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3 Ottobre 2013 | Racconti d'autore

Paesaggio terrestre attorno a Villa Minozzo

Racconto di Giorgio Messori tratto dal libro “Viaggio in un paesaggio terrestre” di Vittore Fossati e Giorgio Messori (Reggio Emilia, Diabasis, 2007) – seconda puntata

A cura di Vittorio Ferorelli. Lettura di Fulvio Redeghieri

3 ottobre 2013

Qualche anno fa, girando tra le zone spopolate dell’Appennino reggiano, lo scrittore Giorgio Messori e il fotografo Vittore Fossati hanno preso appunti, con penna e obiettivo, su quel che vedevano. 
Da quegli appunti è nato un libro illustrato in cui sono confluite anche esplorazioni in altri luoghi descritti da poeti e pittori che sul paesaggio, e sull’arte di rappresentarlo, avevano riflettuto. Questo è il racconto che dà inizio al libro.

Quando da Càvola siamo scesi ancora una volta verso il greto del Secchia, dalle parti di un’industria di ceramiche che sta scavando un bel pezzo di montagna, abbiamo trovato delle ferraglie abbandonate e arrugginite, forse servite per mettere in piedi la fabbrica. C’erano tralicci, una ruspa, silos e container, così arrugginiti che si mimetizzavano bene con la natura intorno.
Perché la ruggine aveva colorato le ferraglie di verde, marrone, giallo: i colori terrestri.
La sera chiacchierando con Vittore è saltata fuori l’idea che oggi per vedere Pompei, così come potrebbe averla vista un viaggiatore del Settecento, bisogna andare a scovare vecchie fabbriche in rovina, ferraglie abbandonate. Perché l’archeologia strappa inevitabilmente alla natura i reperti del passato e li sottrae così al loro destino di cose, materia.
Ricordo che da bambino le visite al museo non mi facevano entrare mai in nessuna memoria. Una memoria l’ho invece scoperta la volta che ero andato con un amico nella vecchia e cadente fabbrica della Montecatini, appena fuori città. Girando in mezzo a quelle rovine annusavo il passato, che mi appariva come un groviglio oscuro e inesplicabile, immerso in un grande silenzio. Non era più come andare a casa di qualcuno, come potevo credere entrando in un museo. C’era un disordine che affascinava e impauriva, e che comunque mi faceva sentire diverso, in un’altra dimensione.

Le rovine, le cose abbandonate a sé, ci aiutano a uscire da un tempo sempre preso da scadenze immediate, da una quotidianità tiranneggiata dalle notizie che vogliono scandirci il passare dei giorni e le stagioni. Perché riconoscere la sovranità della natura, che domina pure sui manufatti dell’uomo, vuol dire entrare in un tempo più lungo, che la nostra civiltà non sa più considerare.
A questo proposito il filosofo Michel Serres dice che questo tempo lungo è scomparso con la scomparsa, o rimozione, di una memoria legata a chi viveva all’aperto, immerso nel tempo esterno delle intemperie, come il contadino o il marinaio. La scomparsa di questa memoria produce, per Serres, effetti ben più nocivi e incalcolabili dell’inquinamento che già infliggiamo all’aria, la terra, l’acqua. Anche perché la cosiddetta globalizzazione, progettata nel chiuso degli uffici del Potere, si è dimostrata assolutamente incapace, come si sa, di considerare il Pianeta Terra, quando invece un contadino sapeva bene di dover fare sempre i conti con la sua terra, ed era la terra che era a lui sovrana, perché sapeva di non poter vivere senza di essa.
Sono considerazioni quasi ovvie, ma è molto efficace e profondo il modo in cui Michel Serres riesce a formularle: «Se esiste un inquinamento materiale, tecnico e industriale, che espone il tempo, quello della pioggia e del vento, a rischi concepibili, ne esiste un altro, invisibile, che mette in pericolo il tempo che passa e trascorre, un inquinamento culturale che abbiamo inflitto ai pensieri lunghi, autentici guardiani della Terra, degli uomini e delle cose stesse».
Stare nel tempo atmosferico, nella pioggia che cade e nel vento che soffia, è sempre un modo per sfiorare anche la memoria di un tempo più lungo, che forse un tempo era patrimonio culturale di contadini e marinai, e che è il tempo del tempo che passa e che può abitare solo la natura.
Al bar di Sologno abbiamo trovato un calendario del ’95 con le immagini del fotografo svizzero Scheuermeier, che intorno agli anni Venti aveva girato a lungo per queste montagne. In una foto del calendario era ritratta la famiglia del nonno del padrone del bar. E il barista ci aveva spiegato che il telaio che si vedeva nella foto era nella stanza accanto al bar, quando lì non c’era ancora nessun bar, perché quella era appunto la sua casa di famiglia, e solo dopo la guerra ci avevano fatto l’osteria.
Ad andare nei bar di queste minuscole frazioni, e ad abbandonarsi al ritmo lento dei gesti del barista, degli uomini che giocano a carte tutto il pomeriggio, stando lì è facile ascoltare ancora memorie lontane, come al bar di Carù dove il vecchio barista ci ha raccontato della guerra, di quando su quelle quattro case avevano buttato due bombe enormi. Diceva che costavano più le bombe delle case bombardate, e ricordava che per terra una bomba aveva fatto un buco di undici metri di diametro e quattro di profondità.
Nelle periferie del mondo la memoria di un tempo lungo, fuori dal tempo delle notizie, sembra ancora miracolosamente esistere, sopravvissuta nel piacere di perdersi ancora nel tempo di un racconto.

