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16 Luglio 2015 | Racconti d'autore

Lezione privata

Un racconto di Alessandro Scansani tratto dalla rivista “Transpadana. Cronache Racconti Antropologhìe” (Reggio Emilia, Edizioni Diabasis, almanacco 1997).

A cura di Vittorio Ferorelli. Lettura di Fulvio Redeghieri

Intellettuale e poeta raffinato, fino al 2011 Alessandro Scansani ha diretto con rigorosa passione civile la casa editrice Diabasis, che aveva fondato a Reggio Emilia nel 1988. In questo racconto rievoca due figure indimenticabili: quella dello scrittore Silvio D’Arzo, nome d’arte di Ezio Comparoni, e quella della “sua Ada”.

XI comandamento.
E non dire mai e poi mai che è stato il caso

Silvio D’Arzo

Quando vidi Ada, ragazzino in calzoni corti e senza fili di barba, me ne innamorai anch’io, della forza e della fedeltà imperitura che hanno i ragazzini nei loro impossibili amori-mondo. Avvenne così. Per accadimento. Forse anche per lui, che era sempre stato un ragazzo: maestro di poetici racconti e di conradiane avventure – a saperlo vedere – ma pur sempre un ragazzo.
Il professor Comparoni aveva già la sua fama (poesie, saggi e racconti su libri e riviste), nella piccola città dove si conoscevano tutti, e le lettere e l’arte scremavano un gruppo.
Noi, suoi alunni – io almeno – lo ascoltavamo incantati.
O smarriti.
La signorina Ada era capricciosa della sua sfolgorante nera bellezza e, nonostante fosse presa di lui (come fuggire alle timide attenzioni di uno scrittore delicato, ironico, galante, che inviava mazzi di righe come fossero rose, la leggerezza dell’aria bagnata del mattino?), si circondava di sottili strategie di allontanamento per avvicinare: gli sguardi, le geometrie del collo e della spalla, l’alterezza del viso. I capelli. Era quella la sua età, la sua bellezza, i suoi giochi. Lei ricca e bellissima, i salotti, le arti… da bimba, il grande pranzo pasquale coi musici. (La borghesia reggiana di un tempo stringeva d’orgoglio letterati ed artisti in quello che era pur sempre un abbraccio.)
Si sdegnava per disattenzioni inventate, si negava, si apriva… ma Comparoni le scriveva lettere di ironia e di pudore, e misuratissime dediche (che altro poteva uno scrittore?), le regalava libri, viveva di questo corteggiamento che era letteratura e vita: amori di carta (forse anche di carne, che importa), di quelli che – essendo grande l’artista – durano oltre se stessi e consegnano un viso, un nome, un amore per sempre. La signorina Ada pittrice, il nonno Cirillo Manicardi pittore – le sue luci, le ombre, le ansie, i colori di Così va il mondo nel sangue – era deliziosamente incoerente e selvatica, nel suo mondo di letteratura e di arte, di mali presunti e reali vissuti come affinamento dell’anima. Io salivo e scendevo lo scalone del vecchio palazzo per incontrarla non visto, per sentirne il profumo, sfiorare l’onda scura dei capelli, quando imboccava le scale con la forza di un vascello che domini il mare e sappia il suo destino. Cercavo ogni scusa, per infilarmi non visto – e non mi avrebbe visto comunque – in quell’androne patrizio.

