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24 Febbraio 2011 | Racconti d'autore

Mio padre Giovannino Guareschi (dal Po all’Australia inseguendo un sogno)

di Giuliano Montagna, Edizioni Diabasis, 2004

A cura di Claudio Bacilieri. Lettura di Fulvio Redeghieri.

24 febbraio 2011

Si è spento a Sydney l’8 gennaio scorso a 77 anni Giuliano Montagna, il figlio non riconosciuto di Giovannino Guareschi, al quale solo in tarda età il Tribunale di Parma ha concesso il diritto di chiamarsi con il nome del famoso genitore. In questo libro Giuliano Montagna Guareschi racconta la sua storia, dall’infanzia a Parma con la madre Luisa e i nonni, all’impiego in Barilla, fino alla direzione del quotidiano di Sydney in lingua italiana, “La fiamma”. Il racconto ripercorre il cammino di un uomo alla ricerca della propria identità per riappacificarsi con se stesso e con il padre. Un uomo lacerato, fra due patrie geografiche, l’Emilia-Romagna e l’ Australia, e due patrie dell’anima, se stesso e il padre.

Il viaggio

Il mio viaggio oltreoceano inizia nel dicembre del 1961, quando arriva il visto dall’ambasciata australiana, preceduto da tante lettere di Efrem, che prova a raccontarmi il mondo che troverò. E lo fa così dettagliatamente, che quasi immagino di avere in mente un film dei luoghi che mi aspettano.
Nell’entrata di casa il baule è aperto. Cose da aggiungere quotidianamente. Preparativi “bagnati” dalle lacrime di mia madre. I giorni di dicembre, che anticipavano le feste, precedevano anche le nostre angosce più grandi. Fingevo di non accorgermene.

Minardi mi avvisava di una visita prossima di mio padre. Una sera arriva a casa mia. Mi dà dei soldi per il viaggio, ma anche in quest’occasione mi ripete: «Fai un errore. Non so più come farti cambiare idea».
Quest’ultimo incontro è stato il più importante della mia vita. Me ne sono reso conto solo con il passare del tempo. Il silenzio di mia madre, le parole che non esprimono le nostre vere emozioni… Segretamente speravo di essere trattenuto. Dopo ne fui certo. Lo sguardo commosso dell’ultimo istante nasconde  e svela tutto ciò che non riuscimmo a dirci.

Solo mio padre avrebbe potuto trattenermi. 
Gli chiedo, per la prima volta, se l’avermi portato i soldi per il viaggio non volesse significare per lui che, invece di un figlio, stava partendo una presenza scomoda. Non mi risponde. Neppure una battuta. Sono certo che al suo posto avrei fatto altrettanto.
Siamo capaci di esprimere i sentimenti solo sulla carta.

Lui, ha addirittura assegnato per pudore nomi di fantasia alla moglie e ai figli, trasformati in personaggi delle sue cronache di famiglia.
Per non dovergli dire addio, chiedo a Giancarla di incontrarlo per me di tanto in tanto e di mandarmi sue notizie per lettera. È l’unico modo per non dover dire addio anche alle speranze celate nel fondo del mio cuore dal giorno in cui sono nato e che avrebbero accompagnato ogni mio giorno in Australia.

Sono partito da Genova ai primi di gennaio, quasi come un ladro. Avevo ancora davanti agli occhi la disperazione di mia madre, e viva l’angoscia di quando avevo chiuso alle spalle la porta di casa. Nella desolata sala d’aspetto della stazione di Parma, mi chiedevo se stavo facendo la cosa giusta, se mia madre meritava questo ultimo dispiacere di una vita infelice. I ripensamenti erano inutili.

Due zii mi accompagnarono a Genova, cercando senza molto successo di tenermi su il morale.
Dalla banchina, la nave sembra un grattacielo. Interpreto subito la scritta «Sydney» sulla prora come un buon auspicio. E ne avevo bisogno per quella lunga traversata. Sono sempre stato un animale di terra e gli unici natanti conosciuti erano le barchette nel laghetto del giardino pubblico di Parma.
Lascio gli zii e tutto il resto dietro di me.