Una tappa obbligata delle nostre perlustrazioni è stato il Lago Calamone, al Monte Ventasso, uno dei luoghi più conosciuti della zona, meta anche di campeggi e scampagnate. Quando ci siamo arrivati stava scendendo la sera, e l’acqua stagnante del lago rifletteva un cielo plumbeo. In giro non c’era quasi nessuno, solo il vociare indistinto di una famiglia che raccoglieva i resti di un picnic. Tutto il resto era fermo, immobile, e avevano steso anche dei sacchi di iuta perché il terriccio non smottasse nell’acqua.
Ricordo che l’amico poeta Vince Fasciani, che è nato sul Lago Maggiore e da tanti anni abita a Ginevra, sul Lago Lemano, aveva scritto una volta che il colore del lago è il colore dell’acqua morta, perché non c’è l’energia viva che si vede nel mare, nei fiumi che corrono. E io stesso, quando ho abitato per più di un anno sulle rive di un lago, a Zurigo, mi son sentito a volte stregato da una stagnazione luttuosa, funebre, quasi fosse un miraggio lacustre, e quando volevo rimettere in moto i pensieri preferivo passeggiare lungo il Limmat, il fiume che sfocia nel lago proprio a Zurigo, in centro, e così mi dirigevo fuori dalla città per ritrovare l’energia di un fiume e rinfrescarmi i pensieri.
Il lago però aiuta a fermarsi, quando c’è bisogno di farlo, e ritrovare così la quiete che possono dare anche i cimiteri di campagna. Perché i laghi hanno sempre una loro calma cimiteriale, e i rumori, attutiti dall’acqua, sembrano rispettare la consegna di un silenzio meditabondo, malinconico.

Che il lago sia un luogo di pace lo testimonia perfettamente Robert Walser, che spesso terminava le sue passeggiate in riva a un lago, meglio se un laghetto apparso all’improvviso, inatteso, dove potere finalmente riposarsi. Se i suoi vagabondaggi finivano sempre per avere un andamento ascensionale, fino a un progressivo annullamento di sé, fino ad arrivare a un’assoluta vaghezza, il lago diventava allora la meta ideale, il luogo dove concludere una passeggiata e immergersi nella luminosità stessa del cielo. Perché il lago è sempre anche un riflesso del cielo, con cui si confonde.
Quando arriva sul Greifensee, un laghetto a pochi chilometri da Zurigo, Walser dice che «è lago, e bosco che lo cinge; è cielo ma di un azzurro così tenero e un po’ offuscato; è acqua, ma acqua così simile al cielo che può essere soltanto il cielo e questo soltanto acqua azzurra; è dolce azzurra calda quiete.»