Mi sarei voluto scrittore, per scriverle, per essere amato.
All’inizio mi nascondevo, per paura e per il farsi troppo vivo del mio amore. Correvo, la testa bassa, per non farmi riconoscere, perché nessuno mi facesse domande. Non avrei avuto risposte che per me solo.
Aspettavo che entrasse o che uscisse, dietro i pilastri rosicchiati della via Emilia, sotto i portici di San Pietro, in quelle sere nebbiose di Reggio, più fitte, fradicio come tutto laggiù: un selciato di acqua, il cuore in gola. Non so come fu, perché, se ebbe un senso. Fu sotto il segno delle tante impossibilità che in questa città sono possibili. Il cuore in gola.
Quello del professor Comparoni, nell’amore trattenuto con fine distacco e ironia, con urgenza e passione velata dai libri, nelle sue lettere, talvolta doveva essere in pezzi. L’incertezza, la bizzarria un po’ arrogante dell’infinita bellezza… e questa città che riempie di solitudine artisti, scrittori, poeti, in un male oscuro che vivo.
Era il mio insegnante e lo amavo di partecipazione devota, per la mia parte complice. Mi aveva guidato in modo nuovo e su nuovi percorsi fra i libri, dentro di me. Chiuso nel suo cappotto elegante e sgualcito, guardingo e lontano, il bavero alzato sulla sciarpina un po’ smunta, mi aveva fatto amare la letteratura come un frutto maturo, non resistibile. La scrittura cominciava a entrarmi nel corpo, anche a me, come un malore non controllabile, che cercavo, che mi inorgogliva e mi faceva paura. Povero, solo, straniero, teso come la corda di un acrobata (i suoi funamboli angeli e diavoli), come lui sospeso sul vuoto e felice (o infelice, che importa?)… cominciavo a credere che la letteratura dovesse essere mia, anche mia; ma dopo la sua partenza ancora mi tortura, d’insieme, il desiderio e la paura di scrivere. Potevo non amarlo?
Il padre di un compagno, Galloni, gli era amico tra i pochi (ma – già allora mi parve – quanta solitudine in quella stessa sparuta amicizia, quale condanna d’esilio): leggevano, si scambiavano storie sull’onda dei passi o bivaccavano di letterari divaghi in qualche angolo caldo della città, sfidavano a pesca i gorghi del fiume e del tempo, accoccolati nel sole. Il compagno mi diede in lettura dei testi presi a suo padre. L’uno, poi l’altro e poi l’altro. Li affrontai trepidando, in segreto.
Silvio D’Arzo aprì la mia vita, gonfiò il mio amore.
Ricordo carte diverse raccolte da buste, manoscritti e dattiloscritti tracciati su veline sottili o su protocolli rigati, che spesso non ho ritrovato fra i libri di D’Arzo pubblicati lui vivo, o dopo la morte. Curioso anche questo. E crudele. Racconti, romanzi, poesie, un quaderno di fiabe illustrato da un amico pittore che non ricordo… svaniti nel nulla.

Le sue lezioni di letteratura e di cinema mi perdevano, i suoi scrittori di mare e destino narrati da una piana di nebbia e di pioppi lontana dal mare. Cammini leggeri che puntavano al cuore e lo tagliavano come una lama. Le sue storie narrate e inventate in un gioco, le sue attenzioni umanissime, i suoi confini stellari fra il possibile e l’impossibile…
Ancor oggi è Silvio D’Arzo a legarmi, fra i pochi, a questa città, così sorda alle avventure dell’anima.
Quanto alla signorina Ada, io ragazzino non avevo incertezze. Nessun ragazzino ne ha sul suo amore assoluto. Si ama per improvvisa visione, che inchioda alla gravità leggera di un viso o di un passo, come un pianeta al suo sole.
A volte seguivo non visto il professor Comparoni da Ada. Poi ci tornavo da solo. Li avevo seguiti in alcuni dei loro primi incontri e, lontano, guardati. Cercavo le loro labbra per decifrare i gesti, gli sguardi, ironie, rapimenti ed ubbìe… e, sempre, quell’onda scrollata come un’ala nel vento. Posti ingrati e qualunque (una sfida, per Ada?): il Caffè della Stazione, dio mio, il Caffè Italia dei mediatori di vino…
Una volta, una sola, mi invitò nello studio che gli prestava un amico, l’avvocato Degani affettuosamente chiamato De’ Cani (lo seguii un altro giorno fino in via Aschieri, alla sua povera casa – di vergogna, come la mia – oggi sede di albergo, e senza che nulla ricordi), per un supplemento di Kipling, in classe tagliato dalla fine dell’ora: era stato sorpreso dal mio disappunto. Alla fine mi chiese, e fu l’unica volta, di portare un pacchetto in via Emilia San Pietro, al numero da me conosciuto (sapeva?). Sbirciai dentro: era il libro di capitan Whalley in rotta verso il suo limite estremo (corsi in biblioteca a cercarlo, ma lo trovai solo anni dopo), un cieco segreto a incrinare il suo mondo, a spegnere – calpestando nel fuoco – fatiche e bagliori dei suoi orizzonti in un esilio di luce. Perché glielo diede? Perché proprio quello?
Per quali crudeli disegni si configurano a volte, non visti, i nostri destini…
Lo allungai, gli occhi chiusi, tenendo rigido il braccio, il sangue furioso che tempestava dal cuore, fuggendo non appena sentii la mano leggera.
Volevo capire il mio professore il giorno dopo dal banco, leggere amore e dolore nelle sue letture e parole, nelle molte invenzioni, nelle sue umanità e asprezze. Sapere. La piccola o grande follia di un ragazzo. Senza gelosie, amavo entrambi.

