Salta al contenuto principale
4 Febbraio 2021 | Racconti d'autore

Microsolchi

Racconti di Renzo Romagnoli tratti dalla raccolta omonima (Rimini, Raffaelli Editore, 2020)

Vittorio Ferorelli e Rita Giannini

Se ogni storia ha la sua musica, ci sono racconti che chiamano a sè una canzone e la fanno respirare tra le righe. Come quelli scritti da Renzo Romagnoli, che alla passione per la fotografia univa quella per le parole e i piccoli intrecci dell’esistenza. Ascoltiamone alcuni dalla voce dell’attore Faustino Stigliani.

Take a Train

– Sì, caro signore, è proprio così: tutto nella vita è ritmo, pulsare, battere e levare, andare e venire. Nella natura lo stesso: giorno e notte, vita e morte, espandere e contrarre. E mi par di capire – sa, non è materia mia – che oggi dicano lo stesso anche dell’universo, o del maturare dell’animo e dell’intelligenza dell’uomo.
Il signore che parlava, un po’ concitato, era salito a Terontola.
Un uomo già anziano, sessantacinque, forse settant’anni, ma avrebbero potuto essere molti di più o molti di meno. Aveva un corpo magro e slanciato, folti capelli bianchi tagliati a spazzola e un viso scavato, con rughe d’espressione e di vecchiaia. Gli occhi erano grigi, infossati nelle occhiaie e resi più espressivi dalle folte sopracciglia bianche che sovrastavano maestose come le nevi perenni di un ghiacciaio. Li separava un piccolo naso, d’aspetto indefinito, non fosse stato per le dimensioni e la collocazione: un masso erratico rimasto abbandonato dal migrare in alto delle sopracciglia. La bocca era incredibilmente giovanile: labbra carnose e denti ancora apparentemente perfetti. Nell’insieme, il signore aveva un’aria un tantino segaligna: forse un temperamento nervoso, un qualcosa tra la bile nera e la gialla, con giusto una misura di sangue.
Con gli umori e la fisionomica però non mi ci raccapezzo molto.
Vestiva con un’eleganza molto demodée, un doppio petto grigio di principe di Galles con un papillon blu a pois bianchi. La camicia candida e tesa come lo sparato di un frac.
Parlava rapidamente, scandendo in modo ritmico le parole e le frasi, con po’ di concitazione, per l’appunto.
– L’eterno non è silenzioso e immobile, no, no, io me l’immagino come crepitare di botti, sibili e fischi, con il ritmo a sostenere i canti delle gerarchie celesti, dei santi e delle anime beate: rullante, charleston e grancassa, kazoo e scacciapensieri, putipù e caccavelle.
Neanche io so bene quale pretesto, o quale argomento, avesse scatenato quella dissertazione. Può darsi che la copia delle Enneadi che avevo posato sulla mensola estraibile dello scompartimento c’entrasse qualcosa. Fatto sta, che, dopo i primi convenevoli tipici dell’educata, e teneramente banale, conversazione ferroviaria, il signore elegante aveva preso l’aire. Mi lasciava interloquire giusto quel tanto che la forma richiedeva, come se badasse a mantenere il filo di un discorso che gli premeva. Altri si sarebbero forse seccati: non a tutti piacciono gli incontri in treno. Io, invece, ho sempre amato questo mezzo di trasporto e gli incerti che lo accompagnano. Mi piace leggere e pensare cullato dal rumore delle carrozze, e mi piacciono gli incontri che vi si fanno. Sia l’una che l’altra cosa accadono nello spazio limitato, confidenziale e quasi intimo dello scompartimento. Intanto fuori scorre il paesaggio. Si resta nel tempo e nello spazio, nel secolo, in un certo senso, ma è come se vi si fosse sottratti, in un luogo speciale e protetto che consente di contemplare persone, concetti e cose con un distacco sereno. La parola giusta sarebbe epoché: ma le parole giuste qualche volta sono troppo difficili. Amo di più i treni lenti, di seconda o terza categoria, che fanno molte fermate, e la seconda classe: perché il viaggio dura più a lungo e gli incontri che si fanno sono spesso curiosi.