I primi mesi che ero a Zurigo abitavo in una casa su una collina da cui si poteva vedere il lago. Ricordo che nelle giornate piene di luce a stare in soggiorno, dove c’era una grande vetrata, era come avere in faccia il riverbero di un’enorme stagnola. Di notte le luci della città si specchiavano ai margini di un enorme cratere nero.
Allora leggevo spesso racconti di fantascienza, e il lago era il mio Ufo, o meglio uno di quei posti dove il protagonista di una storia si trova capitato come per caso, ma c’è una calma artificiale che lo inquieta, preludio di sciagure future. A volte la quiete può giocare brutti scherzi, far sognare mostri e catastrofi (e forse non è un caso che Frankenstein sia stato concepito e scritto sulle rive del Lago di Ginevra, o che esista la leggenda del mostro di Loch Ness).
Ma per tornare al tempo più naturale delle storie, al tempo lungo dei racconti, erano le serate da Graziano a offrire le migliori occasioni per ascoltare storie, o antiche memorie che giravano per il paese.
C’erano storie di persone conosciute ormai scomparse, come quella di Mao, soprannominato così per le sue idee politiche, che da bambino Graziano ricordava di aver conosciuto personalmente. Questo Mao era un tipo grande e grosso, e Graziano aveva sentito dire che da giovane aveva fatto il “passatore”, cioè di mestiere, visto che era molto robusto, traghettava sulle spalle la gente che voleva oltrepassare il Secchiello, il torrente che si getta sul Secchia e che passa vicino al paese.
E poi naturalmente c’era la storia dell’anarchico Zambonini, che fra l’altro è ricordato ancora da una lapide abusiva nella piazza del paese, messa su qualche anno fa da Graziano e i suoi amici del Pericolo Giallo durante un’occupazione del municipio. L’occupazione l’avevano fatta per protestare che Zambonini comparisse in piazza solo nell’elenco dei civili caduti in guerra, come se fosse morto per caso sotto le bombe, o in un rastrellamento. Invece i fascisti erano andati a prenderlo a casa sua e lo avevano fucilato in quanto anarchico. Ma questo Zambonini, proprio perché anarchico, solitario, non figurava tra gli arruolati nelle bande partigiane, e così il comune lo aveva messo tra i civili.
Di mestiere Zambonini faceva il mulattiere, cioè guidava dei muli che servivano a portare dei pesi, per chi ne avesse bisogno. E una volta aveva aiutato il prete a traslocare e quella volta s’era cercato di trattenere dal bestemmiare, cosa che faceva abitualmente, perché aveva rispetto del suo cliente. Ma quando a un certo punto i suoi muli si erano fermati e non c’era più il verso di farli andare avanti, Zambonini dopo un po’ aveva perso la pazienza, raccontava chi c’era, e allora ha tirato qualche bestemmia e i muli sono subito ripartiti. Perché finalmente i muli avevano riconosciuto la voce del loro padrone.
Da Graziano c’era sempre il cane Luigi, che aveva una strana mania per i sassi. Un sasso poteva stare a fissarlo per delle ore, in attesa che qualcuno glielo lanciasse. Poi lo riportava indietro e si rimetteva a guardarlo finché non gli veniva lanciato di nuovo.
Le famiglie e le razze nella natura si mischiano sempre, non esistono pregiudizi o pulizie etniche. Si possono anche intrecciare misteriose relazioni, come quella che legava Zambonini ai suoi muli, o il cane Luigi ai suoi sassi.

Un amico fra l’altro mi ha detto che in non so quale cultura i cani sono considerati psicopompi, cioè conduttori d’anime. E allora, guardando il cane che guardava i sassi, mi piaceva ricordare un amico ormai scomparso: che si chiamava proprio come il cane di Graziano, e che è la persona a cui devo la maggior parte dei pensieri che qui cerco di tirar fuori, e a cui devo fra l’altro l’amicizia con Vittore, visto che ci siamo conosciuti grazie a lui.
Comunque quest’amico [il fotografo Luigi Ghirri, nota del redattore], facendo una volta il gioco di chi si vorrebbe essere se non si fosse uomini, aveva detto che a lui sarebbe piaciuto essere un sasso, una pietra, e star lì immobile nel tempo. Anche lui naturalmente intendeva sia il tempo che passa che quello atmosferico, perché tutto quello che ha fatto è un insegnamento a considerarli entrambi.
Così ripensando all’amico guardavo con maggior simpatia anche il cane Luigi, m’immaginavo che il cane psicopompo, e l’amico che non c’era più, vivessero davvero nell’anima dei sassi e delle pietre, e nel tempo che non finisce mai e che ci porta il vento, la pioggia che cade.

Essere in un paesaggio terrestre vuol dire allora abitare anche la materialità delle cose, essere nella pesantezza del mondo. Così andavano bene le frane, i sassi, il fango, la terra, i legni bruciati. Ma era paesaggio terrestre pure il mio appartamentino ammobiliato con la tivù in bianco e nero sopra il frigo, e alle pareti una madonna e la stampa col fiume e le montagne, il velluto marrone della poltrona, la bombola del gas. Anche quella era terra.
Ricordo che ogni volta che il frigo s’accendeva o spegneva scuoteva anche la vecchia tivù a valvole abbassandole il volume, e mi veniva in mente quel celebre detto sul battito d’ali di una farfalla che poi diventa un uragano. Il vantaggio di quell’appartamentino ammobiliato era che le macchine della casa erano tutte vecchie e si concentravano in pochi punti. Era un ecosistema semplice, e mi sembrava di non aver bisogno d’altro.

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