Musica. Luciano Pavarotti: Pourquoi me réveiller? (dal “Werther” di Massenet – Concerto di Hyde Park, 30 luglio 1991).
Perché dovrei svegliarmi, perché dovremmo uscire dall’incantesimo, cari amici, mentre con la calda voce di Pavarotti nelle orecchie passeggiamo per Modena, una “piccola Praga magica – scrive Roberto Barbolini – che mescola il suo singolare bestiario umano ai mostri gotici” della cattedrale? Sì, perché in giro vedi certe facce squadrate che rivelano inconfondibili radici celtiche, e sono i discendenti degli stessi modenesi che più di 900 anni fa chiamarono dall’Aquitania Wiligelmo a scolpire sulla facciata e le porte monumentali del Duomo gli incubi romanici. E
Musica. Luciano Pavarotti: Recondita armonia (dalla “Tosca” di Puccini – Concerto di Hyde Park, 30 luglio 1991).
Ma una nascosta armonia, questa città ce l’ha. Modena è divisa in due dalla Via Emilia, che l’attraversa come un fiume. A differenza di Reggio e di Parma, non si stende sulla Via Emilia, ma vi si accartoccia sopra, la racchiude, la fa vivere dentro di sé. Insomma, Modena è
Musica. Luciano Pavarotti: Donna non vidi mai (dalla “Manon Lescaut” di Puccini – Concerto di Hyde Park, 30 luglio 1991).
Dicevamo di Delfini. Amava tanto la sua città – scrive Roberto Barbolini – da odiarla di tutto cuore. Delfini, “passando dal fascino del giovin signore ventenne all’aria immagonita e disillusa dell’uomo calvo e precocemente invecchiato degli ultimi anni, si era via via appesantito, senza perdere però l’aspetto determinante di chi è pronto a giocarsi la vita e a mandare tutto quanto in malora per un attimo di grazia poetica”. I critici dicono che “Il ricordo della Basca”, e soprattutto la sua famosa Introduzione, sia uno dei capolavori della letteratura italiana del Novecento. Con un che di profondamente emiliano: un parlare a vanvera, uno straparlare che capita a chi, sotto i portici di Modena o di qualsiasi altra città emiliana, si sbraccia con gli amici per invitarli a prendere un caffè, e fa battute con loro, li prende e si fa prendere in giro, e poi gioca con le parole, disputa, inventa, ingabbiando questo sproloquiare di provincia tra le arcate regolari dei portici, in modo che la vanvera si faccia racconto, senso. Ma d’altra parte, che senso poteva mai dare alla vita un orfano come Delfini che conobbe il volto di suo padre vedendolo uscire intatto dalla terra il giorno dell’esumazione – il padre aveva 33 anni e lui, suo figlio, 54?
Musica. Luciano Pavarotti: Nessun dorma (dalla “Turandot” di Puccini – Concerto di Hyde Park, 30 luglio 1991).
Poche note, e la voce di Pavarotti si stempera sulle malinconie di provincia, le sorvola e le disperde sotto i portici di Corso Canal Chiaro o della Via Emilia o di Corso Canal Grande, seguendo i tracciati degli antichi canali costruiti per la bonifica del suolo paludoso. Chiese e palazzi, strade curve e porticate, piazze e cortili accolgono questa voce e fanno da sfondo, da quinta o da cassa di risonanza alle malinconie delfiniane, alle velleità di esistenze fallimentari e patetiche, sospese tra un’inutile attesa, la noia e l’incapacità di realizzazione. Il melodramma è l’anima di questa terra. Gli fa da contraltare la stanchezza esistenziale che rende Delfini un vagabondo notturno, con le sue lunghe passeggiate sotto i portici fino a tirar mattina: anima persa nella fumana, giovanotto impacciato. Che però, riesce a sfilare
Musica. Fabrizio De André: Bocca di rosa
A cura di Claudio Bacilieri, lettura di Fulvio Redeghieri.