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30 Giugno 2011 | Racconti d'autore

Ritratto di signora

di Vittorio Ferorelli (seconda parte)

A cura di Claudio Bacilieri. Lettura di Fulvio Redeghieri

30 giugno 2011

Questo racconto di Vittorio Ferorelli, giornalista e caporedattore di “IBC”, la rivista dell’Istituto per i beni culturali della Regione Emilia-Romagna, è ispirato a un clamoroso fatto di cronaca che risale al febbraio del 1997, quando a Piacenza, nella Galleria Ricci Oddi, venne rubato un prezioso quadro a olio realizzato tra gli anni Dieci e Venti dal grande artista viennese Gustav Klimt. La tela, che vantava già una storia piuttosto misteriosa, risulta tuttora introvabile

Ritratto di signora
di Vittorio Ferorelli

Quanto ero stupido, ricorda l’uomo.

L’appuntamento in piazza era stata una sua idea.

Appena svegliati, avevano fatto l’amore.

“Ci vediamo di fronte a San Marco” aveva detto uscendo dalla stanza.

“Come Gustav quando incontrò Alma”.

Lei aveva sorriso, coprendosi la bocca con il lenzuolo.

Lui le aveva raccontato la storia di un pittore austriaco dagli occhi di fuoco.

E di una ragazza molto più giovane, conosciuta in un parco di Vienna.

Li univa la passione per la musica e la danza. Li attirava la bellezza.

Li divideva solo l’età e la morale dei benpensanti.

Così Gustav l’aveva seguita fino a Venezia.

E in quella piazza lei era sfuggita al controllo della madre.

E lui l’aveva baciata sul collo, sulla bocca e sugli occhi.

Soli, in mezzo a centinaia di persone sconosciute.

Senza essere visti da nessuno.

Io e lei. Come Gustav e Alma.

Lo aveva immaginato mentre erano nudi.

Il suo corpo di uomo già un po’ opaco.

Sopra quello di lei, ancora luminoso.

***

Dall’antico vulcano, alle spalle della casa, scese giù una folata di brezza.

Il sole era calato da mezz’ora, ma il calore del giorno, accumulato dalla lava, si faceva ancora sentire.

– E com’è che avvenne il furto? – chiese Peppino.

– Era l’inizio dell’anno. Febbraio, mi pare. Nella Galleria c’era un gran viavai, perché di lì a qualche giorno, nel pieno centro di Piacenza, avrebbe aperto una grande mostra. E una delle attrazioni principali era proprio il ritratto di Klimt. Che a quel punto tutti chiamavano il “doppio ritratto”. I trasportatori andavano e venivano. A un certo punto, qualcuno si accorse che il quadro era scomparso: non c’era più da nessuna parte. Il direttore della Ricci Oddi si precipitò a fare denuncia. E io iniziai a coordinare le indagini dei Carabinieri.

– Il mitico Nucleo tutela.

– Come no? Al comando, a quell’epoca, c’era ancora Conforti. Il leggendario Conforti. Un vero

segugio, uno che non mollava mai. Insomma, ha inizio la caccia. E cominciano a venir fuori delle cosette interessanti…

– Ossia?

– Tanto per gradire, il furto non è avvenuto il giorno della denuncia, ma almeno tre o quattro giorni prima. Ce lo dicono i custodi, dopo essere stati torchiati a dovere. Un operaio in cassa integrazione, uno di quelli arruolati per rafforzare la sorveglianza, si era già accorto della mancanza del quadro e aveva avvertito i custodi, quelli “veri” per così dire. Ma loro lo avevano liquidato in fretta, dicendo che, “di sicuro”, qualcuno lo aveva già portato via per la mostra.

– Un bel vantaggio, per i marioli!

– Già! E una bella rogna per i custodi, che si beccarono, liscio liscio, un avviso di garanzia.

– Sospettavate di loro?

– E si capisce! Non potevamo fare altro. Quel quadro era assicurato per due miliardi di lire. Le quotazioni dei Klimt erano altissime. Quindi passammo al setaccio tutto il personale. Perquisizioni nelle case, interrogatori a fondo… Sentimmo anche i loro familiari. Tutto il repertorio, insomma. E ti assicuro che i Carabinieri ci sapevano fare. Ma alla fine non è venuto fuori niente. A parte la negligenza, si intende.

