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8 Giugno 2017 | Racconti d'autore

Primadonna

Racconto di Patrizio Bianchi tratto dal libro “Verdi e dintorni” (Firenze, Nerbini, 2017) – prima puntata

A cura di Vittorio Ferorelli. Lettura di Fulvio Redeghieri

Economista, docente universitario e assessore regionale alla scuola, alla ricerca, allo sviluppo e al lavoro, il ferrarese Patrizio Bianchi ha dedicato alla sua passione per l’opera italiana una trilogia che è diventata anche spettacolo, con la sua voce narrante e le musiche eseguite dalla Banda giovanile “John Lennon” diretta dal maestro Mirco Besutti. Ve ne leggiamo una parte.

Sipario

Sipario. Si alza la tela.
La scena è vuota
ma dal fondo si avanza lei,

la primadonna,
che prende rapidamente
il centro dello spazio.

La sua voce si alza sempre più alta,
sempre più alta, sempre più alta.
E sono pianti e sono risa,

e il pubblico col fiato sospeso
attende la morte dell’eroina stremata
e innamorata perduta.

«Lascia ch’io pianga la mia cruda sorte»,
canta disperata primadonna,
ma, prima donna non è donna.

La donna del palco era un castrato,
un essere inventato dalla cattiveria umana
per divertire l’umana vanità.

Da bimbi tutti abbiamo una voce squillante,
alta, acuta, cristallina, ma flebile,
una vocina, e crescendo si inscurisce,

diventa un vocione, scuro e grave,
e invece il mito era una voce acuta
ma potente, forte, capace.

Di andare su e giù, come
le onde del mare, come le valanghe
che vengono giù dai monti.

Dal castrato, automa mirabolante,
nasce la primadonna,
regina di un mondo parallelo.

I castrati del resto vengono
dalla tradizione antica della Chiesa.
Nell’antichità romana,

quando le donne non avevano
nessuna presenza sociale,
gli efebi e gli eunuchi avevano

un loro peso nelle società di corte.
Maschi neutralizzati e accessori
attorno alla figura del super macho imperiale.

E la tradizione cristiana
affida ai soli suoi uomini
la relazione con il Dio di tutti

e quindi la celebrazione del rito sacro;
quando il rito diviene collettivo con il canto,
solo voci di maschio possono elevarsi al cielo.

Di qua le rudi voci di basso, espressione della terra,
di là le celesti voci bianche con gli striduli acuti infantili
che si avvicinano all’empireo dei cieli,

meglio ancora se in questo scalare verso il cielo
la voce bianca, simbolo di coltivata innocenza,
viene assistita da un mantice dato da un corpo di adulto.

L’automa mirabolante

E allora via a creare in laboratorio
l’adulto con voce di bimbo, un angelo mostruoso,
che poi passa anche alle rappresentazioni di corte,

dove emergono narrazioni di divinità asessuate,
o multisessuate, libere da ogni bisogno di realismo.
E la voce acuta del soprano si unisce

al volume di chi avrebbe potuto essere
un tenore, un baritono, un basso.
E tutti gli autori scrivono per questa voce

irrazionale, innaturale, immorale,
scrivono inni sacri e musiche
per il nuovo divertimento delle corti,

quella musica con parole
che si chiama melodramma,
che mette insieme gli strumenti,

e sempre di più la voce umana.
E poi tutti gli artifici di scena,
che possono divertire signori e cortigiani,

un mondo di finzioni,
in cui calare l’artificio degli artifici,
la voce che in natura non esiste.

E la voce dapprima usata quasi sussurrata
diventa sempre più esercizio mirabolante
di virtuosismo circense,

la frase viene spezzata,
la parola viene frantumata,
la vocale diventa regina

oooooooooooo, iiiiiiiiiiiiii, aaaaaaaaa.
Si accelerano i tempi, si accavallano
i toni, si moltiplicano i trilli.

E il castrato diventa egli stesso regina,
vezzeggiato, acclamato, odiato
nelle piccole e nelle grandi corti,

dal castello degli Estensi alle corti papali,
in tutta Europa, e anche nei nuovi teatri,
il castrato diventa esagerato,
nella voce, nelle performances, nella vita.

