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12 Giugno 2008 | Racconti d'autore

L’Emilia o la dura legge della musica

di Gianluca Morozzi, Guanda, Parma, 2006

A cura di Claudio Bacilieri. Lettura di Fulvio Redeghieri

12 giugno 2008

L’Emilia o la dura legge della musica
di Gianluca Morozzi, Guanda, Parma, 2006.

In questo divertente libro, il bolognese Gianluca Morozzi affronta quello che si potrebbe definire uno dei “miracoli emiliani”, ossia: com’è possibile che si arrivi a suonare per folle oceaniche partendo da posti come Zocca o Correggio – luoghi natali rispettivamente di Vasco Rossi e Luciano Ligabue? Il quesito, insomma, è: com’è che l’Emilia è la regione più musicale d’Italia, dove sono fioriti autori come Lucio Dalla, Francesco Guccini, Nomadi, Zucchero, Modena City Ramblers, CCCP, Skiantos, Luca Carboni, Samuele Bersani, Nek, oltre ai già citati Vasco e “Liga”? Ognuno ha una sua teoria (ricordiamo che questa è anche la terra di Giuseppe Verdi e Luciano Pavarotti). Guccini sostiene che il merito è della cultura contadina, che per sua natura era una civiltà canterina. Secondo Dalla, è il nastro d’asfalto della via Emilia a legare insieme tutte le città da Rimini a Piacenza e a creare un’unica e musicale metropoli.

Nella terza e ultima puntata dedicata al libro, facciamo entrare in scena il mitico Vasco Rossi, lo “zio scapestrato”, come lo chiama Morozzi, le cui canzoni tutte le sedicenni conoscono a memoria.

Terza puntata.
Lo zio di tutti noi.

Mettiamola così.
Mettiamo che, un giorno, una delle ragazze indiane che stazionavano in cucina mentre i Lookout Mama suonavano Louie Louie e il chitarrista di cui sopra rompeva la prima corda – ignorando completamente la band, e preferendo starsene in cucina per insondabili vicende personali -, ecco, mettiamo che molti anni dopo la ragazza apre un quotidiano di Bombay, vede la foto del sottoscritto che riceve il premio Nobel per la letteratura, sgrana gli occhi, chiama la sorella, dice « Oh, ti ricordi al matrimonio di X, quando c’era quella band di sfigati che suonava e noi ce ne stavamo in cucina, e a un certo punto è entrato il chitarrista con la sua Squire in mano, ci ha spiegato in un inglese pietoso che gli si era rotta una corda e non riusciva a cambiarla perché un pezzo della corda rotta gli si era incastrata nel ponte e se potevamo prestargli una forcina per capelli, in pratica avevamo operato la sua chitarra sul tavolo di cucina mentre la band suonava Last kiss senza di lui?, ecco, quello ha vinto il Nobel per la letteratura ».

Prima del concerto, comunque, c’era stato il pranzo di nozze. E prima ancora – ma dai? – c’erano state le nozze. In una chiesa di Zocca, vicino Montepastore, e lo so che a leggere Zocca qualcuno ha finalmente capito dove sto andando tortuosamente a parare, ma procediamo.

Noi della band eravamo arrivati a cerimonia iniziata, dopo esserci smarriti quindici volte per i tornanti dell’Appennino. Ci eravamo sistemati nelle panche in fondo alla chiesa, e li Diego – chitarrista solista dei Lookout Mama – aveva notato alcune targhette di metallo su quelle panche. Sulle targhette c’era scritto Dono di Novella e Vasco Rossi.

E tutti noi lo sapevamo benissimo di essere a Zocca, quella Zocca, paese natale di Vasco Rossi, ma quelle targhette, come dire, ce l’avevano confermato. Quelle targhette, come dire, avevano stabilito un diverso rapporto emotivo tra il paese di Zocca che materialmente ci stava intorno, e il paese di Zocca come patria di Vasco Rossi. Nel senso, Liverpool come città, e Liverpool patria dei Beatles. Il New Jersey come jersey Turnpike, fabbriche, raffinerie, e il New  Jersey come luogo natale e oggetto di tante canzoni di Bruce Springsteen. Sono la stessa cosa, ma due cose diverse.

Mentre la cerimonia nuziale si concludeva, mi ero ritrovato a pensare a quando don Nicola mi aveva chiesto « Hai mai pensato a fare il prete, da grande? »

E a una canzone di Vasco Rossi chiamata Fegato, fegato spappolato.
E andiamo dritti al punto, vivaddio.
… disse il Commerciante all’Uomo del pane …

La canzone Fegato, fegato spappolato è contenuta nel secondo album di Vasco Rossi Non siamo mica gli americani . Quello che conteneva Albachiara, per dirne una che conoscono anche le blatte.

La canzone parla di un ragazzo che vive in un piccolo paese. Comincia con un prologo low-fi, presumibilmente le voci che il narratore sente fuori della finestra mentre è in dormiveglia. Si sta preparando la festa del paese, dunque, e un personaggio noto come il Commerciante dice all’Uomo del pane « Non è giusto, domani sarà festa in questo stupido paese, ma non per noi che stiamo a lavorare ». L’Uomo del pane fa finta di niente, lui ha troppe cose da fare, e poi non ci può fare niente.

