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5 Agosto 2007 | Racconti d'autore

N°59-RACCONTI D’AUTORE

Pino Cacucci, da “La polvere del Messico” Feltrinelli 1996, “La flor de los muertitos”.

Questa settimana vi proponiamo un passo di un libro che non è di ambientazione emiliano-romagnola, pur essendo l’autore un bolognese (acquisit infatti vive a Bologna ma è nato ad Alessandria). Pino Cacucci è un grande conoscitore della realtà latinoamericana. Ha pubblicato Puerto Escondido (1990), da cui Gabriele Salvatores ha tratto il film omonimo; San Isidro Futbòl (1991) da cui è stato tratto il film Viva San Isidro. Demasiado corazon è un thriller politico, un viaggio messicano dallo sterminato Nord sino alle viscere oscure del Sud. Sempre sul Messico, ha scritto Gracias Mexico, Feltrinelli, 2001, Tina , Feltrinelli, 2005, Nahui, Feltrinelli, 2005, e questo La polvere del Messico, storia di un viaggio tra autisti squinternati, vivaci bettole, vecchi indios, bande metropolitane, allevatori di galli da combattimento – insomma un viaggio tra la meravigliosa gente del Messico. Il pezzo che vi leggiamo si chiama “La flor de los muertitos” e racconta della strana celebrazione del giorno dei morti in questo sornione e pazzo paese.

La Polvere del Messico
La flor de los muertitos

Se il tabacco è la pianta che lo rende famoso, attraversando lo stato di Veracruz la vista è talmente catturata dalle distese di fiori d’ogni colore e forma da far dimenticare che qui la “cultura del sigaro” si contende il primato con L’Avana. Capita spesso di sorpassare camion stracolmi di fiori gialli, specie se il periodo è vicino alle festività dei morti, fiori a tonnellate, ammassati nei cassoni come ortaggi, tanto è il consumo che ci si appresta a fame. Carnosi, dai petali arruffati e fitti che ricordano i garofani, ma più concentrati, più “robusti”, considerando che sopportano di essere trasportati a quel modo, quasi li caricassero a palate. È il cempasuchitl, il fiore dei morti per eccellenza, tramandato dalle cerimonie azteche e coltivato allora sui giardini galleggianti di Xochimilco, dall’odore indefinibile, un misto di amaro e dolciastro che qualcuno assicura esser simile a quello dei cadaveri. Non so se davvero profuma di morte, il cempasuchitl. Certo non evoca nulla di triste, considerando che la ricorrenza dei defunti, in tutto il Messico e ancor più nel Veracruz, è ben altro che dolore e rimembranza. Ricordo, sì. E anche rimpianto. Ma non lutto, perché l’arrivo di novembre è salutato come una festa attesa un anno intero, e i cari estinti, da queste parti, non amano il silenzio e ancor meno il digiuno …

Si comincia addirittura il18 ottobre, per accogliere i defunti di “pallottola, incidente o affogamento”, cioè quelli che non hanno avuto il tempo di confessarsi e quindi si pre­sume soffrano di più nell’aldilà. Per loro i festeggiamenti durano quasi un mese e mezzo, anime in pena per le quali si preparano tamales di carne, fagioli e mais, e che vengo­no intrattenute fino al 30 di novembre fra pranzi, canti, scoppi di mortaretti e bevute dell’altro mondo. Perché nei giorni dello Xantolo, come viene chiamata la festività di Ognissanti, è credenza diffusa che i morti tornino fra i vivi per accettare le loro offerte, per ritrovare il calore della famiglia e degli amici. È dunque un obbligo non farsi trovare tristi e affranti, ma gioiosi della loro visita. Basta vederla sotto questa luce, e non risulta affatto strano che si accolga un ospite tanto atteso sparando fuochi artificiali e cucinando quanto di meglio offre la tradizione culinaria veracruzana. E nelle domeniche comprese fra il 18 ottobre e il 30 novembre, dette domingos grandes, le case vivono una frenesia di rinnovamento che investe persino stoviglie e sup­pellettili, poiché i “visitatori” rimarrebbero male al ritrovarsi i soliti piatti sbrecciati o le stuoie lise. Il 30 ottobre si raggiunse l’apoteosi del cempasuchitl: è “il giorno degli archi” I e gli uomini del villaggio si dedicano a costruire archi di fiori passando da un’abitazione all’altra, ricevendo al compimento dell’opera una bevuta di mezcal o rum, e una scarica di petardi che ne annuncia a tutti l’avvenuta costruzione. Gli archi hanno una struttura di otate, un legno flessibile simile al bambù, ricoperta con cempasuchitl alternati a manos de leon, fiore rosso cupo che in lingua mihuatl si chiama cuapeleche, “cresta di gallo”. Poi si appendono frut­ti e pani dalle forme umane, pupazzetti che portano incise le iniziali dei defunti “ospitati”. Infine, al centro dell’arco, con la Vergine e i santi sullo sfondo, si depongono in ab­bondanza bottiglie di liquore e sigarette, ovviamente del ti­po e marca amati dall’estinto. Perché se una volta abban­donato questo mondo, la persona non dimentica i piaceri della tavola e la gioia di rientrare in una casa linda e fiori­ta, non si capisce perché debba rinunciare ai suoi vizi…

Anche sulle tombe, oltre ai fiori, si portano bottiglie di birra e cibarie, trasformandole in tavole imbandite dove i pa­renti pranzano in un clima di naturale allegria, contenti di ricongiungersi alla persona cara. Se questi è un angelito, cioè l’anima di un bambino, la carne dei tamales è sempre di pol­lo, ovvero di un animale che non spaventa i più piccoli.

