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25 Aprile 2021 | Racconti d'autore

Ritornò il giorno

Testo tratto dal libro “Giuseppe in Italia” di Giuseppe Raimondi (Bologna, Pendragon, 2021)

Vittorio Ferorelli

Pubblicato nel 1949, e ora riproposto dalle edizioni Pendragon, “Giuseppe in Italia” è l’autoritratto, frammentato in immagini e ricordi, di Giuseppe Raimondi, artigiano, scrittore e critico d’arte bolognese, che fece del suo negozio di stufe in piazza Santo Stefano un ritrovo per artisti e letterati. Venne scritto durante la Seconda guerra mondiale, quando dovette rifugiarsi a Portomaggiore con la famiglia, e si conclude con il racconto degli ultimi mesi di oppressione, fino alla liberazione di Bologna. Vi facciamo ascoltare i capitoli finali, letti dall’attore Faustino Stigliani.

Capitolo XXXVII

Quello che ci rende inquieti è l’incertezza sul momento della fine. Anzi, la disperata ignoranza. Si vorrebbe essere preparati. Non che Dio ci spaventi; una parola l’avremo, un accento sincero della nostra speranza; ma l’ansia di non essere stati pietosi con gli uomini. I mattini, alla metà di giugno, dopo che l’alba s’è alzata da un letto di stanchezza, sono vasti e incerti. Si porta con noi, sul treno sudicio, un’umida tristezza della notte. La terra, coperta di verde freschissimo, è indifferente all’angoscia degli uomini. Verso Molinella, attraverso le colture ordinate di riso e frumentone, i limpidi, piatti canali specchiano le mobili nuvole bianche rosate. Il rosa delle nuvole è come il primo caldo della giornata. Attenti a raccogliere questo incipiente tepore salutare, i passeggeri stendono le gambe, seguono i fili di un sogno senza piú trama, accompagnano pigri le battute di un dialogo. È un’ora innocente; l’uomo si ricorda dell’infanzia.
Il mio amico comunista, spettinato come i ragazzi che s’alzano troppo presto, aveva gli occhi di un’acqua azzurra e chiara. Limpida acqua di torrenti friulani e dolomitici. Parlava, nel ron-ron del treno scosso da sobbalzi sonnacchiosi. Mi piace assistere alla corsa fiduciosa e rapida delle sue parole, in cui trepida, piú che un pensiero lungamente sostenuto, la salute e l’impazienza di una razza popolana. Osservo la violenza serena della sua passione politica, con una paterna pazienza, fin sproporzionata, per i dieci anni che ci separano nel tempo. Tra la Guarda e Mezzolara sono le distese infinite di grano giallo e alto, chiuse all’orizzonte dai filari di pioppi, sotto i quali s’indovina un piccolo canale, un poco d’acqua. «Il Partito» egli dice «realizza ogni nostro ideale di libertà. In lui veramente ha principio e fine la vita di un uomo, di un comunista. Non so cosa sia stato il mondo prima di noi. E non so cosa sarebbe la mia vita senza quella dei miei compagni. Siamo una cosa sola; e non ci accorgiamo neppure di volerci bene. Il lavoro di Sezione non ci lascia troppo per la fantasia…». Guardando dal finestrino nella campagna, dove il sole, già alto, metteva ombre piú nere, azzardavo: «È la fantasia, invece, che lascia inquieta la libertà. La mia libertà si alza, ogni giorno, con esigenze nuove. Con lei, non ci si intende mai». Mi interruppe l’amico: «Libertà, libertà… Io mi ci perdo; ho bisogno di limiti. La mia libertà è nel presente». «La mia, nel passato e nell’avvenire». Il treno caricò, alla stazione di Mezzolara, un ufficiale fascista, che accompagnava la moglie; una magra, incipriata, linfatica donna, dal vestito a grossi fiori lilla, neri e bianchi. Un passeggero, rivolgendosi a uno che entrava chiese che giorno era: «Il 17 giugno» rispose questi.