A questo punto il protagonista si sveglia.*

* Come nel più classico degli attacchi blues: I woke up this morning…

Il narratore si sveglia con un gusto amaro e schifoso in bocca. Non è molto chiaro quello che ha bevuto la sera prima, ma niente di salutare, si suppone, visto che alzandosi dal letto si preoccupa del suo povero fegato spappolato.

A questo punto entra in scena la Madre. Si trova davanti il figlio con un’aria presumibilmente un po’ agghiacciante, gli dice di andare dal dottore, gli dice che ha una faccia che fa schifo, gli dice che sicuramente finirà male. 1 narratore la guarda con un sorriso strano, sostanzialmente attraversandola con lo sguardo. Sta pensando che fuori c’è la festa del paese, e che tutto sommato potrebbe anche pensare di farci un giro. Appena manifesta questa intenzione – con gesti più che con parole, si suppone, come l’accostarsi alla porta – la Madre gli corre dietro con il vestito nuovo. Non vuole che suo figlio vada alla festa del paese vestito in modo trasandato, tipo con una maglietta sporca di vomito.*

* Questo è un abbellimento personale.

Per sfuggire alla Madre, il ragazzo esce di casa alla velocità della luce. Il tempo di mettersi le scarpe, e già è in strada.

E’ una bella giornata, fuori. Il ragazzo saluta allegro la gente, che ricambia il saluto guardandolo sconvolta.*

* La mia teoria della maglietta sporca di vomito torna prepotentemente d’attualità.

Ormai ci sono abituato, ci dice íl narratore commentando gli sguardi, lo sanno tutti, in paese, ormai è chiaro che sono un drogato. E qui apprendiamo un dettaglio piuttosto importante sul narratore.

La festa non è neanche male, ci dice il narratore, dando la mirabile immagine poetica del gusto di campane. Tutto intorno a lui si muovono gli abitanti del paese. Qualcuno va a messa, qualcuno non è ancora totalmente sveglio, qualcuno pensa di fumare come aperitivo, prima di mangiare.*

* Quel fumare non implica Marlboro light o Camel, si suppone, ma sostanze che vanno scaldate, mischiate al tabacco e avvolte da una cartina. Dopo aver trovato un biglietto dell’autobus per fare il filtro.

Dopo scopriamo che la gente del paese è solita affollarsi nell’unica discoteca della zona, e alla fine il narratore ci spiega chiaramente quello che pensa della vita nel paese. Ovvero: La sera che arriva / non è mai diversa / dalla sera prima.

E conclude dicendo «Ci vuol qualcosa per tenersi a galla sopra questa merda /  e non m’importa se domani mi dovrò svegliare ancora con quel gusto in bocca».

 … hai mai pensato a fare il prete?…

 «Hai mai pensato a fare il prete, da grande?» mi aveva chiesto don Nicola.

Io ero un bravo ragazzino, nella prima metà degli anni ottanta. Educato, puntiglioso, rispettoso. Di quelli che si compiacciono quando ubbidiscono agli ordini dei genitori, dei professori, dei ragazzi più grandi. Agli ordini in generale, per quanto idioti possano essere gli ordini e coloro che li impartiscono. Se non ci pensava Vasco a scuotermi, magari anziché starmene qui a scrivere adesso me ne stavo in divisa in qualche luogo inospitale dell’Iraq.*

* Okay, forse ho esagerato un po’.

È che magari hai dei genitori terrorizzati dalle cattive compagnie e dall’idea che tu possa diventare un drogato e un teppista, e allora – in buona fede, per carità – esagerano un po’ nell’altro senso. Se sei fortunato, arriva lo zio simpatico. Quello un po’ scapestrato, con la moto e mille fidanzate.

Che ti porta giù in città a divertirti un po’.

A un certo punto, poco dopo la curiosa domanda di don Nicola, il mondo aveva iniziato a mandarmi curiosi segnali dalle più imprevedibili direzioni.

In un varietà del sabato sera c’era un imitatore – Alfredo Papa, forse – che camminava sui tetti travestito da Cossiga cantando Vita spericolata con accento sardo.

E io, bypassando l’imitatore, il travestimento da Cossiga, l’accento sardo, ero andato alla sostanza e avevo pensato «Però, bella ‘sta canzone».

Poi c’era un programma in radio, un programma di richieste, che ascoltavo tutti i pomeriggi mentre tiravo rigori in salotto con una palla di pezza. E un tizio aveva cominciato a telefonare tutti i giorni alla conduttrice – una certa Susannatuttapanna – per richiedere ogni santo pomeriggio la stessa canzone: Jenny è pazza, di Vasco Rossi. E mentre tiravo rigori nella porta ricavata tra due poltrone, mi ero detto «Però, bella anche questa canzone».

E durante le interminabili partite al campo da calcio della Quercia, quelle che cominciavano dopo la scuola e finivano al tramontar del sole, dei ragazzi grandi con le Golf dagli sportelli aperti guardavano giocare noi ragazzini bevendo birra e fumando, e dallo stereo di una Golf usciva in continuazione Brava di Vasco Rossi. Io sgambettavo sul campo polveroso, mi buttavo in scivolata, saltavo di testa, e intanto ascoltavo «E quando sei riuscita a farmi cadere / con la tua logica di calze nere» pensando «Però, che bella pure questa». Con qualche sommovimento ormonale, in aggiunta, per quella storia delle calze nere. Gioventù.

Brano corrente

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