Salta al contenuto principale
2 Luglio 2020 | Racconti d'autore

La tenerezza della sconfitta

Testo di Flavio Nicolini tratto dal suo “Diario dell’aiuto” pubblicato nel libro “Il deserto rosso di Michelangelo Antonioni” (a cura di Carlo Di Carlo, Bologna, Cappelli, 1964)

Vittorio Ferorelli e Rita Giannini

Scrittore, sceneggiatore e disegnatore raffinato, interprete attento delle voci poetiche della sua Santarcangelo, tra il 1963 e il ’64 Flavio Nicolini ha partecipato come aiuto regista alle riprese di “Deserto rosso”, il celebre film di Michelangelo Antonioni in cui Monica Vitti è Giuliana, una donna che non riesce ad adattarsi al mondo che la circonda. Abbiamo scelto alcune pagine dal suo “diario di lavorazione”, documento prezioso di una creazione artistica nel suo farsi. Ringraziamo per la lettura l’attrice Liana Mussoni.

16 ottobre 1963
Zona industriale. Dove una decina d’anni fa c’erano ancora palude e pineta, oggi sorgono l’Anic, la Sarom, la Sade, l’Agip, la Soja, e tutta una serie di altre piccole e medie industrie. Torri e serbatoi, tubi, ferro e navi. In cielo l’elicottero dell’Agip mineraria. In mare, a sei chilometri dalla costa, l’isola d’acciaio della Sarom, e il Paguro, la piattaforma navigante per le perforazioni oceaniche.
La Ravenna storica, contadina e turistica, la Ravenna delle anguille è ormai una pagina sfocata a confronto di questa nuova Ravenna di torri di distillazione e fumaioli. La terra dei mazziniani e delle filodrammatiche dialettali sta trasformandosi in una tipica città industriale del nord. Il proletariato, e giovani contadini che abbandonano la terra per diventare operai qualificati, coltivano sogni piccolo-borghesi. E la piccola borghesia locale si lascia trascinare nelle avventure dell’industria, abbandona le sue abitudini di conventicola chiusa, si modernizza.
Noi possiamo guardare questi cambiamenti come i prodromi di un mondo fantascientifico; loro invece, hanno l’occhio pratico e diretto, e hanno già adottato la tecnica come befana del benessere. Gli operai invece, pensano alla casa nuova, dove il piccolo nucleo familiare impiega, la sera, il suo tempo libero davanti alla televisione. Gli elettrodomestici, il week-end in utilitaria sono i temi ossessivi di questa gente che si è messa in moto appena un decennio fa per la sua rivincita economica. Fabbrica e casa. Là, il dinamismo monotono della specializzazione; qua l’imitazione del piccolo borghese con i condizionamenti di una civiltà di consumi in espansione. Un po’ di fortuna ed è l’ascesa negli affari (edilizia, mangimi, colonie marine, commercio di auto usate, tutto quello che capita), il colpo dei milioni e, magari, i miliardi. È la chiave di Max, l’amico di Ugo e Giuliana in questa storia che Antonioni si accinge a girare.
Ma c’è anche la chiave della moglie dell’operaio che non vuole lasciare partire il marito per la Patagonia; la chiave di quell’altro operaio dell’Agip (da me conosciuto) che, in trasferta in Egitto, non parlava con nessuno in refettorio perché temeva di essere pazzo; e quella dell’operaio specializzato che cerca di evadere in un ambiente sociale più raffinato, e preferisce spendere in viaggi e teatro piuttosto che in mobili e comforts per la casa. Sono i sintomi di una prima resa agli psicomeccanismi del benessere, contro i quali né la vecchia diffidenza contadina, né l’idea, ormai confusa, della rivoluzione riescono più a opporre resistenza.
La linea dell’immagine sociologica non è, tuttavia, la strada che percorrerà Antonioni in questo film. E nemmeno la caratterizzazione regionalistica di un movimento di trasformazione economica, sociale. “La città di Deserto rosso è una città ideale. Non mi interessa Ravenna come tale” (sono parole di Antonioni  da una conversazione con un giornalista).
La ricerca delle condizioni di fondo è commisurata alle vicende dei personaggi del film, come la gelatina di una coltura sta ai bacilli immersi: in un ambiente adeguato l’indagine del regista mette a fuoco il comportamento dei tre esseri, e in particolare di una donna: Giuliana.