I volti e i ricordi si confondono sulla banchina, diventano sempre più piccoli. Solo le stelle filanti lanciate illudono di un’ultima connessione della nave alla terraferma.
Una tragedia, lasciare a terra vent’anni della propria vita, ma stavo inseguendo ciò che non avevo trovato a casa mia. E una ragione di luce sulla mia affannosa linea d’ombra.
Anche se migrare non è facile, in giro per il mondo ho incontrato migliaia di persone in cerca di se stessi. In fondo si emigra per tre ragioni: per fame, per sogni o per dimenticare. Non so se stavo rincorrendo un desiderio o fuggendolo. 

Partita la nave, incomincio a sentirmi meglio, come se il passato fosse rimasto a terra. Ciò mi conforta, e mi inquieta.
A bordo, centinaia di emigranti che vanno per la prima volta o che tornano in Australia.
I miei compagni di cabina guardano anch’essi al nuovo continente come degli assetati ad un’oasi.
L’avventura del nostro viaggio inizia cercando ognuno nello sguardo dell’altro la conferma che il passo è giusto.

Chi ritorna fa il “maestro”, spiega i “misteri” dell’Australia a chi inizia l’avventura. Mi rendo conto benissimo che raccontano balle, a cui bisogna credere per sperare in una vita diversa. Un mio compagno di cabina (di quattro), mi mostra il suo “passaporto” per la ricchezza: un valigione pieno di interruttori per la luce. In Australia non ci sono, mi dice: non hanno ancora inventato quelli a muro, esistono solo quelli al soffitto con la corda.
Mi sento un privilegiato. Ho in tasca il contratto, so dove vado e quanto guadagnerò. Inoltre Efrem mi ha trovato un posto nella sua pensione. Parlano italiano, è gestita da una famiglia veneta.

Il viaggio dura trentadue giorni. A bordo, il governo australiano organizza per gli emigranti lezioni gratuite di inglese. Aggiunge qualche parola alle poche che già so.
L’incontro con gli australiani avviene a Fremantle, il primo scalo dopo due settimane nell’Oceano Indiano. Salgono a bordo i funzionari dell’Immigrazione per il controllo di passaporti e visti. Prima di ridarceli, li passano a un altro tavolo dove siedono funzionari di banca, che trascrivono il nostro nome su libretti con la copertina di tela simili ai passaporti. Libretti di deposito di una grande banca. Il conto non è vuoto: c’è una sterlina. Gli interpreti ci dicono: «La sterlina è un seme: spetta a voi farlo crescere».
Questa è l’Australia, penso. Comincia a piacermi.

Scendo dalla nave per il primo contatto con Terra Australis. È il 3 febbraio, piena estate. La città-porto di Fremantle sembra una fornace disabitata per il caldo e per l’aria di festa. È sabato, e scopro per la prima volta cosa vuol dire week-end. Eccezionalmente è aperto l’ufficio postale, per consentire agli arrivati di acquistare i francobolli e spedire le lettere scritte durante le settimane trascorse sulla nave. Anch’io scrivo a mia madre e a Minardi, con preghiera di trasmetterle a mio padre. Non me la sento di scrivergli a Roncole. Sarebbe come se violassi il pudore di mio padre.

Da Fremantle arrivo a Melbourne dopo giorni di navigazione. In treno con la mia valigia (le mie cose sono tutte nel baule) torno indietro fino ad Adelaide, distante 800 chilometri, un viaggio che dura dalle otto di sera alle nove del mattino.

I treni australiani mi piacciono subito. Sono moderni, comodi per le grandi distanze. Inevitabilmente ripenso ai carri bestiame dei primi viaggi a Milano, di qualche anno prima.Dormo a lungo, poi spio il buio dal finestrino, cercando di vedere qualcosa dell’esterno. Non vorrei perdermi nulla del mio nuovo continente.
Alle prime luci dell’alba mi affaccio sul nulla: deserto e ancora deserto, solo qualche albero secco spezza l’azzurro deciso del cielo.

Carcasse di pecore sono cibo per avvoltoi. Questa scena si ripete davanti ai miei occhi, e sento l’angoscia del mondo sconosciuto, perché impossibile da immaginare, abituato come sono al paesaggio di casa. La mia piccola Parma, l’oltretorrente, i borghi, i diversi deserti di nebbia distesi fra l’autunno e l’inverno. Dove sono le spiagge decantate da Efrem? E dove le città tentacolari? Il primo contatto con la realtà è disarmante. Solo sette città, sulla costa, in un continente che può contenere ventidue volte l’Italia. Mi consolo pensando: “Adelaide sarà diversa, Adelaide è diversa. Adelaide mi aspetta”.

Brano corrente

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