Farinelli viaggia, arriva a Londra,
prende cachets favolosi, poi in Spagna,
nominato dal re Cavaliere di Calatrava,

e Soresino, e Caffarelli, noto per le sue eccentricità;
ma al castrato si riconosceva il diritto all’eccentricità
nel cantare, nel vestire, nelle relazioni amorose,

emblema di un mondo a parte,
da ammirare, invidiare, ma anche disprezzare,
oggetto di un culto sempre in attesa di un nuovo dio.

Lì si trovano le radici del melodramma,
ma lì anche le radici della primadonna,
emblema di un mondo di cui parlare e sparlare,

un mondo a parte con regole morali
diverse da quelle correnti, quelle della gente comune,
che di questo mondo di superstar

vede tutto il proibito e l’esaltato,
l’esagerato, il disprezzato mondo.
Ma a questo mondo domanda

divertimento sicuro, emozioni a orologeria,
passioni acquistabili, facili miti tristi:
la primadonna, superfemmina irreale.

Arriva la rivoluzione

Ma la rivoluzione arriva anche qui
e con la rivoluzione arrivano le persone
e un teatro che rimette in scena

non solo personaggi ma persone vive.
Figaro gioca il suo Conte,
e tutti sono presi in un frullatore

e tutti da una dinamica
in cui tutti giocano insieme, alla pari.
E il cavaliere Don Giovanni è un lazzarone

e il Pascià del Serraglio è il più saggio dei sovrani.
Non più re di antichi regni, o pallide divinità minori,
ma persone, a prescindere da ruoli o generi.

E poi si affaccia il romanticismo
e perfino la sacerdotessa Norma
diviene donna ferita e lacerata.

Ma tra le tende compare il mondo,
i contadini furbi dell’elisir d’amore
le astuzie delle Norine rossiniane.

La povera Lucia impazzita d’amore
tradita dalla stupidità litigiosa
dei suoi maschi guerrieri.

E poi arriva l’opera selvatica di Verdi,
e i suoi eroi sconfitti e le sue eroine disperate
e le sue donne gravide di passioni.

Fino alla più eroica delle eroine,
la disprezzata Traviata che,
uscita dal suo ruolo, ne muore.

Viene la rivoluzione
e basta con i teatri di corte
e basta con i maestri di cappella

e i maestri di cerimonie.
Arriva una nuova borghesia
di bottega, affari e ambizioni

e anche il teatro viene affidato
a un uomo di affari,
l’impresario deve guadagnare

e guadagna facendo divertire il suo pubblico,
la vecchia nobiltà nei palchi di prim’ordine,
ma adesso anche la borghesia rampante,

nei palchi più alti e su in loggione
artigiani e commercianti, e giù in platea
militari e ragazzi metà prezzo.

I proprietari del teatro erano i palchettisti:
vecchie famiglie nobiliari
che si sono messe pure loro in affari,

oppure che si stanno mangiando tutto
a vantaggio dei loro fattori.
A Bologna si dice che il Principe Hercolani

si è giocato alle carte tutto il palazzo,
la sua favolosa quadreria,
e si dice anche la moglie.

Musicisti, impresari e primedonne

Ha vinto un giovane di Pesaro,
Rossini, Gioachino Rossini, nato nel 1792
e figlio di una prima tromba

della banda di Lugo di Romagna
e di una buona, diciamo media, cantante di Urbino.
Il babbo, detto il Vivazza,

era un fervente rivoluzionario
e quindi doveva muoversi
per scappare da una polizia e l’altra.

Torna a Bologna e il ragazzo
tra l’accademia filarmonica, dove canta come contralto
(ma certo in falsetto avendo

accuratamente evitato l’interventino
che avrebbe fatto di lui una stella del bel canto),
e il liceo musicale, impara il mestiere

e a quattordici anni scrive la prima opera,
iniziando una carrierona
che a vent’anni fa di lui già una stella nascente,

tra Bologna, Venezia e Roma.
Ma la stella si consolida a Napoli,
dove incontra l’impresario e la primadonna

che segneranno il suo successo,
Domenico Barbaja e Isabella Colbran.
Bei tipi, sia lui che lei.

[continua]

[musiche scelte a cura del maestro Mirco Besutti]

[una parte dello spettacolo “Verdi e dintorni” è visibile sul canale YouTube della Filarmonica “Guglielmo Andreoli” di Mirandola (Modena)]

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