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23 Luglio 2009 | Racconti d'autore

Le balene lo sanno

di Pino Cacucci, Feltrinelli 2009 (terza puntata)

A cura di Claudio Bacilieri

“Viaggio nella California messicana” è il sottotitolo dell’ultimo lavoro di Pino Cacucci, scrittore, traduttore e sceneggiatore, bolognese d’adozione, che negli anni Ottanta ha vissuto in Messico, paese che ha raccontato in molti libri celebri, da La polvere del Messico a Puerto Escondido, da Demasiado corazón a San Isidro Futból. Prendendo spunto dai suoi viaggi e vagabondaggi, Cacucci ne Le balene lo sanno racconta un’altra California: non quella di San Francisco, Hollywood o Malibu, ma la Baja California, quella amata dalle balene perché è l’unico posto al mondo in cui non vengono cacciate.

Le balene lo sanno
di Pino Cacucci

Sulle montagne della Sierra La Gíganta

Lasciamo Puerto San Carlos per tornare a Ciudad Constitución, così la Dodge Durango può inghiottire gal­loni di gasolina e noi un caffè da mezzo litro a testa, che non si raffredda neppure dopo mezz’ora: piombo fuso. La México 1 punta a nord, fino a Ciudad Insurgentes, anche questa paciosamente desolata, e poi vira con decisione a est, inerpicandosi sui contrafforti della Sierra La Giganta: le forme di alcune montagne richiamano quelle di una donna gigantesca e hanno dato il nome alla catena che fa da spina dorsale alla Baja Sur, con vette da milleottocento metri. Zopilotes che volteggiano alti: gli avvoltoi messicani sono formidabili volatori, visti da quaggiù hanno un aspetto persino hermoso, con quelle grandi ali dalle punte aperte come dita delle mani. Peccato che ogni tanto qual­che carcassa di vacca ai lati della strada – ecco a cosa ser­vono quegli enormi respingenti sui musi dei camion – mo­stri da vicino come siano davvero gli zopilotes: brutti da far ribrezzo, una testa pelata con la pelle grigia e unta di umori cadaverici, saltellano goffi sull’asfalto senza deci­dersi a spiccare il volo. Ci fissano infastiditi con quegli oc­chietti rossi da creature spiritate, e le maestose ali viste nel cielo azzurro ora sono pesanti fardelli che si trascinano appresso. Certo, sono utilissimi e insostituibili: senza loro, che spolpano in poche ore tutte le vittime bovine,  equine, ovine – più una miriade di malcapitate creature minori – mietute ogni notte sulla carretera, altro che pro­fumo di fiori di cactus ci sarebbe adesso in quest’aria di montagna che rinfranca i polmoni. Superiamo la Estación Microondas Agua Amarga, con i suoi ripetitori che capta­no e irradiano comunicazioni dal continente, e dopo qual­che ora di curve iniziamo la discesa verso il Mar di Cortés. La costa comincia a Ensenada Bianca, da dove si scorgono la piccola Isla Monserrat e, alle sue spalle, la Santa Catali­na; poi, oltre una miriade di isolotti e la piccola Isla Dan­zante, si erge la vasta Isla Carmen. Ecco cosa intendeva John Steinbeck quando scriveva di “effetto miraggio”: è difficile capire dove finisca la penisola della Baja e dove sorga un’isola o un isolotto, è un continuo sovrapporsi di propaggini e pezzi di deserto staccatisi dalla costa.

“Mentre si sta superando un promontorio, questo si stacca all’improvviso e diventa un’isola, con l’acqua che sembra protendersi verso l’interno per ridurlo poi a una roccia dalla forma di fungo, e quindi lo libera completa­mente dalla terra, tanto che alla fine risulta un’isola sospe­sa sul mare. Perfino da una distanza molto ravvicinata, non si riesce a concepire la reale forma della terraferma. Isole, che secondo la carta sono lontanissime, risultano perfettamente visibili. Altre che dovrebbero essere vicine, non le vedi finché non erompono di colpo dal miraggio. Tutta la terraferma è chimerica e mutevole.” Steinbeck percorse le coste della Baja nel 1940 in barca assieme al­l’amico biologo Ed Ricketts, per poi scrivere Diario di bor­do dal Mare di Cortés, dove racconta di una singolare spe­dizione in cerca di crostacei e piccoli molluschi; il libro è dedicato a Ricketts, che morì pochi anni dopo, e inizia proprio con la sua auto travolta dal Del Monte Express a un passaggio a livello poco distante da vicolo Cannery.