– E i sistemi di sicurezza?

– Un disastro. Pensa che, qualche anno prima, c’era già stato un furto. Una storia che sembra una barzelletta. Sparisce il quadro di un certo Bottero. Il ladro entra e prende solo quello. Poi, qualche mese dopo, i Carabinieri lo acciuffano e scoprono l’arcano: aveva letto male la targhetta sulla cornice. Pensava che fosse un’opera di Botero, con una sola “t”. Te lo ricordi? Il pittore sudamericano che a quell’epoca andava di moda.

– Quello con le chiattone.

– Proprio lui.

Dalla cucina cominciava a sentirsi il profumo dei peperoni arrostiti. I due uomini inalarono all’unisono. Ed espirarono estasiati.

– Ma la dinamica? – chiese Peppino. – Come diamine hanno fatto a portarselo via, quel mammozzone?

– Tieni conto che parliamo di un ritratto. Il lato più lungo non arrivava a un metro. La cosa più pesante era la cornice. E infatti il ladro l’ha lasciata nel museo.

– Attaccata al muro?

– Macché. Staccata e abbandonata. E qui c’è un’altra cosa interessante. Le stanze del museo sono illuminate dalla luce naturale. Però, per evitare che il sole batta sulle opere, c’è un bello spazio tra velario e lucernario.

– Una specie di intercapedine?

– Benissimo. Ed è lì che è stata ritrovata la cornice. Ma la cosa strana è proprio questa: quello è un posto in cui si arriva attraverso una porta nascosta, e poi c’è una scala interna. Solo gli addetti del museo le conoscevano. Ma quelli, col furto, con c’entravano.

– Quindi i ladri sono passati dal tetto.

– All’inizio lo abbiamo pensato. Mi ricordo che i giornali citarono quel film con Melina Mercouri, come si chiamava…

– Topkapi.

– Esatto. Insomma, una scena come Mission impossible. Il cavo che scende… Il tipo atletico a testa in giù… Il complice che butta sudore mentre tiene la corda…

– E invece?

– E invece le cose andarono in maniera più semplice. Quasi certamente, chi ha staccato il quadro dal muro se l’è portato in quel posticino appartato e lo ha liberato dalla cornice. E poi, come se niente fosse, lo ha arrotolato e se n’è uscito dalla porta principale.

– Magari approfittando del momento in cui l’allarme era disinserito. Mentre i facchini portavano fuori le opere per la mostra.

– È quello che abbiamo pensato pure noi. Ma nessuno potrà dirlo con certezza. Nessuno, tranne il ladro.

– Che non si è mai fatto vivo?

– Mai.

***

I veri giapponesi non hanno niente sulle pareti.

L’uomo piega le labbra sottili in un mezzo sorriso amaro.

Ripete la frase di Van Gogh e guarda di nuovo intorno a sé.

Il ritratto che lui le ha regalato molti anni fa non è mai stato appeso.

L’uomo che glielo ha dato gli aveva consigliato di non esporlo.

Ma lui non lo avrebbe fatto comunque.

Disegni e preziosi li teniamo nascosti dentro i cassetti.

Van Gogh lo sapeva bene.

Lo aveva fatto incorniciare nel modo più semplice.

Il giorno designato l’aveva bendata e l’aveva condotta per mano in quella stanza, mettendola davanti al cavalletto.

Aprendo gli occhi, lei era rimasta fissa.

Non aveva detto una parola.

A quel tempo, lui già non comprendeva più la sua lingua.

Nessuna delle sue reazioni era quella che si era immaginato.

Avrei dovuto capirlo da allora, pensa l’uomo.

Guarda fuori dalla grande finestra chiusa.

Il cielo tra i palazzi è di un grigio compatto.

Il colore spento del cemento gli toglie il fiato.

Gli ricorda le mura di uno dei suoi depositi.

Uno qualsiasi degli edifici che possiede in quella città.

Prova a ricordare dove si trova ora il suo quadro.