Il treno s’era rimesso in cammino, composto di tre vetture e la macchina, marciando lento e curvo tra i campi di grano. L’amico comunista parlava, e il sole metteva una voglia di sonno. Fu allora che dei colpi, qualcosa d’insolito prese ad attraversare il treno. Subito ci avvedemmo di scoppi, brevi, rapidissimi, in mezzo a noi. Si pensò ai partigiani. Erano spari, sibili piú lunghi, di proiettili. Ora frequentissimi. Con l’amico ci buttammo, distesi, sotto il sedile. Dalla parte di fondo della vettura, entravano adesso i proiettili che s’accendevano, in un disegno ordinato, geometrico, tracciando un aereo ricamo di fuoco. Il treno si fermò, ebbe un trasalimento; e allora dall’interno si alzarono i primi gridi, i richiami, dopo attimi interminabili di un silenzio mortale. In quel momento s’intesero i motori di apparecchi, e l’ombra fugace di un’ala di aereo ci passò sul viso, che era rivolto in alto. La mitraglia aveva ormai traforato il soffitto di legno, che bruciando puzzava orrendamente. Ci alzammo per saltare dal finestrino. Un rivoletto, un cordone di sangue mi passava sotto la gamba. Era l’ufficiale fascista, cui la moglie, silenziosa, reggeva un involto sanguinoso che sporgeva dal ventre. Egli taceva, senza sguardo. Saltammo. Tutti fuggivano dal treno, che bruciava nell’ultima vettura, la nostra. Come i topi inseguiti dal cane di campagna. I due caccia sparivano all’orizzonte. In una fattoria medicavano i feriti. Distesero alcuni morti, grigi, segnati di rosso, sull’aia; li coprivano con le grosse tele ingommate. Un odore di semi di canapa; delle nubi bianche nel cielo grigio; il sole batteva sul legno dei carri, sugli strumenti abbandonati nell’aia. Partiva qualcuno sulle biciclette che trillavano di campanelli nel mattino. In un barroccio, tra casse di pesche e di susine (rosso, giallo, azzurro), issavano i morti, chiusi nelle tele. La macchina prese a fischiare; e nell’aria trasparente e gioiosa del mattino sembrava, dopo quell’ora confusa di morte, un invito deciso alla vita.
Il piccolo treno, ripulito alla meglio dal sangue, ridotto a due vetture, ripartiva. Pochi erano i passeggeri; si guardavano, con un lento sorriso, quasi per riconoscersi, e ricordare. L’amico non mi accompagnava. Appoggiato alla porta, guardavo nella campagna dove il grano giallo, sotto il sole, pareva grigio; e sentivo di abbandonarmi col cuore al sonno. Solo l’orecchio non voleva dormire. E nel ronzio del treno mi parve di afferrare, in qualche parte, un respiro, il fremito di una corsa, l’ansia di una volontà nemica. Uscii nel terrazzino. Il treno correva adesso tra coltivazioni di granturco. Distinsi il rumore di apparecchi; li cercai, li scorsi; giungevano rapidissimi; precipitavano dalle bianche nubi. Erano i due del mattino. Mi buttai dal treno, che in curva rallentava.
Dalla scarpata, strisciai in mezzo al granturco. In quel momento cominciava il ta-ta-ta dei colpi fitti, continui, incalzanti. Guardai il treno, già fermo; bruciava in un urlo di uomini. Qualche scampato correva nei campi. In uno scoppio di bomba, saltò la macchina. Gli aerei compivano adesso, con calma e precisione, una ronda di fuoco sul cerchio di morte. Volavano a venti metri, sfiorando i pioppi dei sentieri. Sparavano, quasi seguendo un ritmo musicale. Dal granturco della scarpata cercai di portarmi verso la campagna. Alzavo appena il capo; e i proiettili falciavano la cima delle canne verdi fiorite, tra piccole fiamme rosse e gialle. Ripiombavo col viso nella terra. Tra il rombo degli aerei, che frastornava, un ragazzo, un altro scampato, mi chiamava, affondato nel terreno; diceva: «Non si muova». Mi allungò una mano, che io strinsi. Cosí, lentamente, incominciammo a strisciare verso un’ombra, dove erano gli alberi. La terra era ancora fresca della notte. Odorava. Sentii la mano, che stringevo, assottigliarsi, farsi piú piccola, e fredda. Chiamavo lo sconosciuto; lo cercai nel volto, tra le canne. Sanguinava dal capo; gli occhi spalancati. Correvo adesso, inorridito, le gambe rotte, di albero in albero, gli occhi in alto. Mi buttavo nei fossi, schiacciandomi; come fanno i cani. La mitraglia, dal cielo, inseguiva, spietata, attentissima. I proiettili scheggiavano gli alberi; la scorza odorava di verde. Non finiva mai. Giunsi a un pagliaio; lo sguardo stravolto, cieco dal sole, vedevo i due apparecchi filare rapidi lontano.
A che pensa l’uomo in pericolo di morte? Io non mi ricordo. Un momento solo vidi la minore delle mie bambine dormire e sorridere, sotto una tenda verde, presso il mare. Ero felice, mi ricordo. Sotto il granturco verde, la luce filtrando era verde. La bocca urtava la terra, di un arso sapore di sale. A specchio di quel verde, gli scoppi accendevano fiammelle rosse, come in una festa pirotecnica. Sarei morto felice, immemore di ogni altra cosa.

