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8 Ottobre 2020 | Racconti d'autore

La sirena zoppa

Racconto di Francesca Viola Mazzoni tratto dall’antologia “Lo dice il mare” (a cura di Barbara Panetta, Piombino, Edizioni Il Foglio, 2017)

Vittorio Ferorelli e Rita Giannini

La creatura più bella del mare, chiusa sotto vetro tanto a lungo da averne quasi dimenticato il colore, incontra gli occhi di una bambina fantasiosa: cosa potrà mai accadere? Francesca Viola Mazzoni, scrittrice e attrice ravennate, ha immaginato un seguito e ne ha ricavato un racconto in cui si può scegliere il finale. Ascoltiamolo dalla sua stessa voce.

La sirena zoppa ogni sera si esibiva sotto il tendone del circo, il seno d’anguria pronto a schizzare fuori da quel ridicolo reggipetto di così poca stoffa, il rossetto passato stuprando i bordi del labbro, che pareva una triglia altrochè.
“Guardami, sembro un’idiota”, pensava e intanto dimenava il culo di squame verdastre, la voce ipnotica ad accompagnare quell’onda di carne. La gente veniva da molto lontano per ammirare quella donna rubata all’oceano a cui quand’era piccina un marinaio aveva tranciato la pinna, forse per amore o dispetto chissà. Era bella bellissima che faceva persino un po’ male a fissarle gli occhi di schiuma impazzita e quel suo essere sghemba ne aumentava il carisma, facendola assomigliare a una diva del cinema solo un poco sgualcita (prezioso poiché rarissimo è il dono di portare le ferite come medaglie al valore, le mancanze come benedizioni).
Splendeva di imperfezione anche se, una volta spente le luci e smessi i lustrini, dopo che i tecnici l’avevano riportata dentro la sua boccia di plexiglass tutto sbrecciato, la star del cabaret tornava a essere un povero pesce orfano di quell’oceano che proprio non le si staccava dal bordo delle pupille. Hai presente lo sguardo vitreo delle triglie agonizzanti che affollano il bancone delle pescherie? Hai mai visto una canocchia a cui il mezzogiorno cocente abbia succhiato la vita da dentro? Ecco, così.
Le mancava, il mare. Le mancavano il fondo e la superficie, l’abisso e il pelo dell’acqua. Soprattutto rimpiangeva il silenzio e il buio di catrame dolcissimo di quando ti lasci sprofondare e abdichi all’abisso. Che tutte le volte che scendeva nel profondo al rallentatore le pareva di fare a ritroso il percorso che l’aveva sputata fuori da sua madre, dalla culla caldina e molliccia che era stato il suo ventre gravido. Il caos degli umani, quel vociare inconsulto e privo di grazia le offendeva i timpani cresciuti a suon di armonia e maree. E non serviva a niente premere il palmo delle mani contro le orecchie che il rumore si interseca in mezzo alle dita e talvolta resta anche sotto il bordo delle unghie, se non stai bene attenta. L’aveva fregata la sua natura romantica, quell’ingenua scintilla che non diventa mai cenere nelle anime dei sognatori più ostinati. Si era fatta gabbare dalla promessa di un bacio a salve, dall’illusione di un abbraccio seppur rosicchiato, che l’amore non lo butti mai via se hai molta paura del vuoto fuori e intorno a te.
Lui era bello di bellezza pirata, lo sguardo di chi ha perso già troppo per preoccuparsene, l’andatura fottuta di uno che è scampato al naufragio e ha ancora le scarpe inzuppate di sale, un’alga incagliata alla base della nuca. Faceva il pescatore o forse lo era, che c’è una bella differenza. Di sicuro il mare lo amava sul serio, benché lo saccheggiasse con quelle sue reti come zampe di ragno mai sazio. Si erano incrociati gli sguardi in una sera d’inverno laddove ha inizio il canale che sbocca sul porto e l’onda si interseca moribonda dentro la città. Lui era rimasto di stucco e fremito dinnanzi al fascino sfacciato che solo le creature refrattarie ai lacci sono capaci di sfoggiare: quella donna marina profumava della libertà che da sempre agognava. Se ne era detto innamorato e, una volta riuscito ad avvicinarla con promesse e spergiuri, zacchete, l’aveva pescata e messa in un bicchiere sul comodino. La studiava di notte, prima di dormire, insensibile a pianti e suppliche. Poi l’aveva venduta per due soldi all’impresario di un circo che passava di lì e con quelle poche lire si era comprato dei bragoni nuovi da duro. Per andare a scopare, è chiaro.
Così era iniziata la vita circense, così il calvario e la nostalgia. La pelle scottava sotto i fari impietosi che la esponevano al gaudio di troppi occhi affamati. Era diventata un fenomeno da baraccone, l’ombra patetica della meraviglia che era stata. Intanto gli anni passavano, il turgore si stropicciava come un ventaglio di carne e vene, il guizzo di mare nelle pupille si faceva di lago poi di stagno palude e infine pozzanghera misera. La sirena invecchiata conservava dell’antico fascino frammenti piccini sotto le squame; potevi vederli ancora brillare se stavi bene attento, ma lo sbarluccichio durava il tempo di un bacio distratto o dato con noncuranza. Poi l’immobile buio.

