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25 Settembre 2014 | Racconti d'autore

Quando tutto era ancora possibile

Testo di Emanuele Ferrari tratto dal libro omonimo (Rosolina, Edizioni ABao AQu, 2013).

A cura di Vittorio Ferorelli. Lettura di Fulvio Redeghieri

Scrittore e insegnante, Emanuele Ferrari vive a Casina, un paese sulle colline dell’Appennino reggiano. Nel 2013 ha unito le sue parole alle fotografie di James Bragazzi per raccontare, in undici “immagini”, i ricordi del tempo in cui “tutto era ancora possibile”.

Quattro

Quando tutto era ancora possibile una sera al mio paese era arrivato Gianni Rivera.

Ma non era Gianni Rivera quello del Milan, il Golden Boy Pallone d’oro della prima squadra ad aver vinto la Coppa Campioni in finale contro il Benfica di Eusebio. Era ancora Gianni Rivera, ma era il parlamentare della democrazia cristiana, venuto apposta quella sera perché c’erano le elezioni e la coalizione della democrazia cristiana doveva fronteggiare una strana lista civica che tutti chiamavano la Lista del Pino, dove dentro c’erano un sacco di comunisti cattivi, poi dei socialisti espulsi dal partito, dei socialdemocratici scissionisti e infine degli ex democristiani che avevano tradito la democrazia, almeno secondo quelli della democrazia cristiana.

E la cosa strana era che per mio padre Gianni Rivera era il suo idolo assoluto, almeno in fatto di calcio.

Mi diceva sempre che se mio nonno Lelio avesse detto sì agli agenti del Milan che volevano portare mio padre a Milano, dopo averlo visto a quindici anni giocare nel Guastalla, dove studiava in seminario, se mio nonno Lelio avesse detto sì, forse mio padre, se le cose andavano come dovevano andare, sarebbe diventato un compagno di squadra di quel Gianni Rivera lì, Pallone d’oro della democrazia cristiana.

Mentre mio padre mi faceva questi discorsi io pensavo a diverse cose. La prima ad esempio era che anche per me, anche se non l’avevo mai visto giocare, se non in vecchi filmati registrati, Gianni Rivera era il mio idolo. La seconda invece era che se mio nonno Lelio avesse detto sì e mio padre fosse diventato compagno di squadra di Gianni Rivera, io forse non sarei neppure venuto al mondo e quel giorno non avrei neanche potuto chiedere a mio padre di portarmi quella sera al Bar Centrale a sentire il comizio di Gianni Rivera, per chiedergli alla fine un autografo.

Ma la cosa ancora più strana è che mio padre, quella sera di Gianni Rivera, non poteva essere con me al Bar Centrale, perché infatti mi aveva detto che certamente io ci potevo andare a sentire Gianni Rivera, ma che lui non poteva e forse sarebbe arrivato soltanto dopo, alla fine forse, e una cosa del genere io pensavo che non poteva proprio accadere, mai.

Invece mio padre era finito non si sa come dentro quella lista civica capeggiata da vecchi comunisti cattivi che tutti chiamavano Lista del Pino, e quella sera avevano anche loro un comizio, ma da un’altra parte e lui poi in quella lista era anche il democristiano che aveva tradito la democrazia e insieme a lui c’era anche mio zio Neno, che era poi il socialdemocratico scissionista e alla fine con loro c’era anche il mio professore di matematica, il socialista espulso dal partito.

Qualche settimana dopo la sera che avevo ascoltato Gianni Rivera fare il suo comizio e avevo preso il suo autografo, ci furono le elezioni e una marea di gente si trovava in piazza al lunedì pomeriggio, quando stavano scrutinando le ultime schede elettorali ai seggi della vecchia scuola elementare. Tutta una marea di gente, come per le gare di biciclette o macchine sportive, proprio di fronte al Municipio e ai giardini. Tutti o quasi a confabulare dicendo che la lista di Gianni Rivera aveva perso inaspettatamente le elezioni e una roba così, un ribaltone come quello non s’era mai visto nella storia delle elezioni del mio paese e la cosa definitivamente più strana era il fatto che i più votati di tutti erano stati nell’ordine: mio padre, traditore dei democristiani, mio zio Neno, socialdemocratico scissionista, e il mio professore di matematica, socialista espulso dal partito, chissà perché.

Cinque

Quando tutto era ancora possibile mio zio Neno, il sabato mattina, verso la fine della mattina, veniva a casa mia, salutava mia nonna e mi trovava quasi sempre ad aspettarlo in sala, di fronte allo stereo con il giradischi, a volte con un disco già in mano.

Io mi ricordo che la musica me l’ha fatta scoprire lui, mio zio Neno, quei mattini di sabato, a fine mattina, quando tornava dal Municipio o dalla piazza e prima di mangiare insieme a noi, veniva ad ascoltare la musica allo stereo. C’erano dei giorni che gli chiedevo di usare anche una grande cuffia bianca, e allora la cosa strana era che mio zio Neno mi prendeva sulle ginocchia e mi metteva la grande cuffia e io ascoltavo Bob Dylan, i Beatles o i Rolling Stones, e lui ascoltava me che ascoltavo e forse quella musica lì, che mi suonava nelle orecchie, dentro la cuffia bianca, lui se l’immaginava soltanto o la sentiva lontanissima, tenendomi sulle ginocchia e rimettendomi giù solo alla fine del brano o del disco. Poi, quando io mi toglievo la cuffia e gliela mettevo, e tornavo a giocare con le mie cose o con mio fratello, lo vedevo che calzava bene la cuffia e chiudeva gli occhi e iniziava a canticchiare quella musica lì.