Capitolo XXXVIII

L’attacco alleato sul fronte d’Alfonsine era iniziato. Fu una notte di luna, del principio d’aprile. Il cielo era ancora un velo di luce del giorno. D’improvviso si scosse, tremò. Il cielo sembrò gonfiarsi, premere verso di noi. E si vedeva che soffriva. Prima del suono, avvertimmo lo spazio spostarsi. Il suono venne dalle profondità riposte della terra; era di un fragore vasto, mostruoso, elementare. Incominciava la famosa azione d’artiglieria. È una tecnica apocalittica; una psicologia protestante. Crollava il mondo. Avevamo peccato; l’Inferno si apriva per noi. Quanto durò? Una notte eterna. La luce; la vera luce degli uomini, non sorgeva piú. L’avevano uccisa. Pure, ancora una volta, ritornò il giorno. Dissi a mia moglie, che con le figliuole radunava gli oggetti dispersi nella notte: «Bisogna partire».
Sul camion fu collocata tutta la nostra casa. Mobili; casse, sacchi. Al centro, un corridoio, come una trincea; dove noi stavamo. Tutto intorno una corazza di libri. I miei vecchi libri; divenuti un muro. Verso le otto di sera non è ancora notte. Sulla piazza del paese erano convenuti i parenti, i conoscenti. Guardavano con muta compassione. Le vecchie facevano scongiuri. Ci salutavano, per l’ultima volta. Portavo con me, liete come vi eran venute, le esistenze dei miei cari, per continuare con loro la vita. Alle nove eravamo in vista del Reno. Si vedevano le spoglie di macchine; le carcasse bruciate. Ogni pezzo di lamiera, bucato, trapassato. Si risaliva la strada, da Santa Maria verso Molinella. La campagna era deserta. Dai casolari, qualche filo di fumo. Verso oriente s’accese una luce rossa, nel cielo; e infinite altre, dopo. Una vampata di fuoco, nel cielo. Si apriva su di un ponte del Reno. Si udí il rumore, ordinato e denso, delle formazioni. Il rombo si avvicinava; era su di noi. Il suono era pesantissimo. Stava sul cuore, enorme. Seguivo con l’occhio i bengala. Una bianca luce, sull’aia; come per una festa. Finalmente, sganciarono; fu un respiro. Le bombe andavano; andavano, lontano da noi. Saltava il ponte, presso Argenta. Il traghetto era libero. Fu una corsa. Nella luce che ancora restava; ma meno bianca; ci guardavamo, in silenzio; mia moglie, le mie bambine. Gli apparecchi ripassarono; rapidi; e come felici. Giungeva il fumo degli incendi; e l’eco d’una campana, da qualche paese. Confrontata alla vastità della notte, al suo profondo riposo, la morte di uomini è cosa brevissima. L’alba fu quella del 19 aprile.
Credo che passammo i primi due giorni, in città, dormendo. Distesi, ammucchiati; sui materassi. Tra casse, pezzi di mobili. Valigie rigonfie, e aperte. Ci accampammo nella mia officina.
Una società si sfascia quando l’ipocrisia di chi l’ha fomentata, e mantenuta con l’ingiustizia, giunge a ripudiarla. Nella notte del 20 aprile si mise un vento improvviso, che soffiava sotto i portici, nelle piazze deserte. Non potevo dormire. Incominciai a numerare gli automezzi che passavano. Ed era un passaggio insolito. Venivano dalla via di Firenze, diretti verso il nord. Piazza di Santo Stefano è nel cuore della città. Devono passare di qui, per forza. Nel buio, sentivo gli uomini aggrappati, stipati, sulle macchine. Cosí fugge un Regime. I gregari s’affidavano alle loro gambe. I passi, per la via Farini, erano dirotti, e affannosi. A uno sfuggí un’arma; e non la raccolse. I rimbrotti dei compagni. Nessuno accendeva fanali, o luci. Volevano il buio; si sentivan protetti nella fuga. Portoni sbattevano; si sprangavano cancelli. L’alba non arrivava mai.
