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21 Gennaio 2021 | Racconti d'autore

L’occhio della farfalla

Testo tratto dal romanzo omonimo di Costanza Savini (Mantova, Oligo Editore, 2020)

Vittorio Ferorelli

Nina è una ragazza degli anni Quaranta, che sta per diventare adulta mentre il rumore della guerra si avvicina. Lascia Bologna insieme alla famiglia, per rifugiarsi sul lago di Garda, dove l’attende una villa antica, con nuovi incontri e un mistero da svelare. Sfogliamo insieme le prime pagine dell’ultimo romanzo pubblicato dalla scrittrice Costanza Savini, ringraziando per la lettura Donatella Vanghi e l’associazione “Legg’io”.

31 Dicembre 1942

Quella notte di giovedì Bologna era coperta da un leggero strato di neve. Per quanto le strade fossero immerse nel buio e nel silenzio per il coprifuoco, della luce filtrava lo stesso dalle persiane abbassate. Nelle case la gente si era riunita per festeggiare la fine dell’anno nell’allegria un po’ forzata del tempo di guerra.
La luna proiettava la sua luce di zucchero fuso sui tetti. Nina, guardandola dalla finestra del salotto, si immaginò di staccarne un pezzetto d’argento, metterselo in bocca e masticarlo come un pane speciale fatto di luce. Alla fine, formulò il suo desiderio: che nel 1943 la guerra magicamente finisse.
Quella sera in casa si beveva il Luxardo, un liquore a base di alcol e ciliegie proveniente da Zara, colonia italiana sulle coste dalmate, e si ascoltava la musica in onda su Radio Igea. L’apparecchio radio che si trovava in salotto era color azzurro Savoia, con le manopole color canna di fucile. Emetteva un suono pieno, caldo e armonioso.
Nina si annoiava, così a un certo punto prese una pantofola di raso rosso della madre per fare il rito, uno dei tanti che si fanno ancora oggi in giro per l’Italia la notte di Capodanno per vedere se il nuovo sarà un anno fortunato o meno. Salì al piano di sopra dove si trovavano le camere da letto e da lassù, dando le spalle alla scala e tenendo gli occhi chiusi, gettò giù la pantofola. La raccolse, la gettò di nuovo e via ancora; la riprese in tutto per tre volte di seguito, ma ogni volta la pantofola cadde ribaltata con la parte di raso rosso all’ingiù e il tacchetto rivolto verso l’alto: senza dubbio, un brutto segno, pensò Nina.
Alla fine dei programmi la radio mandò in onda le note di Lili Marleen: «Tutte le sere / sotto quel fanal / presso la caserma / ti stavo ad aspettar. / Anche stasera ti aspetterò / Che cosa mai sarà di me? / Ma poi sorrido e penso a te / a te Lili Marleen / a te Lili Marleen».
Quella sera, Paolo, il padre di Nina, aveva un’emicrania martellante per via dei pensieri che gli si affollavano nella testa da giorni, e non faceva che accendersi una sigaretta dietro l’altra.
La guerra durava da tre anni, le cose stavano mettendosi in modo diverso da quanto propagandato dal regime, e Paolo non faceva che chiedersi se non fosse arrivato il momento di trasferirsi a Costermano, il paese sul lago di Garda dove era nato e dove si trovava la casa di famiglia.
