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23 Marzo 2006 | Racconti d'autore

N°3-RACCONTI D’AUTORE

Dal volume “Dal grande fiume al mare” il racconto di Carlo Lucarelli “Chi scappa sta dietro”

  

Alle ore 13.49 minuti e 36 secondi la prima auto dei carabinieri inchiodò davanti alla banca
con uno stridio acuto di gomme che
lasciò nell’aria un forte odore di bruciato.
Mentre la sirena urlava ancora, l’appuntato Baraghini e il brigadiere Miraglia schizzarono
fuori dalle portiere aperte e si lanciarono sui gradini dello spiazzo d’ingresso, appena una
frazione di secondo prima che gli ausiliari
Fanelli e De Nicola saltassero fuori dalla seconda auto,
ancora in
movimento, e si buttassero dietro al cofano con le pistole puntate, strette a due mani,
pollice su pollice.

Cinque minuti e ventisei secondi, pensò il maresciallo Mozzi lan­ciando un’occhiata all’orologio mentre volava sulle scale dietro agli altri. Cinque minuti e ventisei secondi, giusto il tempo che squillasse l’allarme alla caserma di Imola e che l’appuntato di servizio alla cen­trale operativa allertasse le pattuglie nel cortile e che le auto arrivas­sero a quella piccola agenzia sulla statale Selice.

    
Cinque
minuti e ventisei secondi, disse il maresciallo.
Ci abbiamo messo troppo… i bastardi sono già scappati!

Contemporaneamente, Anteo Nerozzi, detto Luméga, un po’ perché appassionato mangiatore di lumache in umido a tutte le sagre della Romagna, ma soprattutto perché lentissimo in ogni cosa, stava ancora sfilandosi il passamontagna dalla testa, la borsa con i soldi sotto il braccio, la pistola finta in tasca e l’unico impiegato rimasto nella banca all’ora della rapina legato e imbavagliato sulla sedia dietro alla porta aperta del caveau. La scelta di farlo a quell’o­ra, il colpo, quando la banca aveva chiuso per la pausa pranzo e den­tro c’era solo il ragionier Bertozzi che era rimasto indietro con la verifica del borsino, non faceva parte di una raffinata strategia cri­minale, di cui Luméga, forse, non sarebbe stato capace, ma deriva­va soltanto dal fatto che quella mattina si era svegliato lardi, e tra vestirsi, fare colazione, leggere il giornale al bar di Gigi, preparare tutta la roba e mettersi per strada, non c’era proprio riuscito ad arrivare prima.

Alle ore 13.50 minuti e 12 secondi, fermo sulla soglia del caveau con la pistola puntata e pronta ad aprire il fuoco, il brigadiere Miraglia gettò uno sguardo rapidissimo dentro la stanza della cassaforte, registrò l’immagine desolante della camera vuota e gridò non ci sono più! al maresciallo Mozzi, che girò sui lacchi e scattò verso l’uscita.

Un pensiero aveva attraversato la mente del maresciallo, più velo­ce di un fulmine: da qui al casello c’è una sola strada!

Così urlò vai, che forse li prendiamo! e si tuffò nella prima mac­china, che stava già rombando via.

Contemporaneamente Anteo Nerozzi, detto Luméga. si era affac­ciato da dietro alla porta blindata del caveau, perché aveva sentito un rumore, qualcuno sulla soglia gli era sembrato, aveva sentito come un urlo, ma adesso che ci guardava non c’era nessuno. Certo, anche se ci fosse stato, con quella porta grande come il portello di un transatlan­tico, di sicuro non l’avrebbe visto e di sicuro quello non avrebbe visto lui, così uscì dalla stanza, con calma, e poi dalla banca, con molta calma, e cominciò ad arrotolarsi sulla caviglia la gamba dei calzoni, cercando di ricordarsi dove aveva messo la molletta per tenere la stof­fa lontana dalla catena della bicicletta appoggiata al muro della banca, la ruota davanti legata all’inferriata di un cancello, con la catena, per­ché con tanti ladri che ci sono in giro non si sa mai, e se gli fregava­no la bicicletta, a lui che non aveva neanche la patente, e figuriamoci la macchina, dove andava?

Alle ore 13.52 minuti e 26 secondi il maresciallo Mozzi volò quasi fuori dal finestrino mentre si affacciava dall’auto a metà frenata.