[…]

6 gennaio 1964
Frigorifero alla periferia di Ravenna. Baracca di Max. Interno esterno giorno: Ugo comincia a bere. Corrado osserva Giuliana che, invece, è intenta a osservare il marito che beve. E un po’ per discrezione, un po’ per il senso di estraneità che la confidenza fra i coniugi gli procura, si allontana. Appena se n’è andato, Giuliana si avvicina al marito con una strana espressione tra furbesca e ambigua sul viso: “Sai, era vero prima quando dicevo che ho voglia di fare l’amore”.
Il primo piano di Monica [Vitti] si gira sulla battuta. La situazione è tornata nella stanza grigia della baracca. […] Antonioni angola, sulla destra del fotogramma, Giuliana, a un passo dal marito, tutto sulla sinistra, di spalle. In proiezione lo scorcio della guancia di Ugo, leggermente sfocato, tracciata su un piano sfuggente, e come fatta di carne inconsistente, dà rilievo al viso di Giuliana.
Giuliana è intenta a guardare il marito che beve, poi gli si avvicina. I due si fronteggiano per qualche attimo come per interrogarsi con gli occhi. L’avvicinamento è dato con un breve movimento in avanti di Giuliana e un afferrare Ugo per la maglia con due dita. È un segno di pudore, l’espressione a giuoco di un sentimento avvertito nella sua sconcertante sincerità umana. È un attimo di vuoto di angoscia, l’illusione della liberazione.
Derivato dai movimenti e dal calcolo sulle posizioni da prendere durante la prova, questo gesto Monica ha improvvisamente deciso di adottarlo mentre si gira. In proiezione apparirà esatto per l’esito espressivo, e la precisazione di un risvolto psicologico: il pudore infantile.
L’episodio sottolinea l’attenzione di Antonioni alle invenzioni marginali, alle indicazioni casuali che sorgono sul set intorno al lavoro di messa a punto della scena. La struttura psicologica dell’interprete viene stimolata continuamente alla rottura della formula, alla assunzione di tutti i possibili segnali autocritici che possono partire dalla mobile realtà che circonda il suo lavoro. Di ciò Monica è consapevole, e dimostra un perfetto adeguamento alla tecnica del regista […].
Cercando di attirare goffamente a sé il marito, Giuliana si curva verso l’orecchio di lui per sussurrargli la frase: “Sai, era vero prima quando dicevo che avevo voglia di fare l’amore”. Al terzo ciak, Antonioni decide di prolungare, di sorpresa, l’inquadratura al di là dei limiti della battuta. È la sua tipica sospensione dello stop.
L’indiscrezione deliberatamente usata come stile, metodo di formare. Quantunque Monica non sia alla sua prima esperienza di stop sospeso, ci accorgiamo che il suo viso viene sottoposto a una serie di spinte intime, impercettibili, che provocano uno strappo nel tessuto della finzione recitativa eccitandola a movimenti di trepidazione che ne autenticano il risultato espressivo. Il contatto prolungato col personaggio, che improvvisamente le si aggrappa addosso senza la diaframmatura del calcolo interpretativo, rende troppo scoperta la sua simpatia per il comportamento di Giuliana.
Credo sia lecito sostenere che Monica sullo stop sospeso soffra di una sensazione di perdita di autonomia nei confronti di Giuliana, alla quale può essere sì segretamente legata per umori inconsci e constatazioni di carattere umano, senza tuttavia accettare identificazioni e analogie scoperte che non siano preventivamente filtrate dal suo impegno di interprete. Il dover subire l’urto diretto, oltre i limiti predisposti dalle necessità dell’inquadratura, determina in lei uno choc che la macchina da presa registra puntualmente.
Anche qui, come per il gesto di Giuliana su Ugo, si deve rilevare il carattere stimolante e spregiudicato della regia di Antonioni. Lo stop sospeso agisce come provocazione sull’interprete per richiamare, nell’ambito dell’azione scenica, umori e funzioni del carattere, abbandonati momentaneamente fuori dal set. Antonioni, in realtà, si avvale di criteri ponderati. La sua conoscenza della personalità dell’attrice gli permette di utilizzare, al momento opportuno, queste frange di autentica umanità nella loro interpretazione.
Quanto più la sensibilità è intimamente legata e impegnata a costruire una solidarietà nei confronti del personaggio (o pietà, come nel caso di Monica), tanto più l’operazione raggiunge risultati soddisfacenti. In precedenti inquadrature Giuliana aveva rivelato la tendenza a formarsi intorno a una qualità che la sceneggiatura mette in secondo ordine: la disarmata ingenua vitalità nelle scelte e nei rapporti con gli altri, la sua esplosiva tenerezza. Ogni momento di Monica, in quanto Giuliana, dove non bruciano i lampi di paura e il peso della malattia, è carico di dolcezza e simpatia. La didascalia: “Giuliana si avvicina al marito con espressione furbesca e ambigua”, nella comunicazione che Monica ci dà si trasforma in: “Giuliana si avvicina al marito come improvvisamente invasa da un dolce desiderio”. Una Giuliana che Monica, quasi direi, cerca di aiutare a guarire.

