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2 Maggio 2007 | Racconti d'autore

N°58-RACCONTI D’AUTORE

Nevio Casadio, “Polesine ’51 – Voci e suoni del fiume”, Edizioni Rai Eri, 2002.

Cari ascoltatori, oggi vi leggiamo un brano, intitolato “Laguna in volo”, tratto dal volume “Polesine ‘51” di Nevio Casadio, giornalista Rai di Ravenna. Il libro è un viaggio nello spazio e nel tempo del Polesine, la terra attraversata dal fiume Po, le cui acque nella notte del 14 novembre 1951 aggredirono i campi, i paesi, gli animali, le persone. Dal ricordo dell’alluvione l’autore trae spunto per interrogarsi sul senso della vita di oggi e sui valori di allora.

Laguna in volo

Alcuni anni fa, pensai di fare un’inchiesta sui pendolari d’Italia. Quelle persone che la mattina presto salgono, per lo più, su un mezzo di trasporto pubblico per andare al lavoro. Operai, impiegati, funzionari o docenti di scuola che formano l’esercito dell’ andata e ritorno di un viaggio quotidiano che dura tutta la vita lavorativa, fino al giorno della pensione, inteso come una sorta di liberazione.

Fu così che presi alloggio a Ravenna e, per cominciare a met­tere le mani su quella materia a me sconosciuta, la mattina se­guente salii sul regionale, il Ravenna-Bologna delle sette e quaran­tanove. A quell’ora, di quella mattina di febbraio, la notte avvol­geva ancora i binari lungo la stazione, con i primi chiarori che venivano dalle parti del porto. Il vagone accolse così, una dopo l’altra le persone intabarrate, con il dentifricio ancora in bocca. E il treno partì. Nel viaggio, le persone iniziarono a svegliarsi do­po qualche chilometro, con il treno che affondava il muso nella nebbia, sulla quale striavano i chiarori del giorno appena comin­ciato. Nei sedili intorno, alcune signore, probabilmente inse­gnanti di una scuola media, commentavano la trama di un film trasmesso la sera precedente in televisione. Qualcun altro guardava oltre il finestrino, con lo sguardo assente come se di fronte alla campagna che scivolava via scorresse il nulla di uno schermo spento. Per tutto il viaggio, un signore elegante aveva tra le mani, scorrendo le pagine come i fogli di un breviario, le opere di Novalis. Non potei che rimanere colpito da quel lettore assorto, meditabondo che, verso le otto del mattino, metteva gli occhi su un classico della Fenice, di quell’edizione Guanda che avevo conosciuto anch’io, molti anni prima. Mi ritornarono così quegli

Inni alla notte .Oh tu Maria, mille cuori come cima di onda inerpicati verso di te in questa vita d’ombra. Poi il treno arrivò alla stazione di Bologna, ognuno dei pendolari si avviò oltre la pensilina per dirigersi al lavoro e io presi il primo treno utile per ritornare al mio alloggio ravennate.

Risalii sul regionale dei pendolari, la mattina seguente e altre ancora. Alcune volte mi trovai nei pressi del lettore, alle prese ogni volta con un libro diverso, da Claudio Magris alle poesie di Salvatore Di Giacomo, passando, una mattina, a un libro sulla fauna della Camargue. Quel viaggio dei pendolari, Ravenna-Bolo­gna, pensai, durava circa sessanta minuti. Quante pagine, una persona potrà leggere in un’ora? Dalle quaranta alle sessanta? Diciamo cinquanta. Feci un po’ di calcoli. Quel signore, se avesse iniziato a fare il pendolare attorno ai trent’anni d’età, una volta arrivato alla pensione avrebbe compiuto quell’andata e ritorno, Ravenna-Bologna-Ravenna, circa quattordicimila volte, per altrettante ore. Quanti libri è possibile leggere di seguito, senza fermarsi neppure un secondo, per un anno e mezzo di tempo? Con la domanda insoluta, portai a termine l’inchiesta sui pendolari e di quel signore non seppi più alcunché. Quando, un giorno, lo incontrai nella redazione di Laguna, una rivista bimestrale dagli in­teressi legati al mondo dell’acquacoltura. Il biologo Eugenio Spreafico, per tale rivista, edita dalla Regione Emilia-Romagna, svolgeva il ruolo di coordinatore. E l’avrei rivisto più volte, avendo iniziato a scrivere ogni tanto qualche pezzo sul giornale, diretto da Vilmer Poletti e curato, nella parte redazionale, da Susi Realti.

Un giorno, tra alcuni fogli ritirati da quella redazione, trovai un pezzo battuto a macchina, probabilmente una Lettera 35.

“L’uomo guarda il cielo che si scurisce progressivamente. Il vento che soffia dal mare gli schiaffeggia il volto. È un vento che proviene dalle gelide tundre settentrionali, spazza le steppe esposte della grande pianura pannonica, sconvolge i brulli altopiani illirici e si incanala, acquistando velocità, nelle forre di roccia carsica. Un ultimo balzo e supera il mare, quel mare che è quasi un fiordo e che non ha la capacità di smorzare l’impeto di que­sta corsa, ma ne viene trascinato, sconfinando nelle lagune e nel­le foci dei fiumi che lo chiudono sull’altra costa e rappresentano la zona di frontiera, una specie di terra di nessuno che si interpo­ne fra il mare stesso e le altre terre, meno aspre, più temperate di quelle attraversate dal vento nella sua galoppata senza freni.