Per questo da un po’ di tempo, la sera, srotolava sul tavolo della sala una cartina geografica, e su quella carta che occupava il posto della tovaglia, disegnava con la stilografica linee, croci, cerchi per segnare le tappe del viaggio da Bologna a Costermano.
«Fatta poi la strada costiera e i paesi della riva, c’è l’interno: da Garda a Costermano» diceva curvo sulla mappa, come a voler sprofondare nell’azzurro dei fiumi e perdersi nel verde dei campi.
Paolo era alto e di un magro quasi nervoso, la muscolatura del suo corpo era stata modellata dal lago, dal tempo trascorso da ragazzo a nuotare nelle baie e a remare tra i porti delle rive. C’era nel suo aspetto e nel suo modo d’essere qualcosa di estremo, di assoluto. Qualcosa che era insieme la sua vulnerabilità e anche la sua forza.
Violante, invece, sua moglie e madre di Nina, lo ascoltava e un po’ fantasticava per conto suo. Vedeva il cancello della villa che si trovava proprio sulla terribile curva a gomito, all’ingresso del paese. Ne vedeva le punte arrugginite con in cima la doppia N dei Nicolis e il canneto all’inizio del giardino circondato dai muri, coi contadini che spruzzavano il verderame sui vigneti intorno. Vedeva l’ingresso principale con le due palme, i camerun, che raggiungevano l’altezza del primo piano; ci avevano impiegato almeno una ventina d’anni per arrivare fin lassù.
«I pericoli sono tanti, sia a restare che a partire! –diceva Paolo sempre fumando come un turco – Se rimaniamo qui in città, prima o poi finiamo anche noi sotto qualche bomba; se ce ne andiamo, invece, c’è il viaggio da affrontare, ma una volta lassù saremo più al sicuro».
Violante se ne stava in silenzio, entrambe le soluzioni la spaventavano a morte. Perciò, preferiva pensare alla stoffa amaranto per tappezzare il divano del salotto, o a come montare lo zucchero giallo sbattendolo con la polverina di tuorlo d’uovo per rendere spumosa la crema di zabaione. Insomma, sciocchezze di questo genere.
Aveva quindici anni meno di Paolo e un’imperfezione curiosa per la sua età, una particolarità che prendeva in lei i tratti di un vezzo intrigante: una fitta trama di vene azzurrognole traspariva dalla pelle chiara e delicata delle sue braccia, e arrivava fino alle mani formando intrecci simili ad anelli verdeazzurro o bracciali di giada.
I giorni, i mesi intanto passavano senza che Paolo prendesse una decisione. Andarsene avrebbe significato mollare ogni cosa: la casa, i mobili e soprattutto il suo lavoro nelle campagne dell’Emilia-Romagna, per il quale, anni prima, aveva lasciato Costermano con la famiglia. Non solo aveva partecipato alla bonifica delle paludi infestate di zanzare e afflitte dalla malaria, ma il governo lo aveva dispensato dal prestare il servizio militare e lo aveva incaricato di occuparsi esclusivamente della produttività agricola delle terre bonificate: perché la gente doveva mangiare. Dover lasciare tutto all’improvviso, quindi, era come aver lavorato per niente, senza considerare che due dei suoi tre fratelli si trovavano ancora al fronte e di loro non si sapeva quasi nulla.

