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25 Febbraio 2021 | Racconti d'autore

Non dire addio ai sogni

Testo tratto dal romanzo omonimo di Gigi Riva (Milano, Mondadori, 2020)

Vittorio Ferorelli e Rita Giannini

Sono centinaia i ragazzi africani che ogni anno raggiungono l’Europa con il sogno di diventare calciatori. Pochissimi lo avverano, molti invece sono ingannati da falsi procuratori, che in cambio di denaro promettono ingaggi e poi li abbandonano. Come succede ad Amadou Gueye, il protagonista del nuovo romanzo di Gigi Riva, scrittore e giornalista, a lungo inviato speciale. Ve ne leggiamo alcune pagine, grazie alla voce dell’attore Faustino Stigliani.

Una nuvola di polvere sollevata dal fuoristrada bianco, completo di sbarra antibufalo e ruote che assomigliano a quelle di un camion, è il segnale di fumo dell’arrivo di George e Idrissa. Come siano finiti a Palo, provincia di Thiès, profondo Senegal, a regalare l’impalpabile che non costa nulla ma vale molto, cioè i sogni, è odissea tutta da raccontare.
George Fabre ha cinquantadue anni, è nato a Hyères, Francia del Sud davanti alle isole Porquerolles, surrogato caraibico nel Mediterraneo. I genitori avevano un hotel e, iscrivendolo alla scuola alberghiera Paul Augier di Nizza, lo avevano indirizzato verso la continuità in azienda. Non avevano però considerato che la passione per le automobili di lusso e le belle donne, unita alla vicinanza di Montecarlo, era un mix esplosivo in grado di deviare il corso delle aspettative.
A scuola George aveva fatto comunella con un coetaneo italiano di Ventimiglia, Alberto Alberti: due fuorisede, di famiglie se non ricche almeno agiate, all’inizio degli anni Ottanta e del riflusso nel privato, quando spensieratezza, ricchezza e successo sembravano alla portata di chiunque, bastava allungare la mano per afferrarli. La scarsa o nulla propensione per gli studi aveva ben presto dirottato i loro pomeriggi nei locali del Principato di Monaco e le serate nel Casinò, un vizio che George non avrebbe più perso. I soldi che le famiglie davano per il loro mantenimento non bastavano mai. Tanto più da quando avevano capito che una solida base economica era la chiave per l’ingresso tra i ricchi e i nobili.
«L’abito fa il monaco» sosteneva il francese.
Erano diventati clienti assidui delle migliori boutique. Pensavano che il passaporto del gusto e dell’aspetto permettesse loro di infrangere la frontiera delle classi. Erano indubbiamente due bei ragazzi. George superava il metro e ottanta, capelli neri corvini, occhi neri, fisico modellato dalla palestra. Alberto aveva i muscoli del giocatore di tennis che era e, sotto un caschetto castano, brillavano divoranti occhi blu.
Transitando di festa in festa, di locale in locale, coi sotterfugi degli inviti scroccati, la loro presenza sul lungomare era diventata familiare. Avevano escogitato un metodo infallibile per essere ammessi al Café de Paris. Per un mese, ogni sera, avevano lasciato una lauta mancia all’usciere. Finché, dopo la generosa unzione, avevano avuto il diritto all’ingresso.
Credettero che il colpo di fortuna fosse arrivato un’estate in cui erano riusciti a salire su uno yacht a bordo del quale c’era un ragazzo poco più grande di loro, Stefano Casiraghi, già introdotto nel milieu dei playboy da Costa Azzurra. La sorpresa fu quando alla barca se ne accostò un’altra per il trasbordo della principessa Carolina, di cui Casiraghi sarebbe diventato marito.
L’occasionale incontro sfociò in un invito a Palazzo per una festa.
Con l’arguzia di chi sa far fruttare conoscenze anche minime grazie all’arte del millantare, si erano promossi come intimi dei regnanti. Portavano come pezza d’appoggio le foto in costume che erano riusciti a scattare con Carolina e gli interni del ricevimento dai Grimaldi. George era arrivato al punto di stampare dei biglietti da visita che lo accreditavano come “conte di Provenza”. Alberto, per non essere da meno, si spacciava per barone di Sanremo, perché «un titolo fa sempre comodo».