È al sicuro nella sua cassa di legno, pensa.

Prova ancora a ricordare dove.

È coperto dalla seta.

L’uomo guarda le pareti vuote intorno a sé.

Deglutisce.

Una morbida seta bianca.

***

– Quindi il caso è ancora aperto, – riprese Peppino.

Prima di rispondere, Antonio fece passare qualche secondo.

Man mano che procedeva nel racconto, la sua posizione sulla sedia era cambiata. Nei punti cruciali, mentre rievocava i primi passaggi dell’indagine, si era più volte piegato in avanti verso il suo amico, mettendo i piedi per terra. Adesso era appoggiato allo schienale, con le gambe allungate e lo sguardo verso il mare.

– Veramente, quando ci penso, preferisco dire che il caso è ancora chiuso. Perché, in fondo, se ci pensi bene, è come se non si fosse mai aperto. Forse non siamo stati capaci noi a fare l’indagine. Forse sono stati più bravi loro. Comunque sia, quella storia non ha fatto più un passo. Né avanti, né indietro. E a me mi è rimasto un sapore di bruciato in bocca.

– Ma qualche ipotesi l’avrete fatta, no?

– Ah, quelle non mancano mai! All’inizio, proprio nei primissimi giorni, circolò una voce. Era stato tutto uno scherzo, dicevano: qualcuno voleva dimostrare che il sistema d’allarme era da buttare. Ma sono i classici pannicelli caldi, quelli che ti metti addosso per rassicurarti. Noi, piuttosto, speravamo che prima o poi saltasse fuori una richiesta di riscatto.

– E nessuno si è fatto vivo?

– Nessuno. A parte i soliti mitomani. Un giorno, alla fine di marzo, ci hanno chiamato dalla frontiera di Ventimiglia. Qualcuno li aveva avvertiti che nella stazione del paese c’era il nostro quadro, lasciato sopra un sedile della sala d’aspetto. E in effetti un quadro c’era. Dal fax che ci inviarono sembrava proprio il Ritratto di signora. Abbiamo mandato subito un perito, ma quello, quando lo ha visto, si è messo a ridere.

– Era un falso?

– Anche ben fatto. E quel giorno era il primo di aprile.

– Che figli n’drocchia!

– E che vuoi fare? Almeno ci siamo fatti una mezza risata. A denti stretti, naturalmente.

– E, da allora, avete saputo niente più?

– Niente. Niente di niente. L’ipotesi rimasta in piedi è quella che all’inizio avevamo scartato. Troppo romanzesca, pensavamo. E invece, forse, è andata proprio così. Un furto su commissione, per qualche ricco collezionista. Del resto, un quadro così, difficilmente si vende.

Antonio smise di parlare, ma Peppino capì che era solo una pausa e rimase in silenzio.

– Magari, – riprese Antonio – un giorno quel tizio si stufa e rimette in circolo il ritratto… Io dico: che te ne fai, di tanta bellezza, se non puoi condividerla con qualcuno?

I due uomini rimasero in silenzio per qualche secondo.

Dopo la curiosità iniziale, Peppino aveva sentito crescere una sensazione diversa. E adesso avvertiva che il suo vecchio amico provava qualcosa di analogo. Come uno che, stando nella stessa casa da anni, e credendo di conoscerla a fondo, si siede in un angolo e si accorge che la solita stanza, vista da lì, ha un aspetto nuovo.

Era la prima volta che Antonio gli raccontava qualcosa del proprio lavoro. E forse entrambi cominciavano a sentire quanto era stato assurdo quel riserbo durato così a lungo.

In quel momento entrarono le donne. Giovanna portava una terracotta piena di peperoni rossi. Sembravano tanti piccoli pezzi di corallo, magicamente ammorbiditi dal calore del vulcano.

I due uomini si alzarono dalle loro sedie.

Peppino prese posto a capotavola, accanto a sua moglie. Antonio si avvicinò a Giovanna, che in piedi attendeva il momento per dare finalmente inizio alla cena. Guardandola con intenzione, socchiuse gli occhi e inspirò l’aria davanti a lei.

– Che meraviglia! – disse.

E la cena ebbe inizio.

Brano corrente

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