Le scariche di mortaretti sulla soglia di casa hanno un compito ben preciso: richiamare l’attenzione degli spiriti e indicare loro la strada per ritrovare i propri familiari. E pas­sando da un villaggio nell’entroterra del Veracruz in uno di questi giorni, ci si ritrova con i timpani che fischiano per l’assordante sparatoria. Parte della santabarbara viene conservata per il giorno fatidico, quando i cimiteri sono invasi da una moltitudine festosa. Dalle quattro del pomeriggio alle otto di sera, il crepitare dei fuochi d’artificio fa da contrappunto ai gruppi di musici che intonano canzoni a richiesta, secondo i gusti dei singoli defunti quando erano ancora in vita. Spesso, nelle vicinanze del cimitero o sulla piazza del paese, si esibiscono i voladores di Papantla, una cittadina nota in tutta la Repubblica per la produzione di vaniglia e patria di questi singolari acrobati. Piantato un palo alto trenta metri alla cui sommità è fissata una specie di “ruota” quadrata, un sacerdote e quattro voladores si arrampicano uno dopo l’altro e si legano alla caviglia il capo di una lunga corda avvolta alla ruota. Poi, accompagnati dal flauto del sacerdote che suona un’antica nenia malin­conica e ossessiva, cominciano a girare a testa in giù, li­brandosi nel vuoto a mano a mano che la corda si srotola, fino a vorticare vicinissimi al suolo, con le teste che sfiora­no il selciato o la polvere della piazza. Il tutto continuando a fissare il sole, apparentemente immuni alla forza centri­fuga che li tiene in volo, ripetendo un rito ancestrale del po­polo totonaco che solo sfidando la morte in volo poteva gua­dagnarsi il diritto di rivolgere il volto alla divinità solare.

Nel giorno dei morti è consuetudine invitare sulla tom­ba apparecchiata il primo estraneo che passa, e a me è ca­pitato di essere chiamato dai sorrisi e i gesti gentili di un gruppo di donne, una madre e le sue cinque figlie. Mi sono seduto in un angolo, di fianco alla croce di ferro non anco­ra arrugginito, immaginando che non fossero trascorsi mol­ti mesi dalla morte del loro congiunto. “Mio padre ci ha la­sciate l’anno scorso,” mi ha detto una delle ragazze, che avrà avuto circa sedici anni. La madre ha annuito, con espres­sione serena. “Per un calcio di cavallo in fronte,” ha aggiunto un’altra. Poi la più grande, sui vent’anni o forse meno, ha raccontato che al principio volevano venderlo, quello stal­lone assassino, ma alla fine hanno deciso di tenerlo in me­moria del padre, che lo considerava il suo favorito. “Al mat­tino lo liberiamo nel recinto grande, e lui scarica il diavolo che si porta dentro scalciando e correndo come un osses­so. Ieri è accaduto che a un certo punto si è bloccato al cen­tro del campo, e ha annusato il vento. È rimasto così, im­mobile, piantato con le gambe dritte e il collo rigido e la co-

da levata, aspettando qualcosa. Poi, dopo una decina di mi­nuti, ha abbassato la testa e si è messo a camminare in cir­colo, tranquillo, e a un certo punto ha preso a muoversi al galoppo trattenuto, quello che faceva tanto faticare mio pa­dre per insegnarglielo … Era tornato. Per il giorno dei mor­ti, il suo cavallo si è lasciato montare senza ribellarsi. Nes­suno gli aveva più messo una sella, da quel giorno. Ma ie­ri, era come se avesse anche il morso e le redini…”

Ho guardato l’immagine ovale di ceramica al centro del­la croce. Un volto bonario, più giovane dei cinquant’anni dichiarati dalle date sulla tomba, che ho visto scostando un lembo della tovaglia. Forse la foto era stata scattata anni addietro, col vestito buono messo per la cresima di una fi­glia, o per il matrimonio di un compadre. Le donne hanno brindato sorridendo verso l’uomo, con le loro bottiglie di bibite dai colori accesi. A me hanno offerto una birra, che era lì nonostante nessuna di loro ne bevesse. Verso la fine del pranzo, è passato un uomo che ci ha salutato toglien­dosi il sombrero. Gli hanno offerto uno dei tamales rima­sti, poi lui ha ricordato l’amico morto parlando di episodi felici, come la festa per la nascita dell’ultima figlia, o di una volta che avevano bevuto un po’ troppo e si erano accom­pagnati a vicenda l’uno a casa dell’altro, per buona parte della notte. La vedova ha riso, ricordando che alla terza o quarta volta che l’avevano svegliata si era affacciata alla fi­nestra lanciando loro un secchio d’acqua. Anche le figlie si sono messe a ridere, quasi che il padre fosse lì a riderne con loro. Parlavano di qualcuno che era tornato per qualche giorno in famiglia, e l’unica cosa triste era pensare che al­la fine del mese se ne sarebbe andato via, per un altro an­no di lontananza.

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