***

Nina invece si era abituata a vedere il cielo costellato di aerei e, anzi, quasi non le dispiacevano affatto. Le formazioni di bombardieri inglesi e americani, le cosiddette fortezze volanti, le sembravano stormi di uccelli giganteschi dalle ali d’argento.
Di giorno, a Bologna, la vita era scandita dall’ululato improvviso delle sirene che avvisavano del pericolo di un bombardamento imminente. Quasi in modo automatico la gente correva verso quel mondo parallelo e sotterraneo fatto di cantine e nascondigli, in cui restava chiusa anche per ore, uscendone alla fine intossicata per la muffa e stordita per la paura. La cosa più strana dei rifugi, secondo Nina, era che quando ci si entrava, di punto in bianco cominciava una vita a sé, tutta diversa, di cui nessuno poteva dire la durata: mezze ore, ore intere o, quando le bombe bussavano alle porte di quelle città del sottosuolo, anche un’eternità. Insomma, nei rifugi il tempo si fermava.
Di notte invece, per evitare gli attacchi aerei, le autorità avevano imposto il coprifuoco sin dall’ora del tramonto, con l’obbligo di oscuramento dei centri abitati. Così non appena arrivava la sera Bologna si nascondeva nel buio. Le strade, deserte, sprofondavano nelle tenebre, e le case e i palazzi diventavano invisibili. Per evitare che la luce delle abitazioni filtrasse all’esterno, si tappezzavano i vetri delle finestre con strisce di carta azzurra, o, come aveva fatto Nina, con le pagine dei suoi Topolino di quando era bambina. Inoltre si era data da fare a coprire con una specie di cuffia bucata i fanali della sua bicicletta e i fari dell’auto del padre. Lo aveva aiutato a tingere con la vernice Ducolux, dal riflesso bianco azzurro, i parafanghi, il radiatore e i paramenti della Fiat 1500, in modo che l’auto, con quella vernice luminescente, potesse circolare anche dopo il tramonto, rendendosi visibile ai pedoni e agli altri automezzi, ma invisibile dall’alto. Di notte perciò la città si mimetizzava, assumendo sembianze spettrali per nascondersi alla morte che sarebbe potuta piombare dall’alto al minimo richiamo, come una lampada elettrica lasciata accesa per un errore. Così ogni sera dopo cena, mentre Paolo era tutto preso a studiare la cartina geografica per il viaggio a Costermano e Violante era occupata a riempire di canfora puzzolente qualche vecchio maglione diventato prezioso, Nina spiava dalle persiane del salotto la strada deserta con in giro gli uomini della milizia di sorveglianza.
“Adesso, con la guerra, di notte sembra di vivere sotto le ceneri di un vulcano sempre acceso” pensava tra sé. Quella di spiare dalle finestre la vita all’esterno era un’abitudine che aveva anche nella casa di Costermano. Spesso, di sera, quando scendeva il buio, le piaceva stare a guardare. I vetri della stanza da pranzo creavano un effetto magico, come vedere attraverso un sogno o una lente di ingrandimento speciale il bosco, il parco e l’intera campagna.

[…]

