Salta al contenuto principale
10 Dicembre 2020 | Racconti d'autore

L’uomo di carta

Testo tratto dal libro omonimo di Franco Ferrarotti (sottotitolo: “Archeologia di un padre”; Bologna, Marietti 1820, 2019)

Vittorio Ferorelli

Franco Ferrarotti, considerato il capostipite della sociologia italiana, è scrittore raffinato, oltre che uomo di scienza. L’editore Marietti 1820 ne ha da poco pubblicato l’intera opera: le ricerche sul campo, gli scritti teorici e quelli autobiografici. Tra questi ultimi vi proponiamo un brano dal libro in cui racconta la sua infanzia e il rapporto con chi lo ha messo al mondo. Ringraziamo per la lettura l’attore Fausto Stigliani.

Lo sguardo del padre

Alla mia nascita mio padre non mi dava più di un anno di vita. Quest’uomo piuttosto taciturno, che a occhio riusciva a stabilire con precisione il peso di un cavallo, si sbagliava, ovviamente, a proposito della mia tenuta vitale. Ed è bello constatare che anche i padri, qualche volta e forse più di una volta, si sbagliano. Poco più tardi, tuttavia, quando non ero neppure pubere, e mi sbirciava di sottecchi, vedendomi affondare e perdermi in mezzo ai quaderni, ai taccuini e ai libri aveva certamente ragione. Scuotendo il testone stempiato, farfugliava fra sé e sé, ma abbastanza distintamente perché lo potessi udire: «Poveretto, perso in mezzo alla polvere e agli scartafacci… Non sarai mai niente. Non diventerai niente. Sarai solo un uomo di carta».
Mio padre aveva ragione. Ora che la mia corsa è finita e che mi capita, più spesso del previsto, di avvertire sulla nuca l’alito freddo della morte – ma anche, certe notti, di captare il passo felpato e guardingo di questa attempata, imprevedibile signora – devo riconoscere, per quanto a malincuore, che mio padre aveva ragione. Toglietemi di torno le carte, i libri, gli opuscoli, i ritagli di giornale e non resta più nulla.
Alla nascita, dunque, mio padre mi dava per spacciato entro il primo anno di vita. Quest’uomo che freddava un fagiano in volo a trecento metri con la sua infallibile, fedele carabina da un colpo solo, non amava i libri, detestava la cultura libresca, quella che produce, per una strana partenogenesi, libri mercé libri. Mio padre non poteva saperlo. Ma il suo atteggiamento era lo stesso atteggiamento di Socrate. Trovava inaccettabile che la pagina scritta, se interrogata, tacesse maestosamente.
Una cosa importante mio padre l’aveva capita quando mi domandava, beffardo: «E oggi, che cosa ti hanno detto i tuoi libri? Niente. Non ti insegnano niente perché non hanno niente da dire. Non parlano. Poveretto, in mezzo ai tuoi libri e alle tue carte».
Aveva ragione. Non credo che mi deciderò mai a imitare l’Autodafé di Elias Canetti. Non farò l’autocremazione. Non mi immolerò in cima alla pira dei miei libri in fiamme, al modo di un inedito Giordano Bruno. Ma è molto probabile che morirò in loro compagnia. Saranno la mia estrema unzione.
Mi domando come sia fatto un uomo che non abbia conosciuto l’infanzia. È vero che l’infanzia, in realtà, non la si conosce. La si sente. È un odore. Un rumore lontano di carri agricoli che procedono, in fila, cigolanti, come un modesto, anomalo corteo funebre. L’infanzia è l’odore della minestra che ti chiama a tavola la sera, e bisogna far presto prima che si raffreddi.

[…]

Era un padre assente o presente? Non saprei dire. Era un padre “lontano”. Non si apriva; certamente, non si concedeva. Io, mingherlino e di salute cagionevole, sapevo di non piacergli, preso com’ero fra due fratelli grandi e grossi, rubicondi.
Ricordo certe sue valutazioni. Sono di quelle che ricorderò fin che campo e che oggi, ma non ai miei tempi, assicurano il pieno impiego agli psicanalisti. Per esempio, una frase piuttosto crudele, nella mia tarda infanzia: «Sei fortunato, mio caro. Se fossi nato gatto, saresti finito presto in un tombino».
Ma in casa e fuori mio padre era per lo più taciturno. Parlava poco, sottovoce, e comunque solo a tratti. Non ricordo che mi abbia mai parlato a lungo. Parlava volentieri soltanto ai suoi cavalli, ai quali sussurrava parole incomprensibili, ma che si indovinavano dolci, a bassa voce, mentre li governava passandogli la spazzola di ferro sulla schiena ondulata, fremente di piacere. Quando erano bardati e sotto le stanghe, mi vengono in mente i suoi comandi, monosillabici ma aggraziati: «», per cominciare la marcia; «Löh», per fermarsi. Ricordo con gratitudine, era forse la sola dimostrazione d’affetto che mi riservava, quando mi faceva cavalcare il «mascarìn» (chiamato così perché pezzato), a pelo, senza sella, al contatto diretto con la schiena del cavallo, ed io ne avvertivo i movimenti interni, ne assorbivo il sudore, coglievo le vibrazioni e mi adattavo al suo ritmo. Momenti belli, indimenticabili.