[…]

4 marzo 1964
Fame nera, umor nero, ciò che è nero è sposato alla malattia. Il viso smarrito di Giuliana, la pelle morbida e appena rosata, e l’espressione degli occhi sgranati, dicono, invece, un’ingenua scomposta soddisfazione (impercettibilmente venata di vertigine – ma solo per un centesimo di secondo) più di quanto non esprimano pena. Questa nera radura di rifiuti neri in combustione, pantanosa, recintata di pinarelli morti nerissimi, non è scenografia, ma realtà, o scenografia funzionale accolta dalla realtà.
Monica, in verde, mangia il panino a morsi rabbiosi, respirando con forza e a fatica. E ciò che ne deriva è un placarsi, accertabile in ogni suo gesto, un rendersi docile, quasi disarmata, come un animale tutto concentrato nella lotta per l’esistenza che ha guadagnato un giorno della vita e un pasto: è il senso commovente di questo personaggio, il lato domestico della sua malattia, l’essere infantile e tenero che sboccia nell’incrinatura della psiche sconvolta: come, nella baracca di Max, l’esperimento delle uova di quaglia e la proposta, al marito, di fare l’amore. Scherzo e tenerezza, erotismo ingenuo, desiderio di intima coesione con gli altri e le cose.
Topograficamente questo posto è lo scarico dei rifiuti del nerofumo accanto alla Carbon Black. In questo luogo giriamo due giorni. Senza chiasso, con una troupe ridotta, e qualche problema di luce: sono le prime giornate di primavera (o le ultime d’inverno) col vento alto che traffica in mezzo a nuvole. E non c’è sequenza che richiami più di questa il grigio invernale. […].

[…]

