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20 Novembre 2020 | Racconti d'autore

Scritto in un giardino

Testi tratti dalla selezione finale del concorso letterario legato alla rassegna “Vivi il Verde 2020. Mutazioni, trasformazioni, opportunità”

Vittorio Ferorelli

Per l’edizione 2020 di “Vivi il Verde”, la rassegna che l’Istituto per i beni culturali della Regione Emilia-Romagna organizza dal 20 al 22 novembre, in concomitanza con la “Festa dell’Albero”, è stato indetto il concorso letterario “Scritto in un giardino: un invito a raccontare”. Vi facciamo ascoltare alcuni dei testi selezionati dalla giuria per la pubblicazione in volume, in arrivo con l’anno nuovo. Ringraziamo per la lettura Alessandra Ambrogi e Marzio Bossi dell’associazione “Legg’io”.

Il Giardino degli Incontri

Il Giardino che ho in mente non è mai solo e non sta mai tranquillo: ci sono bambini che corrono e si rotolano giù dalla collinetta rialzandosi profumati di arrosto e uccellini che cantano e signore che chiacchierano mentre fanno l’uncinetto.

È un giardino immaginario ma è anche un po’ reale: ci sono all’ingresso fiori che ballano a ogni soffio di vento e il lillà di quando ero giovane e una rosa rampicante; ci sono le panchine e un bel sentiero pianeggiante, sicuro e senza incroci perché nessuno abbia paura di perdersi.

Nel giardino che ho in mente io e i miei amici sediamo sotto al platano a guardare le viti che hanno piantato (che vigna non si può chiamare) ma ci sembra di tornare a potare come quando eravamo giovani e guardiamo quel ramo in più che non dovrebbe esserci e la legatura che se potevo alzarmi la facevo meglio di sicuro.

Nel giardino che ho in mente e che vedo dalla finestra del quarto piano c’è una piazza contornata di panchine rosse che guardano alla cascatella d’acqua che pare lì per giocare a spruzzarsi, ci sono gli alberi da frutto di quelli di una volta che fanno le mandorle, le nespole e le mele cotogne.

Nel giardino che ho in mente c’è una tettoia dove si potrebbe giocare a carte; quello c’era già quando sono arrivato qui e prima che ci fosse il giardino, era lì in mezzo a un prato stentato con due sedie rotte, poi sono arrivati prima l’architetto poi le ruspe e i muratori e poi i giardinieri che ci hanno messo tutti quei colori e le panchine e ci facevamo le feste d’estate con il gelato.

Il giardino che ho in mente era aperto a tutti e ci potevi sempre fare un giro e incontrare anche la gente di fuori, qualcuno che leggeva il giornale o voleva sedersi un po’, scegliendo ogni giorno una stagione diversa, o un compagno di qui che passeggia con i figli venuti a trovarlo.

Nel giardino che ho in mente ci venivano i bambini con il pulmino quello giallo, e arrivavano con gli stivali di gomma nei piedi, le palette in mano e la gioia nel cuore, pronta a regalarla anche a noi che eravamo lì ad aspettarli, con lo stesso entusiasmo con cui piantavano i bulbi dei crochi e dei tulipani.

Il giardino che ho in mente adesso è chiuso con un lucchetto, perché la gente là fuori porta la mascherina e non deve più incontrarsi e noi non possiamo rischiare di ammalarci perché siamo vecchi e fragili, anche se chiusi qui non è tanto diverso da morire.

Nel giardino che ho in mente domani scenderò per un po’ e ci sarà mia nipote ad aspettarmi, seduta vicino al calicanto e alla forsizia in fiore, e dovrò fare tesoro di tutto quel giallo e di ogni minuto in cui le terrò la mano, per resistere e aspettare che torni la primavera là fuori e anche qua dentro.

Eva Flamigni

Liberamente ambientato al “Giardino delle Stagioni”, giardino pubblico con percorso sensoriale realizzato presso la casa di riposo Istituzione “Davide Drudi” di Meldola (Forlì-Cesena).

