Salta al contenuto principale
7 Luglio 2011 | Racconti d'autore

Sconosciuta al destinatario

di Vittorio Ferorelli

A cura di Claudio Bacilieri. Lettura di Fulvio Redeghieri.

7 luglio 2011

Vittorio Ferorelli, giornalista, caporedattore di “IBC”, la rivista dell’Istituto per i beni culturali della Regione Emilia-Romagna, è l’autore di questo racconto, scritto per il concorso “Le carte ci raccontano. Voci di ieri per storie di oggi”. Promosso dall’Assessorato alla cultura del Comune di Felino, in provincia di Parma, il concorso è stato organizzato dalla Biblioteca e dall’Archivio storico comunale, che, a partire da una traccia costituita da documenti autentici, chiedevano di inventare una storia.

Ecco l’episodio reale da cui prende le mosse il racconto: “Nei primi mesi del 1881 il Prefetto di Parma viene contattato dal Ministro degli Affari Esteri: una connazionale, ormai non più giovane, si ritrova sola e senza mezzi a New York, con il grandissimo desiderio di ritornare in patria. Viene contattato un suo fratello, gestore di un’osteria, ma nemmeno lui sembra disporre del denaro sufficiente per provvedere al viaggio di ritorno…”.

Sconosciuta al destinatario
di Vittorio Ferorelli

Gli uffici degli archivisti erano al piano interrato. Dove, una volta, stavano le cucine e le dispense per i viveri.
– Vada sempre diritto e poi a destra. Quando sarà nel lungo corridoio senza finestre, bussi alla prima porta.
Franca scese le scale e trovò il corridoio. Trovò anche la porta. Si ripetè mentalmentele prime frasi da dire in inglese.
Bussò.
Silenzio.
Bussò di nuovo.
Nessuna risposta.
In effetti non c’era neanche una finestra laggiù. Su quelle mura, intonacate di fresco, c’erano solo cornici. Decine di cornici di misure diverse. Chiusi sotto vetro, idocumenti prendevano l’aspetto di opere d’arte. Le facevano sempre questo effetto.
La porta si aprì all’improvviso.
Si affacciò un uomo con gli occhiali cerchiati di nero. Aveva le sopracciglia folte e la testa lucida, completamente priva di capelli. Guardò la donna come se l’avesse sorpresa a mangiare ciliege nel suo campo.
– Desidera?
– Mi scusi, – disse lei. – Ho fatto richiesta per visionare alcune carte.
– Il suo nome?
– Pietrantonio. Franca Pietrantonio. Vengo dall’Italia.

Qualche minuto dopo, quell’ufficio lungo e stretto le sembrava già meno tetro. L’archivista aveva liberato un tavolo per farla accomodare. Mentre aspettava che quell’uomo tornasse con i documenti per cui era venuta, Franca si guardò intorno. Le finestre davano su un cortile interno. La luce pioveva dall’alto, piuttosto controvoglia. Nonostante tutto, le piante sui davanzali erano verdissime. La donna guardò meglio. Erano di pura plastica.
Gli schedari avevano un che di imponente, così come i mobili, le sedie e i tavoli. Erano sovradimensionati. Come quasi tutto ciò che incrociava intorno a sé da quando era arrivata a New York. Tanto che, in quello stanzone, gli oggetti comuni
sembravano più piccoli del solito. Libri, penne, fogli di carta, ninnoli da scrivania. Si sarebbe aspettata più ordine, lì dentro. Si era immaginata un archivio strutturato in modo lineare, perfettamente squadrato, senza oggetti incongrui e senza angoli morti. Qualcosa di asettico, insomma. In ogni caso, qualcosa di diverso dalla media italiana, che conosceva così bene. Anche lì, invece, gli esseri umani facevano di tutto per disseminare lo spazio con le loro tracce. Statuine portafortuna, cartoline dalle vacanze, i disegni di un bambino… E questo, per qualche motivo, le diede un po’ di conforto.
– Conosce la storia di Castle Garden?
La voce profonda dell’archivista sorprese Franca alle spalle, costringendola a girarsi.
– Sì, ne so qualcosa, – rispose. – Ho consultato il vostro sito.
– Tutti hanno in mente soltanto Ellis Island, – disse l’uomo. – Film, libri, documentari… Le foto con la Statua della Liberta. Quel posto è diventato un simbolo. Ci hanno fatto anche un museo. E invece, in un modo o nell’altro, è qui che la storia è cominciata.
Franca lo sapeva bene. Si era documentata. In fondo era il suo mestiere. Ma si dispose ad ascoltare la lezione come una studentessa alle prime armi. L’uomo che le stava di fronte la metteva decisamente in soggezione. Forse per quella testa tonda, senza l’ombra di un capello. O forse per gli occhi così profondi, resi ancora più grandi dalle lenti da miope. Aveva tutta l’aria di un gufo che se ne sta sul ramo più alto.
Fino al 1892, chi arrivava a New York per cominciare una nuova vita veniva portato lì, su Governor’s Island, proprio di fronte alla punta di Manhattan, dove sorgeva l’edificio del Castle Garden Immigration Depot. Quasi otto milioni di esseri umani erano passati tra quelle mura.