– E, caro signore, anche se mi sbagliassi, anche se non fosse così, sarebbe solo che Dio riserva a se stesso l’udire il ritmo e lo scoppiettio. Sa, come al cinema, se si proietta la pellicola di un soggetto immobile: non per questo i fotogrammi non scorrono, ventiquattro al secondo. È solo che l’occhio non li percepisce. Anzi no, neppure: l’occhio li percepisce, è il cervello che non ce la fa, che non regge a tutto quello scorrere, a tutto quel movimento e allora se lo rappresenta come un continuo. Forse è il soffio, il Paracleto dentro ciascuno di noi. Forse è lo Spirito Santo che agisce in noi e ci fa grazia di ciò che ci è maggiore.
Mentre l’uomo parlava, i cigolii dello scompartimento di seconda classe, i tonfi e i contraccolpi delle traversine, dei giunti delle rotaie e degli scambi che scivolavano sotto le ruote del diretto, offrivano conferme involontarie alle sue parole che si erano fatte difficili. La morbidezza del pettinato principe di Galles che indossava risaltava, declinandosi in un panneggio plastico sotto gli oltraggi degli scossoni del treno e dei movimenti, fini e controllati ma un poco contratti, con cui sottolineava il discorso. Notai le scarpe: erano duilio di fattura inglese, bicolori, bianche e nere. Avessero avuto le placche d’acciaio sarebbero state perfette per il tip tap.
Il signore anziano aveva cominciato a parlare subito dopo la fermata di Chiusi, e ormai si erano succedute le stazioni di Fabro Ficulle, di Orvieto, di Attigliano Bomarzo e di Orte, ciascuna con la sua sosta breve. Il paesaggio che scorreva fuori del finestrino, ritmato dai pali della linea aerea, era quello della campagna laziale che il treno avrebbe attraversato senza più soste fino a Roma Tiburtino, per poi finire la corsa a Roma Termini. Mi ero un poco distratto, quando l’uomo, variando il tono della voce, che si fece più confidenziale, mi chiese ad un tratto:
– Lei balla? Sì, voglio dire – non mi fraintenda – le piace ballare?
Risposi stupito e un poco incerto che mi sarebbe piaciuto, soprattutto da ragazzo, ma che non ero mai riuscito a imparare: colpa della mia mole, della mia scarsa costanza e dei primi disastrosi tentativi.
– Non si deve stupire, caro amico, della domanda. Ma è che penso sia così che si deve affrontare la vita: sì, ballando. O meglio: danzando. Danzando sul battere e sul levare, sulla notte e il giorno, sul dolore e sul piacere, sul ritmo della vita e della morte, sul ritmo del mondo. Con leggerezza, con grazia: sa quei film americani con Fred Astaire: ecco, più o meno a quel modo. Oppure come i suonatori di jazz, che eseguono tutti gli accordi, e ancora di più, ma scivolando sul tempo.
Con un’intonazione abbastanza sicura canterellò: – Heaven, I’m in heaven.
– Sì, certo il mondo è illusione, risposi io. Peccato che l’io, il desiderio e la morte ci assedino inesorabilmente.
– Tutti accidenti, tutte battute prese singolarmente. Lei vede e sente solamente una parte del tutto: non sente il ritmo, ma una serie di rumori isolati.
Poi tacque, con la stessa garbata ostentazione che aveva messo nella conversazione – sarebbe meglio dire monologo – di poco prima.
E non potei fare a meno di notare come quel silenzio nascondesse un sopraggiunto disprezzo.
Quando arrivammo alla stazione di Roma Termini, il signore anziano, mi salutò con cortesia, uscì dallo scompartimento e si avviò all’uscita.
Sul marciapiedi che costeggia i binari, lo guardavo mentre camminava precedendomi di qualche metro: aveva un’andatura insieme vigorosa e felpata, agile.
D’un tratto, si guardò attorno circospetto, e, quando fu ragionevolmente sicuro di non essere osservato, accennò, leggero, alcuni passi di ballo. Subito dopo lo persi di vista tra la folla della stazione.
– Ma guarda cosa mi doveva capitare, che tipo strano –, pensavo, mentre il tassì mi portava vero casa.
Le gambe però non ne volevano più sapere di star ferme, mentre non riuscivo a smettere di canticchiare Heaven, I’m in heaven.