Un enorme cartello indica un posto meritevole di minori attenzioni: Puerto Escondido. Non quello molto più a sud, sulla costa dello stato di Oaxaca, che ben conosco: questo Puerto Escondido, più che nascosto, è dimentica­to. Una baia incantevole, tante roulotte e camper, case sparse su una rete di strade che sembrano portare da nes­suna parte, i ruderi di un complesso turistico abortito – e mi verrebbe da dire “per fortuna” -, segno che le mire di investitori e politici locali sono naufragate nella silente pa­ciosità di questo luogo immoto. Il benzinaio ci racconta che l’edificio in abbandono, con quelle finestre simili a or­bite vuote di tanti teschi accatastati, dovrebbe essere final­mente abbattuto. Il nuovo porticciolo turistico, completa­to un paio di anni fa, è semideserto, ma c’è chi spera pos­sa diventare, in un futuro radioso, meta per vacanzieri in cerca di quiete. Intanto, i terreni intorno sono suddivisi in lotti, chissà chi mai se li comprerà.

I pellicani sostano in fila sulle ringhiere del molo, quasi si credessero piccioni urbani, e i rari villeggianti sembrano felici del mancato sviluppo: si godono la quiete e deambulano senza la benché minima traccia di fretta. L’acqua del golfo è straordinariamente calma, il sole sta tramontando e guardo le poche barche all’àncora che si apprestano a trascorrere un’altra notte di bonaccia. E scri­ve Steinbeck: “Le notti all’àncora nel golfo sono calme e strane. L’acqua è levigata, quasi solida, e la rugiada è così forte che il ponte ne resta imbevuto. E le piccole onde graffiano le spiagge fatte di conchiglie, producendo un suono tintinnante, e tutto intorno nell’oscurità i pesci sal­tano. A volte una manta gigante s’innalza sulla superficie e ricade con un tonfo fragoroso. Un banco di pesci minu­scoli sibila sotto il pelo dell’acqua e quando si libra produ­ce un impercettibile fruscio. E non ci sono né percezione, né odore, né vibrazioni della gente del golfo. Così, nono­stante il rumore delle onde e dei pesci, si prova una sensa­zione di quiete mortale”.

Lasciando Puerto Escondido 2, penso ai pellicani che lo popolano, e alle cupe previsioni di esperti biologi che li vorrebbero destinati all’estinzione.
Superato ormai il mezzo secolo di vita, ogni tanto mi chiedo se sia saggio continuare a leggere i testi di quei po­chi saggi rimasti sulla Terra che si affannano a lanciare al­larmi sulla sua sistematica distruzione, o se sarebbe più salutare cominciare a strafregarmene per vivere spensierata­mente quel che mi resta da vivere…

Per esempio, i pellicani: William Weber Johnson, ex direttore di “Time-Life” e profondo conoscitore della bio­diversità bajacaliforniana, già nel 1978 scrisse che erano inesorabilmente condannati. Non perché minacciati diret­tamente dall’uomo – nessuno spara ai pellicani -, ma per la micidiale “catena alimentare”: gli agricoltori abusano di pesticidi che a tonnellate scorrono in canali e fiumi e quin­di finiscono, prima o poi, in mare. E altrettanto fanno le industrie con sostanze tossiche e metalli pesanti, in parti­colare il mercurio. Dunque, i pellicani, al pari di altre spe­cie, si cibano di pesci imbottiti di pesticidi e altre nequi­zie, e da diversi anni le loro uova hanno il guscio sempre più sottile, tanto che le covate hanno spesso un esito nefa­sto per mamma pellicana.