16 Ottobre 1943; giorno

Si misero in viaggio un mattino dall’aria di cristallo, con il vento che portava qualcosa del mare. Paolo aveva deciso di non prendere l’auto perché non aveva carburante a sufficienza per arrivare fin lassù.
Lasciò quindi nel garage la Fiat 1500 e preparò il carrozzino. Un carrozzino «tutto eleganza», come diceva Violante, che aveva sempre amato quel mezzo dalle ruote enormi, trainato da un cavallo nero.
Indossati i vestiti da viaggio e preso il carrozzino che tenevano da un contadino di fiducia, si misero in strada alle sette del mattino. Paolo era alle redini, Violante e Nina dietro, sotto il tettuccio di cuoio. Avevano con loro i bagagli con solo lo stretto necessario.
Man mano che lasciavano la città, Nina guardava sfilare davanti ai suoi occhi gli orti di guerra: parchi, giardini privati e aiuole trasformati dalla fame in coltivazioni di grano, orzo, sedani, girasoli. I Giardini Margherita, dove si incontrava di solito con gli amici, erano diventati dei campi di bietole, quelli di via Belle Arti erano coltivati a patate. Le tornò in mente il luglio dell’anno prima, quando in piazza Maggiore, ai piedi della basilica, era stato mietuto il grano. Sul lastricato della piazza erano stati distesi i cereali e degli uomini, battendo coi bastoni i chicchi, li avevano liberati dalla pula, portando così la magia dei campi dentro quella delle pietre. Ma anche poco fuori dalla città, ai lati dei binari della ferrovia, gli orti continuavano, c’erano zucchine carnose, carote, melanzane e altre verdure, tutte nutrite col ferro delle rotaie.
Su quel carrozzino Nina e i suoi attraversarono la Pianura Padana, costeggiarono il Po e l’Adige finché cominciarono a vedere il lago di Garda con il suo grande occhio azzurro. Dopo aver percorso un bel po’ di strada costiera e almeno un chilometro nell’interno, arrivarono a Costermano e alla villa.
Il viaggio fu a tratti penoso e complicato.
Lungo la strada Violante, come una statua sul punto di rompersi in pezzi, non era riuscita a smettere di pensare ai suoi tailleur firmati che aveva dovuto lasciare a Bologna, alle scarpe coi tacchi, alle scatole coi trucchi e alla collezione di acque profumate francesi, e a tanto altro ancora. Lassù a Costermano quelle cose lì non sarebbero servite granché e poi sul carrozzino non c’era posto per loro, le aveva detto Paolo prima di partire. E intanto, mentre pensava a queste cose, i boccoli biondi dell’acconciatura del Bigodino Magico non le davano tregua e continuavano ad arrivarle in faccia.
Nina invece, piuttosto eccitata si sentiva un po’ come un personaggio romanzesco, e nonostante gli scossoni del carrozzino che andava veloce, aveva aperto più volte la borsa di pelle morbida in cui aveva messo le cose a cui teneva di più: la scatolina col lucidalabbra, il suo diario personale scritto fitto, una penna dalla punta d’oro e una mezza tavoletta di cioccolato coi buchi.
Una volta si erano dovuti fermare per un po’ sotto un fico. Quella era stata anche la sosta più lunga di tutto il viaggio. Nina e Violante avevano fatto pipì, dopo ore che la tenevano e non ne potevano più. Alla fine, non avendo altro a portata di mano, si erano pulite con delle foglie. Dopo quell’operazione, Nina aveva preso un fico e, affondando i denti nella sua carne viola, aveva avuto la sensazione di mangiarsi qualcosa di mai mangiato prima, come un giardino in miniatura.
Dopo quella fermata, il viaggio era ripreso col carrozzino che andava piuttosto veloce lungo la strada, per arrivare a Costermano prima di buio.
Davanti ai loro occhi si erano avvicendati per tutto il percorso cascine abbandonate, fondi crivellati, gente che frugava nelle macerie, tra i pioppi e i gelsi delle corti, perché morte e bellezza in quel momento andavano insieme.
Strada facendo avevano visto i contadini bruciare gli sterpi. Il fumo azzurrognolo si levava sui campi, si mescolava all’aria umida dell’autunno, gravava per breve per ricadere poi immobile sulle zolle arate di fresco. Sulle coltivazioni non era stato insolito vedere un continuo movimento di corvi e, nelle case in abbandono, carcasse di animali in putrefazione con il loro puzzo dolciastro e nauseabondo. Ai tre in viaggio era sembrato tutto come un sogno strano. Una favola di quelle nere.
Il pericolo poteva essere ovunque e per Paolo, alle redini del carrozzino, era stato un continuo accertarsi che la strada fosse giusta e libera. Ma anche un continuo di incontri, di parole scambiate con soldati che avevano buttato via la divisa e si erano dati alla macchia o erano passati con la resistenza, sia con persone anche loro in viaggio o sul punto di partire. C’era chi si nascondeva, chi era atteso, chi non sapeva dove andare, chi scappava di qua, chi scappava di là. E in tutto quel caos, in tutto quel baccano, in tutta quella gran fretta generale non si capiva nemmeno da che parte venisse il rumore dei bombardamenti.
Guardando tutta quella gente che andava e veniva senza avere la benché minima idea di che cosa stesse accadendo veramente, una cosa Nina pensava di averla capita, e cioè che esistevano tre categorie di persone, i terrorizzati, i vigliacchi, e quelli che prendevano forza da quella presenza di morte in ogni cosa. La forza che prendevano era una specie di esaltazione, una strana ebbrezza che li portava a fare cose che altrimenti non avrebbero fatto in nessun altro momento della loro vita. Nina doveva ancora capire a quale di quelle tre categorie apparteneva.

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Musiche
Carlo Buti – “Amapola”
Marlene Dietrich – “Lili Marlene”
Dave Brubeck – “Lili Marlene”
Mauro Negri – “Amapola”
Daniele Serra – “Trotta trotta cavallino”
Antonella Ruggiero – “Amapola”

Brano corrente

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