– Ecco. I documenti che ha richiesto sono qua, – disse l’uomo ritornando dal suo giro negli archivi. E, allungando il braccio destro, posò sulla scrivania di Franca un massiccio faldone verde chiaro.
– E là dentro, invece, cosa c’è? – chiese lei di impulso, indicando un piccolo raccoglitore nero che egli portava sotto l’altro braccio.
Per un attimo, dietro gli occhiali, le pupille dell’archivista ebbero un guizzo. Alzò l’indice della mano libera e lo puntò diritto sulla ricercatrice.
– La curiosità uccise il gatto! – disse. E un istante dopo sorrise, mettendo in mostra una dentatura degna di Hollywood. Era la prima volta che lo faceva. L’effetto non era
niente male, pensò Franca.
– In effetti glielo avrei detto comunque, – continuò l’uomo. – Lo faccio sempre quando viene qualcuno che ha l’aria di essere in gamba. Perché questa… mmmh… è roba che scotta! – e, nel dirlo, strizzò un occhio verso di lei.
Franca gli sorrise di rimando. Porgendole il raccoglitore nero, l’uomo proseguì nel discorso. Man mano che parlava, però, il suo volto riprendeva il contegno compassato richiesto dal ruolo.
– In queste cartelle conserviamo le lettere scritte dagli immigranti e mai recapitate.
Le abbiamo divise per area geografica di provenienza. Queste vengono dalla sua zona.
– Come mai non venivano recapitate? – chiese Franca.
– I motivi erano tanti: indirizzi sbagliati, destinatari introvabili… A volte chi riceveva queste lettere non le apriva neanche, e le rispediva al mittente.
– Quindi, alla fine, ritornavano qui, – disse Franca.
– Appunto, – annuì l’uomo. – Se la lettera non si perdeva lungo il viaggio, il percorso terminava qui a Castle Garden. Dove però, nel frattempo, chi le aveva scritte era andato via, chissà dove. Oppure era morto.
– In altre parole, sopravviveva solo la lettera.
– Proprio così. Ed è per questo che tra noi le chiamiamo in quel modo.
Un istante dopo, quando il punto interrogativo ebbe finito la sua curva dentro gli occhi della donna, l’archivista aggiunse:
– Le sopravvissute.
Franca sorrise.
– Lo trova divertente? – chiese l’uomo.
– Sì. Perché in fondo voi archivisti siete dei romantici, – disse lei ammiccando.
– Lo può dire! – fece l’uomo, sorridendo a sua volta. – Lo può dire!

Rimasta sola davanti alla scrivania, Franca respirò a fondo e aprì quel piccolo raccoglitore. Davanti a lei, sotto la luce fredda dei neon, alcuni pezzi di carta ingiallita chiedevano di parlare. Ognuno con la sua voce.
Ne esaminò alcuni, scorrendone le righe. Da quando faceva ricerche sulle vicende dei bambini emigrati dal Parmense, aveva imparato a decifrare le grafie più accidentate.
Avrebbe voluto avere più tempo, approfondire alcune di quelle storie senza ritorno, ma ogni minuto della trasferta americana era prezioso. E i costi erano tutti a suo carico.
– Bisogna che mi concentri, – si disse.
Mise da parte le “sopravvissute”, dedicandosi finalmente al faldone che aveva richiesto. Tuttavia non potè fare a meno di sentirsi un po’ in colpa. Dopo tutto, anche lei stava lasciando al loro silenzio quelle voci, rimaste così a lungo prive di risposta.