Flavia aveva la fantasia inversamente proporzionale all’età, dunque troppa per una bambina. Si era annoiata al circo che aveva trovato scontato e banalotto, forse un filo crudele. Comunque uno spettacolo non degno della sua attenzione.
Poi era uscito quello strano pesce con la faccia di vecchia, aveva iniziato a danzare dentro la sua boccia a dispetto di un’evidente zoppia e un’insospettabile grazia si era impossessata di quel corpicino, spogliandolo dei molti anni e degli altrettanti dispiaceri. Fluttuava come mosso da una forza lieve e potente trasformando il nuoto in un incredibile volo che non c’erano parole umane per dirlo. Sotto l’armatura di pailette da baldracca fuori tempo massimo, il luccichio parlava di un essere che aveva conosciuto intimamente l’immenso, a Flavia era chiaro. Il suo cuore di bimba curiosa aveva fatto una capriola all’indietro nel riconoscere la magia aldilà dell’involucro sgaffo e, mentre il pubblico congedava la sirena con un applauso fiacco, lei era sgattaiolata fuori dal tendone in cerca di quella creatura che meritava di essere osservata da vicino e con cura.
“Ma tu chi sei?”, le aveva chiesto con naturalezza, le mani piccine e grassocce spiaccicate sul plexiglass di quell’acquario da niente. “Non lo so più, bambina mia. Forse un’onda che si è scordata di essere mare…”, aveva risposto la vecchia, masticando a fatica le sillabe come chi non è più abituato a goderne del suono. “E cosa ti manca?”, aveva insistito la piccola. “Il blu, più di tutto”. E parlava piangendo ma le lacrime si perdevano nell’acqua torbida, sbeffeggiando l’ampiezza di quel suo dispiacere.
Il blu. Più di tutto. Ora tu che leggi devi sapere che mi è stato chiesto di scrivere del mare e io ci sono nata, sul mare. Proprio a un passo dalla riva, che di notte vedevo il tetto delle navi dal mio lettuccio di ragazza, mentre il faro stuprava dolente la cortina di nebbia. Ricorda lo strazio di una bestia che agonizza sul ciglio della strada l’urlo del faro, sconvolge la mente di meraviglia e terrore. E di questo volevo dire nelle poche righe del mio racconto: non i tramonti la spiaggia il corallo o l’orizzonte, ma la meraviglia e il terrore. Perché il mare è un adorabile bastardo, si sa. È un uomo che usa il suo fascino come uno scudo per sbranarti la giugulare, un re generoso e crudele che si finge filantropo invece è un tiranno. Dunque la meraviglia di una creatura onirica come una sirena e il terrore di averla presa, azzoppata e ingabbiata, sottoposta all’ingiuria del tempo e dei lacci umani. Attacco a scrivere di questo esserino ridotto in schiavitù ma non ho molto spazio per dirne la complessità. Allora mi permetto di entrare nella narrazione, indossando i panni di una bambina curiosa e le metto in bocca una domanda che suona piuttosto banale come un “E cosa ti manca?” solo per poter arrivare a questo, tutte queste battute sul mio portatile scassato per arrivare a questo: il blu più di tutto. Tutto è troppo blu per non averne paura, il mare il cielo gli occhi di mio padre. Tutto troppo che ti manca sempre un pezzettino da quanto ce n’è di immenso grande e non ti basta mai. Troppo e fa paura ma non ti basta mai. Il mare il cielo gli occhi di mio padre.
Allora Flavia guarda in alto, pensa che di blu ce n’è parecchio attorno e le viene in mente la donna grassa e baffuta sparata dal cannone: se di un colore e di una vastità si tratta, andrà bene anche il cielo. Sparerà la sirena proprio al centro delle stelle, è deciso.
E ora ti saluto, caro lettore. Mi ritiro e lascio a te la scelta: che il tuo cuore ti suggerisca se finire in volo o caduta, se depositare in ultimo sulla punta della lingua lo zucchero o il fiele. O forse ordinare il solito piatto, quello fuori menù che lo chef prepara solo per te che sei sì un povero cristo ma che non hai ancora rinunciato al tuo sogno. E allora agrodolce per il signore, grazie.