Verso mattina, m’appisolai; piú seduto sul letto che disteso. Mi parve, nel sonno, di sentire un rumore di carri; e corse di uomini. La luce del mattino filtrava, verde, dall’apertura sul negozio. Una voce lontana, poi vicina, avvertiva: «I polacchi; i polacchi». Corsi nella strada. Da Santo Stefano scendeva un gruppetto di soldati; quattro o cinque; dei borghesi li accompagnavano. Uno diceva: «Di qui».
Recavano sacchi, zaini; e borracce ricoperte di panno. A cinquanta metri, seguivano altri due. Uno reggeva una piccola bandiera. I colori: rosso, bianco, blu splendevano nella luce già alta. Silenziosi gli uomini; le armi appoggiate alla spalla, guardavano in giro; pieni di sonno. Durò quel silenzio, stupefatto, per qualche minuto. Dei giovani arrivarono di corsa, svoltando da via Farini; e due donne, dalla casa del fornaio, nella Piazza. Un vecchio; non ricordo, se il fabbro di vicolo dei Pepoli; o un imbianchino, soprannominato Gabitto; il vecchio ruppe quel silenzio, quell’ansia muta; e gridò: «Viva l’Italia». Una delle donne, aggiunse subito: «Viva i polacchi» e li rincorreva, offrendo dei pani dorati; che quelli rifiutavano.
Da quel momento, non posso distinguere dove il ricordo si riferisce alla realtà, o al sogno. Ero in Piazza Maggiore; e vidi issare sul balcone di Palazzo la piccola bandiera polacca; si affiancò subito una francese. Altre bandiere si aggiunsero. I balconi si riempivano di gente. Gli uomini cantavano. Un gruppo d’armati scortava militari tedeschi. Furono addossati sotto il portico del Podestà; dove adesso è il mercato delle sigarette. Erano senza le scarpe. Volevano ridere. Nessuno rideva. Tornai in officina. Piazza Santo Stefano era il punto di passaggio delle truppe. I cittadini correvano; i soldati andavano lenti. Poi i camion; le autoblinde. Gli americani, con la reticella sull’elmetto schiacciato. Erano canti; gridi; invocazioni. Gli amici nascosti, ricomparivano; tutti erano sulla Piazza. Le donne coi bambini; la vedova di Quadri. Dissi a mia moglie: «Sediamoci sui gradini della chiesa». Prendemmo la Rosetta con noi. Il passaggio, quanto durò? Mi dimenticai del tempo. L’allegria e la meraviglia si fusero in qualcosa di vasto, potente e concorde; come un rombo. E mi sembrò che tutto piombasse in un silenzio di sogno. L’Italia intera era sulla Piazza. Tra le ruote dei carri si infilavano i ragazzi. Passarono i ricordi; e le pene; e l’attesa infinita. Passò mio padre, un poco stanco; e gli amici di mio padre: i due Zanardi; il tipografo Luminasi. Mio zio; col vecchio Buggini, il pittore Vezzani; e Malatesta, col suo passo di vagabondo. Passò Quadri, con le spallucce rialzate; e Masia, con l’inseparabile bicicletta. E tutti gli sconosciuti incontrati un giorno; quelli con cui si è scambiata un’occhiata, davanti a una radio, o al passaggio dei gerarchi. Ci riconoscemmo.
Rialzai mia moglie; presi la bambina per mano. Il sapore incredibile della speranza si scioglieva dentro di me. Chi non credeva piú nella libertà? Il sole d’aprile illuminava le case con semplicità. Gli italiani marciano modesti, pensando alla felicità; senza credervi troppo. Entrammo nel corteo; nella colonna interminabile di gente. Le musiche venivano da lontano. Si camminava, portati dal popolo.

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Immagini
Liberazione di Bologna, 21 aprile 1945

Musiche
Yiannis Spanos – “Mia fora thimamai”
Fabrizio De André – “Disamistade”
Modena City Ramblers – “Bella Ciao”

Brano corrente

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