Di mio padre mi affascinava il silenzio, la tenacia, la decisione nell’azione. Ma in lui non c’era nulla di amichevole. Questo conferiva al nostro rapporto una solidità data per scontata, un fatto naturale, non da inventarsi e dichiararsi tutte le mattine. Una sola volta, verso i dieci anni, in occasione di una mia divergenza d’opinione con un maestro, ebbe a dirmi: «Bravo. Franco di nome e franco di parola». Poi, per molto tempo, tornò il silenzio. L’idea odierna di “incomunicabilità” non era per noi un problema. Si comunicava semplicemente sedendo alla stessa tavola, guardando gli stessi paesaggi, i campi ondeggianti come oceani nella tarda primavera, lo stormire dei pioppi, in tutto simili a una selva di canne d’organo.
I nostri contrasti scavavano più a fondo, intaccavano la psiche. Quando m’avvicinavo alla pubertà, m’infastidiva il suo ovvio disprezzo o forse solo la scarsa considerazione per i libri, che erano invece i miei amici più cari, i compagni fedeli dei lunghi meriggi assolati e solitari. Escluso com’ero dalle fatiche in campagna a causa della salute cagionevole, avevo trovato nella lettura il mio «buen retiro», un rifugio sicuro, inaccessibile ai più e beato.
Diceva, sottovoce: «Più si studiano i libri più il mondo va male». Le cose si conoscono facendole, toccandole. Si impara sporcandosi le mani. Scopriva così, per conto suo, l’assioma di Giambattista Vico: «Verum ipsum factum». Temeva che mi trasformassi in un uomo di carta. Questo, l’ho compreso molto tempo dopo. Lì per lì, il suo atteggiamento mi sembrava ingiusto e crudele. Del resto, la sua ombra, ancorché silenziosa, era incombente. Gravava su tutta la casa che poi, strano a dirsi, apriva a tutti: agli ex-detenuti, ai forestieri di passaggio, agli zingari, che in robellese si chiamano «pulòt». Devo aver ereditato da mio padre una certa debolezza per i criminali. Il portale dell’immenso cortile, con capannoni e aie per essiccare grano, granturco e riso, era sempre aperto ad accogliere, sotto le “travate”, carovane di vagabondi, mendicanti, disoccupati, braccianti in cerca di qualche ora di lavoro, “pradaioli” (quelli che davano l’acqua alle risaie), “ranatieri” o cacciatori di rane.

Io mi isolavo, a leggere e a scrivere, tenendo un canale aperto soltanto con mia madre, sempre, anche dopo, quando giravo il mondo: un canale segreto e discreto per i contatti con la famiglia d’origine. Sapevo che sarebbe stata sempre dalla mia parte. E questo è accaduto anche durante la guerra e la Resistenza, quando mio padre pensava che sarei finito in prigione, se non peggio. Era presente come un assente. Il suo silenzio era assordante. Eravamo troppo dissimili per intenderci. Il primo passo spettava a lui: io ero un bambino, e magrissimo, e smilzo, un autentico ranocchio. Alzandomi a braccia contro una lampadina accesa, se ne vedeva la luce attraverso. Dicevano che non riuscivo a starmene seduto per più di un quarto d’ora. Anzi: non ero mai seduto nel senso pieno del termine, ma a malapena appoggiato, sfioravo soltanto il bordo esterno delle sedie come un uccellino sempre pronto a spiccare il volo.
Per fortuna, mia madre capiva. Forse il suo era l’istinto protettivo verso il figlio più debole. Ero nato in un momento tragico per mio padre. Una duplice tragedia: per sfidare mio nonno, aveva lasciato i campi di Robella per darsi a grandi imprese in quel di Palazzolo. Voleva dimostrare a tutti di essere in grado non solo di conservare i beni di famiglia, ma anche di ampliarli al di là di ogni possibile immaginazione. Gli andò male. Rateizzò il debito che aveva contratto per ingrandirsi e lo pagò fino all’ultima lira. Un autentico piemontese. Ma io, venuto al mondo nella ricchezza, fin dal primo mese di vita, dovevo piombare nel grigiore della povertà dignitosa: la peggiore fra tutte le povertà.