In questo modo io ho scoperto Mozart, Bach e Beethoven, ma anche Lucio Battisti e l’Equipe 84, De Andrè, Santana e certi cantanti francesi con delle voci che sembravano fatte di un vento sottile, oppure di fumo di sigarette consumate sul posacenere. Tutta la musica passava dentro quel giradischi e nello stereo che avevano regalato ai miei genitori quando si erano sposati, pochi mesi prima che io nascessi.

Alla fine della musica capitava ci fosse ancora del tempo, prima di mangiare, e allora mio zio Neno iniziava a raccontare qualche episodio dell’Odissea, o dell’Iliade, come la storia di Achille e Teti, del cavallo di Troia, o anche qualche altro mito greco, come Teseo e il Minotauro, Medusa e Perseo. Anche quando raccontava queste storie, a me sembrava che le parole di mio zio Neno suonassero come musica del giradischi, suonassero per tutta la stanza, fino a quando mia nonna diceva che era pronto il risotto e in quel momento io mi accorgevo erano arrivati a casa anche i miei genitori, mio padre dalla scuola e mia madre dal Municipio, dove aveva iniziato a lavorare che aveva appena più di diciott’anni, pochi mesi dopo la morte di suo padre, che poi è anche il padre di mio zio Neno, mio nonno Azio.

[…]

Sette

Quando tutto era ancora possibile Ciro dal Casaleo si presentava al bar con il suo cappello grande e ordinava delle grappe. Ne chiedeva almeno due. Poi si sedeva a un tavolo e con il cappello grande iniziava a parlare di qualcosa da solo.

Una volta, in un bar d’una sperduta frazione del mio paese, avevano fatto anche una scommessa con Ciro dal Casaleo, per via delle grappe. Avevano fatto mettere dal barista sul bancone dieci bicchieri con dieci grappe, mi raccontava il mio amico Maccedone, e la scommessa era che se Ciro dal Casaleo le beveva tutte, allora prendeva dieci euro per grappa e se invece non ce la faceva a berle le doveva pagare tutte lui.

Ciro dal Casaleo, dicono che prima di accettare abbia messo una mano in tasca e siccome in tasca non aveva niente e in questo niente non c’era neanche un soldo, aveva detto sì, che lui ci stava a fare questa scommessa, ma solo a una condizione, che se beveva o non beveva tutte le grappe che c’erano sul bancone, almeno uno di quelli che scommettevano contro di lui lo doveva portare a casa, perché Ciro dal cappello grande era venuto a piedi in quella sperduta frazione, e ora non gli piaceva per niente il fatto di dover tornare a casa di notte, sempre a piedi, e anche con almeno o quasi dieci grappe bevute nello stomaco.

Il mio amico Maccedone racconta poi che quella sera, nel bar sperduto d’una certa frazione, Ciro dal Casaleo ha bevuto tutte le dieci grappe una dietro l’altra e ha vinto così un discreto rotolino di soldi. Poi ha detto che doveva uscire un attimo a fare due gocce d’acqua e che lo aspettassero perché avevano promesso, quelli della scommessa, che uno di loro lo portava a casa.

Quelli della scommessa fanno sì con la testa e si mettono ad aspettarlo. Ma dopo un po’ che non lo vedono tornare escono anche loro, raccontava il mio amico Maccedone, e si mettono a cercarlo, anche se uno come lui, come Ciro dal Casaleo dicono, può essere andato chissadove a fare due gocce, o anche può essere che gli è preso il prillo e s’è incamminato a piedi di notte per tornare a casa.

Dicono proprio così quelli della scommessa, può essere che a Ciro gli ha preso il prillo.

Allora dopo che l’hanno cercato in lungo e il largo, quelli aspettano ancora un po’ nel bar sperduto, ma viene l’ora di chiusura e allora, quelli della scommessa, mi raccontava sempre il mio amico Maccedone, dicono che tornano a casa e chi s’è visto s’è visto.  Dicono proprio così quelli della scommessa, chi s’è visto s’è visto.

Il giorno dopo Ciro dal Casaleo lo trovano che dorme in un fienile tutto beato, con in tasca il suo bel rotolino di soldi.

Ciro da Casaleo poi, un giorno hanno iniziato a chiamarlo Ciro della Strada, perché non abitava più al Casaleo, ma in una casa vicino a un posto che si chiama La Strada, una casa proprio sulla strada, quella di Ciro dal Casaleo, anzi di Ciro della Strada.

Che nessuno o davvero pochi sapevano come ci fosse capitato nel mio paese, Ciro della Strada, con il suo cappello grande le grappe e le parole che parlava da solo. E alla fine, come è arrivato è anche andato via, Ciro della Strada, che se non ricordo male un giorno, erano passati un bel po’ di giorni e nessuno lo vedeva più in giro, qualcuno ha pensato di andare a vedere a casa sua e quello che ha visto era soltanto quello che rimaneva di Ciro, senza cappello grande, senza grappe, senza più parole da parlare da solo, e anche senza scarpe, come direbbe qualcuno.

Ciro dal Casaleo e Ciro della Strada senza più Ciro, senza più niente.

Brano corrente

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