Non era il tempo dell’amore ma della convenienza. Piacevano alle coetanee, ma preferivano le annoiate signore quarantenni, che buttavano denaro alla roulette per un istinto di dissipazione di sé oltre che del patrimonio. George aveva agganciato una milanese divorziata, Silvia, che per desiderio di innalzarsi, non di lodare lui, lo chiamava “mon petit Alain Delon”, nonostante la somiglianza si fermasse ai capelli. Debole, ma nient’affatto stupida, lo ospitava nella sua alcova, gli regalava vestiti, orologi, profumi, non denaro. Era il limite che si era posta per fingere fosse sentimento, e lui non un gigolò ma un amante.
Fu dopo una notte di sesso che George perse, oltre alle uova d’oro, anche la gallina. Valutato che lei si fosse assopita, cercò di rubarle il denaro dal portafogli. Silvia, con l’unico occhio aperto, lo sorprese. George avanzò mille scuse, un debito alle carte con certi marsigliesi che lo minacciavano, la disperazione, il giuramento che le avrebbe comunque restituito tutto. La donna non volle sentire ragioni, offesa com’era nel suo orgoglio. Non lo avrebbe denunciato, questo no, nel timore di passare per fessa.
Evitato il pericolo maggiore, George si credette, se possibile, ancora più onnipotente, sciolto dagli obblighi del codice penale. I reati commessi per denaro non gli sembravano tali, era il tempo in cui ogni aspirazione alla ricchezza era considerata legittima. E del resto, in quello spicchio di società dorata, sembrava che ciascuno possedesse una macchinetta per produrre banconote in casa: per i vitelloni della Costa Azzurra, le signore âgées erano bancomat pronto uso.
Il problema era che sì, Silvia non si era rivolta ai gendarmi, però gli aveva fatto terra bruciata intorno. Per vendetta, alle amiche lo aveva dipinto come uno sfaccendato, povero non solo di cultura ma anche di argomenti da salotto. Soprattutto privo di senso dell’umorismo e si sa che alle signore della buona società, oltre che fare l’amore, piace ridere. Infine, ciliegina sulla torta, aveva nei confronti del denaro un’ingordigia da parvenu. Ed era in particolare quest’ultimo dettaglio che suscitava disgusto.
Alberto non faceva che imputargli l’imprudenza quando, all’improvviso, si erano fatte più strette per loro le porte della dolce vita. Tuttavia il rimprovero non sfociava nell’abbandono. Insieme avevano salito la scala sociale, insieme, dopo un ruzzolone lungo i pioli, l’avrebbero rimontata. Come? Con la ricetta dei soldi, la formidabile chiave-passepartout. Si arrovellavano su come farli.
La soluzione arrivò oltreconfine. George e Alberto si erano momentaneamente spostati a Sanremo per le loro scorribande. Benché non vi circolassero le stesse ingenti fortune del paradiso fiscale monegasco, la città dei fiori era comunque un ottimo trampolino per il rilancio. A un tavolo del Casinò conobbero un distinto signore sulla cinquantina che non si curava di perdere e puntava indefesso sullo stesso numero, il 23. Accanto aveva un’annoiata e svenevole ventenne, cui stava a pennello l’attributo mitologico di amazzone. Il suo metro e ottantadue non le bastava se montava su tacchi a spillo di dodici centimetri; indossava senza imbarazzi una minigonna sotto la quale si scorgevano le autoreggenti; la generosa scollatura era il tocco finale: l’insieme, a dispetto dello sfarzo dei capi firmati, aveva il sapore della volgarità.
Alberto si presentò come barone, George come conte. Al distinto signore dal fazzoletto di seta nel taschino intonato alla cravatta bastò un’occhiata per soppesarli prima di esplodere in una risata.
«Tra nobili» obiettò «ci riconosciamo. E voi siete tutto tranne che di sangue blu. Io sono il conte Pietro Marini, esule istriano dell’isola di Lussino. La mia famiglia conserverebbe ancora il diritto di passaggio, un obolo da versare per chiunque transiti, sul ponticello che unisce Lussingrande a Lussinpiccolo, se non fossero arrivati i comunisti a cacciarci».