Finale 1 / Il terrore
Flavia acciuffa la sirena per la coda tutta smangiucchiata e a fatica la trascina dentro la bocca del cannone. Un due tre zip shhhhh sdung frrrr ed ecco che la miccia è accesa e il bellissimo pesce schizza dentro alla notte, i lunghi capelli sparati nell’intorno che somiglia tanto a una stella cometa o a un ideale quando si spegne troppo in fretta. Trema, non si sente a suo agio in tutta quell’aria che non ha la consistenza del suo mare, non ne ha la voluttà.
La scrittrice si sbagliava: no, non è solo questione di blu. C’è altro, c’è molto altro: ci sono le radici, l’appartenenza, c’è la sua famiglia sul fondo di anemoni e cozze, la mamma murena che non vede da così tanti anni. E c’è l’onda, soprattutto: quella non ti lascia mai in secco. No, lei non vuole restarci in questo cielo che è uno sconosciuto invadente, lei vuole l’acqua, vuole soltanto l’acqua. E mentre finisce di pensare questo, mentre ancora sulla lingua rotola la sillaba “qua”, un dio con un senso dell’umorismo piuttosto stravagante la ascolta e sì, la vuole accontentare.
Pluf, quindi e la donna dai piedi marini azzoppati si ritrova nell’acqua ma com’è immobile e fredda e che strano rimbombo, che orizzonte piccino, che misero regno… che sarà mica che, vuoi vedere che, ma figurati se, è impossibile ma, o forse massì, sì è così: è caduta dentro a un pozzo. E riderebbe se non fosse un destino davvero beffardo passare da una boccia a un pozzo, da un laccio a una cinghia, da una prigione all’altra, proprio lei partorita nell’incommensurabile, lei sputata fuori dall’immenso, disperata di libertà negata. Riderebbe se non fosse che la risata si spegne dentro quel budello e le unghie si spezzano contro la parete di sasso e muschio. Se non fosse che il gelo attacca a mangiarle la coda già sghemba e la solitudine le azzanna lo sterno. Dal cratere di pietra lassù nell’alto alto e nel silenzio silenzio il cielo le fa l’occhiolino con fare canzonatorio. Il blu le si appiccica agli occhi ed è più nero di sempre.

Finale 2 / La meraviglia
Così Flavia la prende e la spara nel centro del cielo e manca la luna di poco. La sirena sta ferma immobile in volo per non disturbare la quiete delle stelle ma dentro tutto muove e si muove, tutto dentro è una danza di gioia ora che è di nuovo libera. E poco importa che non sia mare questo blu nelle lacrime che le inondano gli occhi che dentro quell’acqua colata di sotto le palpebre c’è il mondo marino tutto, c’è l’oceano intero l’immenso assoluto col fondo pauroso e la schiuma birichina.
Dentro quel pianto c’è lei bambina con la pinna intatta, c’è sua madre stella marina e suo padre pesce spada. Ci sono sì i suoi sogni rinchiusi in un secchio, i desideri naufragati, le speranze prosciugate ma anche la potenza e l’audacia che solo chi ha vinto sull’onda sa e conosce. C’è tutto questo in quelle lacrime lì che ora hanno preso a scendere forte più forte che le persone là sotto si fermano e guardano in alto che non pareva dovesse piovere proprio stanotte e non abbiamo preso l’ombrello che il cielo era così sereno ma senti queste gocce, sanno di magia e nostalgia. I nasi ora sono tutti all’insù, le bocche spalancate bevono quella pioggia inaspettata e intanto che dolce pienezza li invade, che serenità li abita all’improvviso e quanta allegria.
Domani andranno al mare, pensano. Hanno voglia di blu, sentono.
Intorno nascono stelle indomabili.

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Musiche
Astor Piazzolla – “Vuelvo al sur” (Koop)
Vittorio Monti – “Czardas” (Gilles Apap & The Transylvanian Mountain Boys)
Yann Tiersen – “La Valse d’Amélie” (versione accordeon: Douglas Borsatti)
Julius Fucik – “La Marcia dei Gladiatori” (versione music box)
Pëtr Il’ič Čajkovskij – “Danza della Fata Confetto” da “Lo Schiaccianoci” (versione music box)
Charles Trenet – “La mer” / Raphael Gualazzi – “Il mare”

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