L’uomo accoglie il soffio impetuoso con soddisfazione, come si accoglie qualcuno che si attende da tempo e del cui arrivo non si è sicuri. Il cielo è ora completamente occupato da nuvole dalle forme continuamente mutevoli, la marea inizia a risalire, sospingendo l’acqua, in sintonia con il vento, verso occidente, risalendo i canali, penetrando dentro la valle. Altra acqua comincia a cadere dal cielo e la luce, già debole, cede il posto a una sera cupa, preludio a una notte che non sarà rischiarata neppure dalla luna, ormai alla fine dell’ultimo quarto.

È bene prepararsi, perché fra poche ore arriveranno numerose. L’uomo chiama i compagni che si avvicinano nelle loro cappotte cerate, figure indistinte nella luce grigia, con movimenti sicuri. Si muovono nelle barche e sulle passerelle attorno a quello strumento che stanotte, dopo mesi di quiete, eserciterà appieno la sua funzione e giustificherà il suo nome, che richiama a un tempo ingegno e fatica: il lavoriero.

Si ripetono gesti e si lanciano indicazioni che ricorrono pressoché immutati, ogni autunno, da secoli. Ma anche i secoli sono un tempo brevissimo, in confronto alle ere lungo le quali si ripete il comportamento delle vere protagoniste attese su questa scena notturna, le anguille. Da milioni di anni, da quando sulle terre emerse non ancora ricoperte d’erba, immani creature calpestavano il suolo con rombo di tuono e i cieli erano solcati da esseri inquietanti che gettavano ombre sinistre con le loro ali membranose e l’uomo non era ancora un progetto identificabile nei piccoli esseri insettivori dai quali, molto più tardi, si sarebbero sviluppati i mammiferi. Esse giungono a noi dall’oceano ove sono nate, dopo un viaggio di oltre due anni, durante il quale hanno mutato più volte aspetto. Entrano nelle bocche delle lagune, risalgono i corsi d’acqua e si spingono all’interno dove soggiornano per cinque, sei, dieci anni e anche oltre. Poi, una notte d’autunno, l’acqua marina sospinta dal vento invierà segnali, in un codice a noi ancora sconosciuto e, le anguille, che avranno nel frattempo raggiunto la maturità, inizieranno il viaggio di ritorno che, adulte, compiranno in un numero di mesi, questa volta più breve, verso la zona di origine, laggiù fra il Vecchio e il Nuovo Mondo.

Per quelle che si trovano nelle valli da pesca dell’Adriatico, il viaggio terminerà prima di arrivare al mare. Il lavonero le tratterrà con i suoi sbarramenti grigliati, finché saranno raccolte e stabulate

nelle bolaghe, specie di gabbie semisommerse, in attesa di essere avviate ai mercati di tutta Europa, dal Baltico al Mediterraneo.

In conseguenza della loro anatomia e della spiccata capacità di insinuarsi attraverso stretti passaggi, le anguille si spingono attraverso i primi sbarramenti fino alla punta estrema del lavoriero, verso il mare da dove giunge irresistibile il richiamo. Nei settori più arretrati si raccolgono le altre specie ittiche, anch’esse in movimento verso la costa per riprodursi o per cercare acque più profonde e più calde dove trascorrere l’inverno: in primo luogo i branzini, le orate, i cefali, ma anche i latterini, le passere, le sogliole.

Durante la primavera e l’estate, gli uomini ora impegnati nella raccolta del pesce hanno preparato la valle, permettendo lo scambio delle sue acque con quelle del mare, attraverso il controllo delle porte collocate lungo la sua arginatura perimetrale il vallum dal quale trae il nome – secondo principi e scadenze le­gati al movimento delle maree e dei venti. Grazie a questi movimenti la valle non diventa una palude e, nel momento opportuno, sarà stimolato il richiamo del pesce.

La vallicoltura non è perciò solo pesca e rappresenta una forma di allevamento mediato del pesce, ottenuto non con interventi diretti sugli animali, ma attraverso una gestione dell’ambiente che li ospita.

Il tentativo di allevare i pesci con criteri di tipo zootecnico. che ha conseguito risultati ormai solidi con le trote, le carpe, i pesci gatto e altre specie, è rivolto anche ai pesci di valle. Un allevamento ha un aspetto molto diverso da una valle da pesca e suggerisce una capacità di controllo più diretto e completo dell’uomo sull’animale. Ma è quest’ultimo che, in ultima analisi, condiziona l’esperienza: è alle sue esigenze che l’allevatore deve rispondere, alle sue necessità biologiche non sempre prevedibili e. per certi aspetti, ancora incomprese. Così l’allevamento può integrare, non sostituire la vallicoltura. La valle da pesca riceverà nuovi stimoli dalle moderne tecnologie, ma manterrà la propria identità sulla base di quel millenario ciclo biologico che spinge milioni di individui a muoversi verso il mare aperto, in autunno, quando si prepara una tempesta”.

Telefonai, al giornale. “Eugenio, ho trovato tra le mie carte un pezzo sulle anguille: L’uomo guarda il cielo … “. “È il mio”, rispose il biologo pendolare, autore di Laguna in volo.

Lettura di Fulvio Redeghieri. 

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