L’incongruenza di status

È una situazione ambigua, in cui ci si comporta con la nonchalance dei ricchi ma non si hanno più le ricchezze, si sono dissolti i beni economici su cui contare. Si rende necessaria la frantumazione dell’antica famiglia allargata, per un controllo più oculato della spesa quotidiana. Mio padre vendette gran parte delle sue proprietà. E fu un prevedibile disastro. Vendeva quando doveva comprare; comprava, e si ampliava, quando doveva liquidare e vendere. Mia madre capiva tutto. Faceva calcoli, anche complicatissimi (divisioni con nove cifre) a memoria. Lo scontro con mio padre era giornaliero e inevitabile, mai alzando la voce, soffocato, quasi silenzioso: loro due soli, davanti al grande camino della vecchia cucina, dove si poteva rosolare allo spiedo un intero maiale, comunicavano per ore senza dirsi una parola.
I motivi di contrasto tra il padre e la madre erano anche, ma non soprattutto, di ordine economico. Non in senso stretto, ragionieristico, nel senso che mio padre non si era mai “industrializzato”. Aveva un’idea molto precisa dei valori qualitativi, ma non gli riusciva agevole trasformarli in quantità, monetizzarli. Comprava cavalli di cui si era, lì per lì, innamorato, che poco dopo rivelavano carenze e difetti gravi. Mia madre invece aveva un senso innato per gli affari. Nessun sentimentalismo. Le cose o servivano o erano inutili, e quindi da buttare.

Io ero dalla parte di mia madre, di cui amavo la secchezza del ragionamento, la scarsa emotività, il sovrano controllo razionale. Ma non avevo gli elementi per comprendere le frustrazioni di mio padre, le sue sconfitte, la tristezza amara che lo prendeva e gli pesava addosso come un cappotto umido quando doveva constatare che il suo mondo era al tramonto. Adesso che è morto da più di mezzo secolo, comincio a capirlo. Quest’uomo che sapeva i nomi di tutti gli alberi, dal pioppo agli olmi, ai faggi, alle acacie, ai lecci e alle querce, che sentiva crescere l’erba nei prati, il brusio delle foglie e delle gemme che buttano a primavera, il gioco delle nuvole che promette sereno o pioggia, sentiva di essere ormai alla fine, “superato”, obsoleto. Estraneo alla società.
La sentiva lontana dalla vita, dai ritmi della natura, troppo facile, troppo rapida, incapace di comprendere la lentezza creativa del processo vitale. E poi, al fondo del suo umore spesso torvo, c’era la sconfitta con suo padre. Aveva voluto fare meglio, mostrare, poco più che ventenne, che poteva battere tutti, la famiglia allargata, socialmente ed economicamente. La congiuntura gli era stata nemica. Mi spiego così il suo essere fumatore a catena. Il suo darsi a questa specie di suicidio differito.
Non seguiva i miei studi, naturalmente, e si capisce. Nessuno a casa mia sapeva che mi ero laureato e, anni dopo, neppure che mi ero sposato negli Stati Uniti. C’è in tutto questo, forse, un eccesso di piemontesismo, una inconsueta capacità di autonomia, una feroce difesa del privato personale anche verso la famiglia d’origine. Forse non si è a sufficienza riflettuto sul fatto che solo in un recinto segreto, cui sia proibito a tutti l’accesso, può crescere l’autonomia sovrana dell’individuo.
Seppi che mio padre se ne stava andando mentre ero in giro per il mondo. È morto per un generale collasso cardiaco e funzionale: pare che avesse i polmoni incatramati, per così dire, non più in grado di ossigenare il sangue. Io avevo da poco superato i trent’anni. Mi dispiace che non ci sia stato il tempo per mettere in chiaro la nostra differenza: tra me, uomo del libro, e lui, uomo della Natura al quale la sera, quando tornava a casa, i cavalli e tutte le altre bestie andavano incontro, quasi a salutarlo con nitriti e strepiti; e lui li accarezzava, tranquillo, borbottando incomprensibili saluti.

—————————————–

Musiche
Maxine Sullivan – “Blue Skies”
Ferruccio Tagliavini – “Voglio vivere così”
Luciano Pavarotti – “Che gelida manina” (da “La bohème” di Giacomo Puccini, con i Berliner Philharmoniker diretti da Herbert von Karajan)
Johnny Cash – “Hurt”

Brano corrente

Brano corrente

Playlist

Programmi