Rincara la dose il cetologo Roger Payne, che al termine di un rabbrividente elenco di sostanze “organoalogene” presenti in mare in quantità sempre più massicce – mole­cole che contengono atomi di fluoro, cloro, bromo o io­dio, derivanti da pesticidi, diserbanti, insetticidi eccetera eccetera, con apporto di diossina, esaclorobenzene, bife­nili policlorurati e polibromurati, e tutti i componenti del­la fetente famiglia degli idrocarburi poliaromatici – parla delle leggiadre e pressoché invisibili diatomee, il vegetale più piccolo che esista: in pratica, è una cellula racchiusa da un microscopico scheletro siliceo, che assorbe la luce solare e galleggia grazie a una infinitesimale gocciolina d’olio. Le diatomee sono piccolissime, ma tante: costitui­scono la più grande biomassa vegetale sul pianeta. Bene, cioè malissimo: attraverso quella dannata gocciolina di so­stanza oleosa, che ci vuole il microscopio per vederla, le diatomee assorbono tutte le molecole di nefandezze sopra elencate, immagazzinandole perché non sono in grado di scinderle e digerirle. Di diatomee si nutrono tanti organi­smi, via via sempre meno minuscoli, arrivando ai pesci, in una lunga serie di scalini dimensionali, fino ai cetacei, che nella scala alimentare assorbono qualcosa come venticin­que milioni di volte l’inquinamento delle acque in cui vi­vono. Al termine del resoconto mortifero, Roger Payne ri­porta che nel 1987, nell’Atlantico settentrionale, si è regi­strata la scomparsa di almeno la metà dell’intera popola­zione di delfini e di un dieci per cento delle megattere: at­traverso le autopsie dei corpi recuperati, i ricercatori han­no stabilito che i mammiferi più evoluti del pianeta erano deceduti per depressione del sistema immunitario a causa di sostanze inquinanti.
Mi faccio del male, con simili letture. Anche perché, se in preda a un istinto primordiale pianterei volentieri un arpione nel ventre di un odierno baleniere solo per chiedergli “dimmi, cosa si prova?”, ora dovrei per coe­renza andare a spezzare gambe e braccia a tutti gli agri­coltori che usano pesticidi, per non parlare degli indu­striali che riversano nei fiumi le loro schifezze, che se vo­lessimo soltanto ghigliottinarli non basterebbe l’acciaio del mondo per farne lame… insomma, non si può. Dun­que, impotenza assoluta.

E a proposito di agricoltura: ho letto di recente, sul quotidiano messicano “La Jornada”, uno studio scientifi­co che ci annuncia, niente meno, l’imminente estinzione delle banane. Sì, le banane che troviamo a tonnellate or­mai ovunque. È una lunga storia, e pare si sia arrivati all’epilogo.
Fino a un secolo e mezzo fa, le banane proliferavano ai Tropici in varietà innumerevoli: ce n’erano di tutti i sapo­ri, le dimensioni e le sfumature di colore. Poi è arrivata la United Fruit – la attuale Chiquita – e ha “estrapolato” dal­le selve centroamericane una sola varietà, quella denomi­nata Gros Michael, per i grossisti, facendola diventare per un paio di decenni la banana, visto che erano tutte uguali e di eguale sapore: gialla, cremosa, dolce. Come spiega Dan Koeppel nel suo Banana: the fate of the fruit that changed the world, la multinazionale ha imposto a paesi “deboli” la monocoltura, estirpando le altre varietà.