La questione del ponticello colpì i due amici. Un conte vero! Col diritto di passaggio! E con quello splendore di ragazza. Lei, Milena, era di Zara, e li guardava come volesse allo stesso tempo incenerirli e turbarli, con quei suoi occhi grigio intenso. Scoperti, confessarono il piccolo furto di identità.
Pietro Marini li perdonò con benevolenza: «Anche io, dopo aver perso tutto in Jugoslavia, ho dovuto ripartire da zero. Se ce l’ho fatta è perché ho aguzzato l’ingegno e voi mi siete simpatici, voglio darvi una possibilità. Venite a trovarmi domattina nella hall dell’hotel Royal».
Giudicarono una piccola stravaganza il fatto che il conte avesse chiesto loro di pagare il parcheggio al Casinò perché aveva «finito gli spiccioli». Anche Gianni Agnelli, l’Avvocato, secondo la leggenda, circolava senza contanti: paradossale privilegio di chi ne ha a mucchi.
Curiosi oltre che eccitati, George e Alberto furono puntualissimi. Il conte Pietro Marini si fece attendere, scese che era quasi mezzogiorno. «Milena ancora sta dormendo» esordì. Poi spiegò che certi amici suoi avevano fatto da tramite per un affare fa-vo-lo-so. Era stata appena scoperta una vena di marmo nero di straordinaria qualità in una miniera della Nigeria. Lui faceva da mediatore. Si trattava di scovare investitori interessati per ingenti guadagni. Se li avessero trovati, avrebbe riconosciuto loro succose percentuali, fino al venti per cento. Suggerì di cercarli tra i calciatori, «sono ormai come i divi del cinema, hanno un sacco di soldi e non sanno che farsene». Distribuì alcuni dépliant dove si spiegavano i dettagli dell’operazione, «in Italia ho già dei procacciatori, ma la Francia è vergine, sondate lì il mercato». Fu prodigo di consigli su come vestirsi, quali parole usare, i metodi e qualche trucco. «Soprattutto, spiegate che a gestire l’operazione è il conte di Lussino.»
Dal casual ricercato-elegante, la coppia passò all’austero completo blu con camicia bianca e cravatta rigorosamente marca Marinella. Marsiglia, Nizza, Montpellier, Saint-Etienne, Lione: setacciarono le squadre francesi più importanti del Centro-sud e convinsero dieci atleti. Finché una triste mattina si trovarono i gendarmi in casa. L’accusa: truffa. Il processo e poi la condanna: tre anni. Il conte? Scomparso con la cassa. Quello era un maestro nell’arte del raggiro, un falsario che li aveva abbindolati e se ne era servito per godersi il malloppo con la lasciva Milena.
Nel carcere di Grasse, George Fabre conobbe Idrissa, un piccolo spacciatore senegalese matto per il football. Condividevano la cella. Per passare il tempo, Idrissa studiava a memoria le formazioni di tutte le squadre come dovesse partecipare a un quiz a premi. Le ripeteva prima di addormentarsi, una sorta di litania, e si arrabbiava se George, che doveva controllare, non correggeva gli errori. Ben presto si instaurò tra loro quella solidarietà che nasce solo nelle situazioni estreme.
La fine della pena era simile per entrambi. Quando si aprirono le porte della prigione, George fece un bilancio. Aveva perso Alberto, deciso, al contrario suo, a tornare dai genitori per continuare l’attività paterna, magari a tempo perso dare qualche lezione come maestro di tennis alle borghesi che svernavano in riviera, e chiudere col passato. Gli restava l’insegnamento dell’improbabile conte di Lussino su come gestire un raggiro. E i due consigli che gli aveva lasciato in eredità: i calciatori e l’Africa. I calciatori nuovi ricchi cui succhiare risorse, l’Africa terra incognita dove nessuno lo conosceva e poteva ricominciare. Più Idrissa, che era l’Africa ed era il calcio. George non aveva ancora trent’anni, sul finire degli Ottanta, e voleva, fortemente voleva, continuare a correre lungo quel bordo che affaccia sulla ricchezza. Possibilmente senza fare fatica. Ben presto capì che il suo marmo nero, i suoi diamanti neri non erano gli atleti già affermati in Europa, ma quelli che avrebbe potuto importare. E illudere.