Alla fine del pomeriggio, l’archivista posò sul tavolo di Franca le fotocopie dei documenti che aveva consultato quel giorno. Il piano della scrivania era ricoperto di un fitto strato di carte. Era soddisfatta del suo bottino. Adesso poteva tornare a casa e dare forma al suo saggio. Poi, in qualche modo, avrebbe cercato di pubblicarlo.
Guardò l’orologio. Mancavano pochi minuti alla chiusura degli uffici e voleva avere il tempo per ringraziare quell’uomo. A dispetto della prima impressione, si era
rivelato l’assistente ideale di ogni ricercatore. Presente e pronto a rispondere a ogni richiesta, anche se ogni volta, per farlo, era costretto a interrompere il suo lavoro.
– Ho un’ultima domanda, – disse la donna. – Come mai ha voluto che dessi un’occhiata anche a quelle lettere?
– Vuol dire le sopravvissute? – le sopracciglia di distesero ancora una volta in un sorriso. – Gliel’ho detto: lo faccio solo quando ho di fronte qualcuno che mi ispira fiducia.
– D’accordo, ho dato giusto un’occhiata a qualcuna di quelle carte ma, in effetti… cos’altro avrei potuto fare?
– Non si sa mai. Nelle sue indagini potrebbe aver già incrociato il nome del mittente. O quello del destinatario. Forse una di quelle lettere poteva aiutarla nelle sue ricerche. Chi può dirlo?
– Già, – sorrise Franca. – Chi può dirlo?
– Quelle lettere sono come i fantasmi della soffitta, – disse l’uomo. – Ogni volta che qualcuno le legge, è come se trovassero un po’ di pace.
– Come se in qualche modo, alla fine, il messaggio arrivasse a destinazione? Vuole dire questo, no?
– Ha visto che non mi sbagliavo? Lei sa vedere bene le cose. Anche al di là della carta.

Sull’aereo che la riportava in Italia, Franca tirò fuori dalla borsa il materiale raccolto a Castle Garden. A scanso di imprevisti, lo aveva messo nel bagaglio a mano. In fin dei conti, quelle fotocopie erano la cosa più preziosa che portava con sé. Soppesando tra le mani il blocco di fogli tenuto stretto da un elastico, guardò con soddisfazione lo spessore accumulato. Quando, a un tratto, in tutto quel bianco, i suoi
occhi furono attirati da un sottile strato di colore. L’intrusa si era nascosta quasi alla fine del mucchio. Con istintiva cautela, la donna separò i fogli fotocopiati e li mise da parte, prendendo tra le dita la carta giallastra di una lettera. L’inchiostro si leggeva a malapena.

Nuova Iorck al 22 Febraio 1881
Carissimo Giulio fratello mio
ti mando queste due righe per dirti le mie notissie grame.
Che io tribolo tanto che non lo puoi credere perche da quando sono nella
Merica mi trovo a soffrire una disgrazia nuova.
Da che arrivai su la nave ebbi a sapere che il caro marito mio è morto,
così che al momento io sono sola di tutto in questa terra.
In tanto che scrivo queste righe mi trema la mano, caro fratello, che sono
malata. Ma bisogna aver pasienza, farsi coraggio. Che in questo mondo
siamo nati a tribolare.
O ricevuto la lettera che Francesco non può mandare per me nessuni aiuti,
di che mi è rincresiuto tanto. Dunque Caro fratello il più che ti prego,
quando tu mi scrivi, di dirmi che siete voialtri che mi volete a casa.
Ti racomando di farmi subito pronta risposta e non statemi farmi spetare
perche io non vedo l’ora e il minuto di partire.
Faccia Iddio che questi miei voti si realizzano. Altro non mi resta che di
vero cuore salutarti.

Tua sorella
Anna Maria

Quando arrivò all’ultima riga, Franca chiuse gli occhi. Per qualche secondo non riuscì a riaprirli. Poi guardò le ultime parole di quella scrittura da bambina. Le rilesse a voce bassa. E sorrise.

 

Brano corrente

Brano corrente

Playlist

Programmi