E quando le piantagioni intensive hanno cominciato a essere attaccate dai parassiti, via con i pesticidi irrorati a tutto spiano da velivoli, anche mentre nelle piantagioni lavora­vano i raccoglitori, pace all’anima loro e dei familiari tutti. Nel 1911 il magnate bananiero Samuel Zemuray decise di trasformare l’intero Honduras in una sua piantagione pri­vata, ricorrendo ai servigi di un personaggio da film gang­ster: Guy Maloney detto Gunmachíne, cioè “mitra”, che organizzò un esercito privato dedito a sterminare eventua­li sindacalisti o ecologisti della prima ora. Da lì deriva il modo di dire ancora in voga “Repubblica delle banane”. Stessa sorte toccò nel 1954 alla democrazia guatemalteca, dove il presidente Jacobo Arbenz, liberamente eletto, do­po aver avviato la riforma agraria venne rovesciato da un colpo di stato ordito dalla United Fruit con il fattivo ap­poggio di Eisenhower – dettaglio curioso: allora a capo della Cia c’era un ex dirigente della United Fruit… quan­do si dice i casi della vita – e la dittatura militare che si in­staurò da allora sterminò almeno duecentomila indigeni maya. C’è da auspicare che queste stramaledette banane si estinguano davvero, vista la scia di sangue che si portano dietro… Pare non manchi molto.
Or dunque: la biodiversità permette alle specie di svi­luppare difese quando una sola viene attaccata, le monocolture no. Negli anni sessanta, la specie Gros Michael è stata distrutta da un fungo.

Al suo posto, nel frattempo, la multinazionale, sempre quella, ha creato la varietà Caven­dish – dal nome profetico del corsaro -, un po’ più piccola, meno cremosa, ma pazienza. Poi, negli anni ottanta, anche la Cavendish si è ammalata, infrangendo il mito di immunità a suo tempo sbandierato dai soliti Frankenstein dell’agroindustria. Solo in Africa si registra un sessanta per cento di piante morte. E si prospetta una progressiva contaminazione in America. Gli “scienziati” al soldo delle corporation stanno lavorando alla varietà Goldfinger – altro delinquente da film: almeno, sono coerenti con i no­mi -, che dovrebbe risultare più resistente. Peccato che íl frutto sia duro e aspro: la banana da mettere a fette nel gintonic, bella scoperta, complimenti. Johann Hari, di “The Independent”, nominato giornalista dell’anno da Amnesty International, nella condanna all’estinzione della banana vede una parabola dei nostri tempi: “Per almeno un secolo, un pugno di corporation si è impossessato di un frutto splendido e nutriente, e per spremere fino all’ulti­ma goccia di profitti ha distrutto democrazie, ha bruciato foreste e ora ha finito per uccidere la frutta stessa. E ab­biamo forse imparato qualcosa?”.

No, non impariamo niente, ci vorrebbero le balene al governo del mondo, loro saprebbero come fare. Guardo i pellicani, che comunque abbondano malgrado le uova dal guscio sottile, mangio una banana messicana di quelle pic­colissime, ancora sfuggite alla logica delle monocolture, mi sembra persino di scorgere un soffio di balena, laggiù, tra un’isola e l’orizzonte mutevole, e penso che sono pro­prio contento del mezzo secolo e più trascorso fin qui, e non mi dispiacerà affatto non esserci quando l’imbecillità umana avrà estinto pellicani, banane e balene. E un pen­siero rincuorante, niente affatto angosciante. Mi rimetto in marcia.

della tappa odierna. Avvicinandoci alla periteria, sul lato destro scorrono sterminati campi da golf: Loreto Bay si chiama l’insediamento di villette in riva al mare. Giusta­mente ha il nome inglese: con il Messico non c’entra una mazza (da golf, naturalmente).
E finalmente, Loreto, “capitale delle due Californie”, come si legge sulla facciata del municipio in caratteri tipi­camente coloniali. Fu capitale fino al 1828, quando un uragano la devastò e, intanto, le mire secessioniste del­l’Alta California da un lato, e la propensione dei poteri locali a insediarsi a La Paz dall’altro, ne avrebbero decre­tato l’inesorabile declino. Prima missione gesuita nella Baja, la chiesa di Nuestra Senora de Loreto conserva la malia del tempo che si è fermato, anche se sul portone un cartello ci riporta ai guasti del “progresso”: DIO TI CHIAMA, MA NON USA MAI IL TELEFONO: SPEGNI IL CELLULARE PRIMA DI ENTRARE.

Brano corrente

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