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Genius loci

Aprile 1981

Mi trovavo in città da circa otto mesi e la corsetta al parco, per raggiungere il percorso vita e tenere allenate le articolazioni, era diventata una piacevolissima consuetudine. Abitavo in via Castelfidardo e in pochi minuti raggiungevo il mio pezzo di paradiso, scoperto per caso, durante una delle mie lunghe camminate.
Bastava girare un angolo di strada e la città spariva come d’incanto, insieme alla stanchezza delle lunghe ore trascorse in corsia al Maggiore.
La primavera si era presentata in tutto il suo splendore e fiori e profumi saturavano i sensi.
Quel giorno, al termine del percorso, privo ormai di forze, mi avvicinai a una panchina dove sedeva un anziano ed elegante signore. Indossava una berretta, candida come il suo pizzetto.
– Buongiorno, posso? – chiesi.
– Buongiorno a lei, che è giovane. Prego, si accomodi, il parco è di tutti, sa?
– Ho bisogno di ricaricarmi un attimo – dissi al mio compagno di panchina.
– Oh, ma lei è giovanissimo, ne avrà ben parecchia di energia! Quanti ne ha, diciotto?
– Venti, ne ho venti appena compiuti, e lei, se posso permettermi?
Non omo, omo già fui… per dirla citando il Sommo Poeta. Ho superato da un pezzo i novanta, ma mi trovo benissimo a parlare con i giovani; in loro ho sempre visto la speranza del futuro, nella mia vita di docente.
– Ah, un professore, quindi! Caspita! Il mio sogno è arrivare a frequentare l’Università di Bologna, ma non ho ancora la maturità. Sa, prima la necessità economica, il lavoro, poi il resto.
– Non desista! Porti avanti i suoi propositi sempre e comunque! Se veramente ci crede, riuscirà nei suoi intenti e un po’ per volta gli obiettivi verranno raggiunti. E cosa vorrebbe studiare?
– Mah, fin da piccolo sono rimasto affascinato dalla natura: piante, animali, rocce… Ecco, vorrei trovare una facoltà che mi fornisse conoscenze in tutti questi campi.
– Ho quello che fa per lei! – disse il professore con sicurezza – Scienze naturali, e non se ne pentirà! Bologna ha una lunghissima tradizione in questo campo e abbiamo avuto grandi maestri, l’Aldrovandi sopra tutti!
– Grazie – risposi, un po’ intimorito da quel consiglio che sembrava quasi un ordine, proferito con veemenza dall’arzillo prof.
– Viene qui da molto? Conosce bene il parco? – chiesi d’impeto, per cambiare argomento.
– Mio caro giovinotto, posso dire che questo parco lo conosco dimondi, come diciamo a Bologna. Lo conosco molto bene. Lo vede quell’enorme albero alla sua destra? È un magnifico esemplare di Cedrus deodara. Ebbene, fu messo a dimora da mio padre, insieme a quell’altro di cui può vedere il tronco a terra più a destra.
– Sì l’ho visto, lo uso a volte per appoggiarmi a fare stretching. È caduto da molto? Era ammalato?
– Sì, andava abbattuto, avvenne nel ’75… Nel ’70 invece era venuto meno un esemplare di un’altra specie, anch’egli quasi secolare, che ne aveva viste e passate tante nella sua vita…

