzava dritta nel banco e con tono strafottente chiedeva: “Professore, perché io, che pure ho copiato il compito dalla mia vicina, ho avuto ottimo e lei insufficiente?”. E quando la classe esplodeva nell’indisciplina, perché un maestro si era allontanato, era sempre lei che, alla domanda: “Chi è stato?”, si consegnava ironica dicendo: “Io, professore”.
Il momento peggiore per il professor Gianni scattava alle ore 13, quando – l’orario scolastico era stato all’uopo prolungato – tutte in piedi nei nostri banchi, ascoltavamo il Bollettino di Guerra. Anna Maria, infatti, amava commentarlo a voce alta, riferendo dei pareri orecchiati a casa sua. Sapemmo cosi, quando fu proibito il caffè, che i Mussolini ne avevano già da tempo accantonate molte scorte; e soprattutto – il giudizio veniva puntualmente ripetuto – che il papà riteneva il re Vittorio Emanuele III un cretino.
Gli avvenimenti successivi non poterono che rafforzare il giudizio sul monarca.

Fu proprio del re che Anna Maria mi parlò quando la rividi poco dopo la fine della guerra, a Roma, a casa di una nostra compagna di scuola che le era rimasta vicina perché sua madre era una fascista militante (tant’è vero che fu poi rinchiusa a Coltano, il campo di concentramento dove furono mandati quelli che tentarono di ricostituire un partito ispirato a quegli ideali, il futuro MSI). “Mio padre”, disse Anna Maria in quella occasione, “è stato rovinato perché s’è fidato di quel cretino del re”. Era la prima volta che la rivedevo dopo quella partita di tennis interrotta. Avevo nel frattempo saputo che quella stessa sera, da Riccione, era stata portata, con suo fratello Romano e la madre, alla Rocca delle Camminate, il castelletto poco lontano dall’antica dimora, a Predappio, della famiglia Mussolini, dove avrebbe voluto raggiungerli il padre, come risulta da una lettera che egli stesso scrisse alla sorella Edvige poco dopo il suo arresto: “Una volta placate le ire della gente della mia Romagna”. Nel frattempo erano passati due anni ed era accaduto di tutto. Fu un incontro triste, non la rividi mai più.

Brano corrente

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