La signorina Ada portava, nei giorni di gloria, camicette aperte sul collo e le spalle: e già questo era un abbaglio di luce e di carne. Le ciglia, e gli occhi grandi come mattine di sole o più scuri, perle (grigioverdi?) di un’estensione cromatica pari agli umori. L’ovale del viso come un’arena, i lunghi capelli che immaginavo, per omaggio d’amore, da me vergati ad inchiostro su una pagina bianca (l’altro amore trasmessomi – un tempo, un giorno, se il tempo non avesse consumato la mia forza e il mio dono – era scrivere: racconti, un poema…). Come un fuoco, una grande vampa di nero fuoco sul candore delle pagine, a bruciarle di abbaglio. Il suo naso, le labbra come una ciliegia spaccata. Il grigioverde (forse) degli occhi.
Ada non l’ho più rivista, murata com’è nel suo esilio dalla partenza di Ezio.
Dopo un’estenuante vacanza a Malcesine (già, io penso che ai laghi la vita pieghi incupita di una tristezza mortale) – mentre i compagni di Reggio sapevano, io pure dal mio amico Galloni… e Ada – in quei giorni del sapere dolente che ci torturavano lenti ed uguali se n’era andato all’ospedale di Modena, nell’inghiottitoio assurdo della malattia, con i suoi piedi strascinati, l’amaro del bel viso con la bocca reclinata, lo sguardo pieno di colpa, per doverci lasciare, recando disturbo, interrompendo la storia (l’altra colpa, io credo, quella della sua nascita, l’amore e il fuoco di quei capelli avevano cancellato per sempre in una maturità nuova). Sarebbe tornato solo a morire, in Villa Ida Zironi, sul viale delle quattro porte, fuori dal fuoco della città.
Lei murata nella sua storia, a cui sarebbe rimasta fedele per sempre: la devozione al suo amore-scrittore, la colpa, forse, di un troppo tempo di giochi che tolse tempo all’amore e alla vita. Una fedeltà per sempre contro il silenzio di una città: la sua “città d’altri”, in cui D’Arzo non pare esser mai esistito.
La montagna cerretana da cui scese, per tornare – nude montagne dell’anima – con la vecchia Zelinda delle pecore e il prete, a cui ha affidato l’ultimo e più teso messaggio: un racconto affilato nell’essenzialità delle parole e dei gesti, interrogativo acuminato e inquietante, ultimo e unico, sul senso della morte e della vita.
Fra tanta solitudine che dura, Ada resta a ricordarlo e ad amarlo nella sua immutata bellezza. Un destino.
Il mio professor Comparoni, la mia Signorina Ada.

[Per la pubblicazione di questo testo si ringraziano Ave Burani Scansani e Giuliana Manfredi]

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