Roma, 14 giugno 1964
Desolatamente si vive all’interno di un evento che ci consuma senza storia in un prolungarsi indefinito di sviluppi privi di cause ed effetti (di conforti, cioè) obiettivamente intellegibili. I contenuti e le modalità dell’esistenza di rapporto hanno subìto svuotamenti e logorii radicali. Si moltiplica l’equivoco del disamore, è distrutto il rapporto ipocrita con le sovrastrutture: la realtà si affastella intorno all’uomo liscia e lucida come uno specchio sul quale i nostri gesti di comprensione e di possesso scivolano in una ripetizione ossessiva di cadute. Ci rimane soltanto la sicurezza amara di sapere la condizione disgregata e l’immagine riflessa del nostro volto attuale senza speranze e illusioni. Ecco il senso definitivo che si trae dal film.
Mentre sullo schermo passavano le immagini di “Deserto rosso” (la terza proiezione della copia di lavorazione) rimuginavo fra me e me queste cose. Sbirciavo di quando in quando Fusco alla mia sinistra, un poco affondato nella sua poltrona [Michele Fusco, uno degli autori delle musiche]. Pensavo anche alla dimensione musicale del film (un’ora dopo, Antonioni gli avrebbe detto di voler limitare il commento a pochi momenti essenziali). Pensavo al rapporto fra musica e rumori, dei quali il regista ha già ripetutamente sottolineato la funzione antinaturalistica: l’estrazione dai suoni di una loro anima nascosta mediante distorsione o elaborazione in laboratorio. Anche per i suoni, quindi, una tesi trasfigurativa.
Sullo schermo i personaggi compongono motivi di esistenza i cui dati sembrano registrati da sensibili apparecchi di controllo. A tratti la realtà apre dinanzi a loro il volto sconcertante di domande che non hanno risposta. Talvolta abbandonano il doloroso calcolo dei propri gesti per affidarsi alle risorse delle evasioni. Ma basta un grido oltre la parete, o il silenzio che succede alla rottura di un discorso per fargli tendere l’orecchio. In ogni momento della loro storia essi si comportano come se fossero in un sottomarino che navighi in un mare sconosciuto.
Credo di poter escludere che “Deserto rosso” voglia comunicare il senso della morte. Si potrebbe essere tentati di stabilire un nesso con le angosce della nostra epoca atomica, ma si cadrebbe inevitabilmente in un’interpretazione mirante a ristabilire i termini obiettivi di un’influenza catastrofica dirimpetto alla quale l’angoscia condurrebbe, alla fine, a una ribellione possibile (magica, mistica o politica, a seconda delle risorse ideologiche di ciascuno di noi e della società nella quale condurre la battaglia), e alla identificazione del nemico.
I personaggi di questo “Deserto rosso” non predicano la catastrofe della bomba atomica, non sono legati ai terrori dell’essere sospeso alla minaccia di morte universale. Per essi la bomba è già scoppiata, non sulla città, ma all’interno del loro tessuto vitale. L’anno mille della nostra epoca ha messo la radice dentro. È una corrosione interna, una ricorrenza senza fine di domande, la consapevolezza dei mali connessi a una biologia millenaria incapsulata vanamente in una scorza fragile di norme morali civili, sociali e sentimentali che si illudono di garantire lo sbocco acquietante ai percorsi della speranza. Con l’avvento della scienza nel cuore stesso della materia, l’occhio contempla atterrito il caos da cui derivano. Chi ci salva? Chi stabilisce i limiti fra malattia e speranza? Fra salute e desolazione?
La scienza, nella spirale delle sue scoperte, sembra indicarci il fallimento totale delle nostre sovrastrutture secolari, o ribadire il fallimento, il punto fermo della nostra originaria infelicità. La consapevolezza biologica dell’essere, l’inquietudine scientifica, l’ipnotica alternativa del benessere materiale, sembrano aver purtroppo distrutto il nostro potere di recupero o di invenzione della gioia. Ormai incerta l’utopia socialista squassata dagli uomini tirannici, e infrivolita dai compromessi dell’incertezza e della paura, irriproponibile il ritorno all’illusione della natura buona nei ritmi ciechi e passivi dell’esistenza animale o ingenua, inadeguato il salto al Dio di Kierkegaard, i personaggi di Antonioni confessano la sofferenza impotente, o l’indifferenza senza grandezza dell’individuo. Ma c’è in Giuliana un tale richiamo di tenerezza che potrebbe indicare anche il senso di un messaggio nuovo: la solidarietà sofferta di ravvisare in ogni gesto umano l’esito sicuro della sconfitta.

———————————————-

Musiche
John Coltrane & Eric Dolphy – “Spiritual”
Charles Aznavour – “E io, tra di voi”
Chet Baker – “Almost Blue” (“Chet Baker in Tokyo”)
Wes Montgomery – “Here’s That Rainy Day” (“Live in London 1965”)
Nada – “Lontano lontano”

———————————————-

Per visitare i luoghi di Ravenna in cui fu realizzato “Deserto rosso”: CineTurismo Emilia-Romagna.
Il “Diario dell’aiuto” di Flavio Nicolini è stato ripubblicato nel libro di Morena Campani “Il mio deserto rosso” (Ravenna, Edizioni del Girasole, 2019).

Brano corrente

Brano corrente

Playlist

Programmi