Non ci sono? Come non ci sono? urlò agli agenti che gli corsero incontro da dietro alle auto blu della polizia che gli sbarravano la stra­da. Appena il tempo di chiamare la centrale via radio e anche la que­stura si era già attivata. Avevano troncato la Selice a metà con un posto di blocco soltanto un minuto e mezzo dopo che aveva chiamato, per­ché c’era una pattuglia della stradale che faceva inversione al casello, un chilometro prima, e stava praticamente già lì.

 

Minchia che velocità! pensò il maresciallo, quei bastardi sono già passati!

Così sì riattaccò alla radio e chiese alla centrale che bloccassero l’au­tostrada, giù, ai caselli di Faenza, Forlì e Cesena, e anche più giù, fino a Rimini e Riccione, e intanto chiamò anche la stazione di Mordano, perché risalisse sulla San Francesco fino a bloccare la strada per Conselice e poi anche Castel Guelfo e Medicina, casomai avessero puntato verso nord, anche se luì era sicuro che adesso stavano sfrecciando lungo l’autostrada, e in quella si gettò rombando, con la sirena accesa, gridando all’appuntato di fare presto, perché quelli erano più veloci del fulmine, minchia, più veloci.

Contemporaneamente, Anteo Nerozzi, detto Luméga, girava giù per la strada di Zello, che era una laterale sterrata, ma almeno non ci sfrecciavano le macchine come sulla statale, che per un ciclista lento come lui erano un pericolo mortale. Anzi, fece fatica anche a fare la cunetta, spingendo sui pedali, staccato dal manubrio e quasi fermo, perché per lui qualunque dislivello era già salita e allora andare piano, e quasi quasi mettere il rapporto, con tutto quel peso poi che si porta­va addosso, i soldi, il passamontagna e la pistola finta. Mentre stava lì, quasi in supplesse, come se fosse sospeso a mezz’aria, gli venne in mente il suo prozio Guerrino, campione di maglia nera in tutte le tappe del Giro d’Italia del ’56, perché ogni volta arrivava ultimo, e non lo faceva mica apposta.

Alle ore 14, 3 minuti e f2 secondi, l’auto dei carabinieri passò davanti al casello di Faenza e il maresciallo bestemmiò per radio, per­ché gli avevano detto che da lì non era ancora uscito nessuno. La rete che aveva lanciato si stendeva velocissima su tutta la regione, allar­gandosi rapidissima e fitta come le incrinature su un vetro colpito da un sasso. A nord e a sud, a est e a ovest, auto dei carabinieri e della polizia, elicotteri sull’autostrada, posti dì blocco e ponti radio da lì fino a Piacenza e giù fino a Cattolica e anche sull’Appennino. Quella era una regione all’avanguardia nella tecnologia dei collegamenti, da sempre terra di passaggio e di comunicazione. Un’unica grande città moderna, rapida, precisa ed efficiente, cablata e collegata col futuro.

Prima o poi li raggiungo, pensò il maresciallo, prima o poi li rag­giungo e li prendo!

 

Contemporaneamente, Anteo Nerozzi, detto Luméga, arrivò in cima alla salita, .stanco come non era mai stato in vita sua. Se fosse stato più alto quel dosso, se fosse stato una collina o forse anche una montagna, avrebbe potuto vedere tutte quelle macchine che correva­no velocissime in ogni direzione a cercare lui, che invece stava dietro a pedalare, e gli sarebbe venuto in mente che in quel modo, in quello strano inseguimento alla rovescia in cui chi cerca è davanti e chi scap­pa è dietro, non sarebbero mai riusciti a prenderlo, e allora, Dio bono, perché aver tanta fretta? Ma il dosso era poco più di una cunetta e da lì, Anteo Nerozzi, detto Luméga, non vedeva proprio niente. Se si fermò, fu proprio perché si era stancato di pedalare. Perché da quan­do era bambino, suo padre, e a suo padre suo nonno, e a suo nonno il suo bisnonno di sicuro, avevano insegnato che quella è una regio­ne dove le cose si fanno per bene e con calma, come una volta, con tutto il tempo che ci serve.

Così si fermò, smontò dalla sella e continuò a piedi, con la bici­cletta in mano, pensando quasi quasi mi fermo a mangiare dalla Linina. Oggi è venerdì e fanno le lumache.

Brano corrente

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