Tutto questo avrebbe dovuto sapere la famiglia di Boukary Gueye il giorno in cui il fuoristrada sollevava la nuvola di polvere, mèta il proprio uscio. Tutto questo e altro ancora. Nei ventiquattro anni che erano corsi tra l’uscita dalla galera e quel fatale appuntamento, George aveva impegnato le sue energie, come si vantava, per «farsi furbo». E si poteva dire che aveva imparato in fretta. Anzitutto aveva capito che era sempre bene presentarsi con una bella donna, quelle non gli mancavano. I rovesci avevano indurito qualche lineamento del volto, non deturpato la generosa genetica. L’aria vissuta aggiungeva anzi il fascino che nell’adolescenza non poteva avere.
Se l’ambito dello sport era il prescelto dove sguazzare, curava il fisico, biglietto da visita sostitutivo di quello con scritto “Conte”. Jogging e palestra dovevano sostenere il passato che si era attribuito come calciatore a sua volta. Dunque ben inserito nel settore. L’enciclopedica conoscenza di Idrissa degli eroi piccoli e grandi era utile per costruire un profilo credibile e non troppo reboante. Aveva giocato nel Bordeaux, nell’Arles-Avignon, e terminato la carriera in Italia nella Ternana. Sapeva snocciolare i nomi di compagni di squadra, conditi da aneddoti inventati ma verosimili. Siccome aveva una laurea in giurisprudenza, tesi sui rapporti di lavoro nel calcio professionistico, appese le scarpe al chiodo aveva seguito i corsi per diventare procuratore e conosciuto i massimi vertici della FIFA e dell’UEFA.
Idrissa era il suo assistente-segretario. Lo aveva fatto studiare e se ne era fatto carico per via di una storia lacrimevole che propinavano allo scopo di suscitare commozione. Idrissa era stato nientemeno che un leader studentesco, a Dakar, costretto a fuggire dal Paese per evitare la repressione a causa delle sue idee vagamente socialiste condite con accuse al passato coloniale. I genitori erano morti di cancro nel volgere di pochi mesi e non era potuto rientrare nemmeno per i funerali, temeva l’arresto. Solo, esule in Francia, aveva trovato il suo anfitrione e insieme erano i filantropi dei diseredati.
George, per mischiare i dettagli delle false biografie con qualche squarcio di verità e renderle digeribili, non faceva mistero che il tornaconto personale aveva il suo peso, doveva pur mangiare, ma questo non annullava i buoni sentimenti che sentiva nel profondo per l’Africa, alimentati dal senso di colpa francese verso il Continente e dall’istintiva simpatia per quelle popolazioni così naïf da conservare l’essenza di una purezza altrove perduta.
Il racconto funzionava e permetteva loro di conquistare la fiducia di decine di vittime, non solo in Senegal ma nell’intera fascia di Paesi africani che disponevano di una materia prima preziosa al pari dei diamanti, del coltan, del cobalto, del tantalio. Erano giovani forti, determinati, docili, ubbidienti e capaci. Roba da esportazione, come i loro antenati schiavi per una tratta adattata ai tempi moderni, che ai piedi non prevedeva le catene ma un pallone. George e Idrissa avevano affinato un copione fatto di lusinghe, generosità, rispetto, talvolta durezza, un gioco delle parti ormai collaudato e pronto all’uso. Fu così anche a Palo, giugno 2014, nell’estate dei Mondiali brasiliani, potente appuntamento capace di accrescere il mito del calcio, semmai ce ne fosse stato bisogno.

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Foto
“Namibia Dream” di Francesca Pirrone – CC BY-SA-NC 2.0

Musiche
Baba Sissoko – “Il Faut Pas Ecouter”
Michael Jackson – “Beat It”
a-ha – “Take On Me”
Ismaël Lô – “Jammu Africa”
Shakira – “Waka Waka (This Time for Africa)”

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