————————————————-

Se telefonando

La mamma oggi mi ha portato fuori. Era una bella giornata di primavera e lei doveva uscire, doveva andare in certi uffici dove va sempre da quando è morto papà. Così, mi ha portato con lei e io non sono andato a scuola.
Gli uffici sono dall’altra parte della città e per andarci bisogna attraversarla tutta. Bisogna prendere molti autobus e anche la metropolitana. Mi piace prendere la metropolitana, anche se quella della mia città non è tanto grande, ma è lontana dalla mia casa e la mamma non mi ci porta mai. Ci sono tante persone e poi bisogna scendere sotto terra dove ci sono le case degli antichi romani. Ce ne sono così tante, anche se non si vedono, che quando cercano di costruire una metropolitana più grande devono fermarsi sempre per non distruggerle: sono importanti le case degli antichi romani anche se ora sono brutte e rovinate. Guardandole si possono capire tante cose. Vicino a Napoli c’è addirittura una città intera di antichi romani. È proprio come allora: non è rovinata, perché un vulcano ha sepolto tutto, tanto tempo fa, e allora le case e le strade si sono conservate. La terra le ha conservate.
Ma, più di tutto, in metropolitana mi piace quando dal buio delle gallerie si passa alla luce del sole. Non come in treno: più in fretta, le gallerie sono più corte e ce ne sono anche di più. Allora, mi sembra di essere come la mia biglia di plastica con Merckx, quando, sulla pista di sabbia, passa nei tunnel e sui ponti. Ma più veloce. Sì, in metropolitana si va più veloci, come in automobile. Più veloci anche del vero Merckx: bisogna capirlo, lui va anche in salita.
Da un po’ di tempo, tutte le donne hanno vestiti a scacchi o a puntini, come si vede in televisione, e anche gli stivali. Oggi in metropolitana ce n’era una che aveva una gonna cortissima e le gambe tutte nude come al mare: una minigonna, ha detto la mamma. Anche quella però era a scacchi bianchi e neri.
Quando si arriva al quartiere degli uffici, per uscire di nuovo alla luce, dalla stazione della metropolitana, ci sono le scale mobili, come quelle dei grandi magazzini. Anche quelle mi piacciono: ci si potrebbe fare lo scivolo. Ma non si può: è pericoloso.
Il quartiere degli uffici è tutto bianco: ci sono tanti palazzi tutti bianchi. Li ha fatti fare Mussolini. Ha fatto fare anche un colosseo tutto bianco e nuovo, solo che questo è quadrato. La mamma ha detto che sembra una fetta di groviera, con tutti quei buchi.
C’era anche un palazzo strano che sembrava un’astronave e dei grattacieli. Mi è piaciuta molto, l’astronave. La mamma ha detto che l’ha fatta un grande architetto, moderno, non antico, e che gli architetti sono quelli che disegnano le case. Le disegnano prima, e poi i muratori le fanno con i mattoni: come si fa con i modellini da costruire. Ha detto anche che il grande architetto si chiama Pierluigi Nervi.
Anche quello che ha fatto la Stazione Termini è un grande architetto, chissà come si chiama. La stazione mi piace, perché si parte e si arriva, perché è così moderna, come le gonne a scacchi e corte delle donne e i vestiti di metallo di Mina, in televisione.
Il sole, tra tutti quei palazzi bianchi e moderni, accecava, tanto era forte, e bisognava stringere gli occhi. E poi faceva caldo e avevamo sudato con il cappotto e i vestiti da inverno.
In uno dei palazzi tutti bianchi di Mussolini c’era un bar. Siamo entrati per trovare un po’ d’ombra.
Quando vado fuori con la mamma mi piace andare nei bar e prendere qualcosa: mi piace prendere la coca-cola, ma lei non me la lascia quasi mai prendere perché dice che fa male. Oggi l’ho presa e mentre la bevevo ho messo anche una canzone nel juke-box: una canzone di Mina, Se telefonando c’era scritto.
E mentre ero nel bar e l’ascoltavo, è entrata una donna con la gonna a scacchi e gli occhiali da sole. Ha chiesto un gettone e ha telefonato.

————————————————-

Musiche
The Delta Rhythm Boys – “Take the ‘A’ Train”
Oscar Peterson – “Cheek to Cheek”
Ella Fitzgerald, Paul Weston & His Orchestra – “Cheek to Cheek”
Mina – “Se telefonando”

Brano corrente

Brano corrente

Playlist

Programmi