Il prof rimase in silenzio, pensieroso, con lo sguardo che osservava lontano, oltre il parco, oltre le colline, come se stesse vagando in immensi spazi visibili solo a lui.
– Perbacco! Quindi lei era il figlio del fattore? Del giardiniere?
– Diciamo così – aggiunse, scuotendosi dai pensieri. – E ho visto piantare tanti altri alberi, come le grandi querce, e i mandorli sul crinale, le viti, e i cachi. Conosce il nome scientifico del caco? Diospyros kaki, il frumento di Giove, il cibo degli Dei. Ma mi scusi se ogni tanto cado nella mia inguaribile malattia, quella di spiegare e dare sempre un nome a tutto.
– Ma si figuri, è un piacere ascoltarla! E mi dica… – continuai, cercando di non farmi scappare quella preziosa fonte di notizie – Quella recinzione che ospita (mi sembra) dei faggi, sa perché è chiusa?
– Fu un esperimento. Si voleva riprodurre una faggeta con il suo ecosistema, ma siamo giù di altitudine, e gli alberi stentavano e si schiantavano, diventando un rischio per le persone. Ma è interessante vedere i grandi funghi a mensola che crescono indisturbati; inoltre, tanti animali di pelo e di penna vi trovano riparo.
– E le voliere vuote, sa cosa contenevano? – incalzai.
– Ah, quelle! Le rivedo ancora piene di fagiani dorati, galline multiformi, piccioni viaggiatori… Una passione di due generazioni di proprietari della villa… Acqua passata! – aggiunse malinconicamente.
– A proposito, la villa, come mai è abbandonata? Deve aver vissuto tempi migliori – provai a chiedere.
Damnatio memoriae! Sa cosa significa? Gli errori si pagano anche dopo morti, e pur di cancellare un nome dalla memoria collettiva, si è preferito far andare in malora un bene, le cui fondamenta risalivano addirittura al Seicento.
Aggiunse: – Lo sa a cosa era destinata questa villa nell’idea del proprietario? A diventare un centro di studio sulla salvaguardia della natura, un luogo dove associazioni e persone interessate potessero portare avanti la loro opera di paladini del Creato.
Continuò: – Oggi si parla tanto di proteggere l’ambiente, ma ai miei tempi, tempi in cui era normale andare per safari, riportare trofei e cacciare centinaia di uccelli a battuta, porsi delle domande sul futuro della natura sembrava un’eccentricità, un inutile vezzo. Inoltre – concluse – se oggi lei riesce a farsi la sua corsetta nel verde in santa pace, lo deve anche a chi ha evitato e sventato speculazioni, che avrebbero trasformato questo posto in un esclusivo quartiere cittadino.
– Professore, è stato un piacere conoscerla! E mi perdoni se non ci siamo neanche presentati, mi chiamo Salvatore – dissi.
E lui, indicandomi col dito, in lontananza, il volo fluttuante di un picchio verde che intonava la sua inconfondibile risata: – Alessandro, il mio nome era Alessandro.
Quella declinazione imperfetta mi fece distogliere gli occhi dall’uccello, ormai scomparso tra gli alberi. E, ripetendo il suo nome, mi voltai, guardando con stupore la panchina vuota.
Ripresi lentamente la strada verso San Mamolo, lasciandomi alle spalle Villa Ghigi.
Nel 2011 ho discusso la tesi di laurea in Scienze naturali all’Università di Bologna.

Salvatore Caiazzo

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Luce, giorno

Attraverso il giardino di fretta, percorro il labirinto.
Tutto è presente ma nulla vedo, presa solo dalla mia vita,
rapita dalla solita routine quotidiana.
Nulla di speciale appare attorno a me,
cammino, parlo, respiro.

Poi, buio, notte.
Il tempo si ferma e mi ritrovo immobile nella mia stanza,
senza colori, senza profumi.
La tristezza mi avvolge e
improvvisamente
ho la sensazione che mi sia sfuggito qualcosa
come vento tra i rami nudi.
Un malessere indefinito,
intrappolata nel labirinto senza una via d’uscita.

E poi finalmente
luce, giorno.
Il sole illumina ciò che c’è sempre stato ma che io non ho mai visto.
I vialetti con le loro siepi esprimono emozioni,
il cielo azzurro pone in luce gli splendidi colori dei fiori appena sbocciati,
le rose rampicanti ti abbracciano come per ripararti,
le essenze arboree emanano profumo di natura e di libertà,
gli uccelli canterini risvegliano i cuori,
il venticello fresco fa danzare le foglie.

E infine il magico labirinto verde
svolta dopo svolta
ti accompagna verso nuove speranze.

Erika Volpe
(Liceo scientifico statale “Antonio Roiti”, Ferrara)

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Camillone

Se fosse uno dei vecchietti del bar, Camillone sarebbe quello più grande e grosso.
Quello con la canottiera bianca cannettata, madido di sudore, che sembra evaporare sotto il ciocco del sole ma che non si schioda dalla sua sedia. Sempre quella, dall’alba dei tempi.
Quello burbero per finta, che ti regala una caramella dopo un tozzone o che ti manda un colpo perché ti vuole bene.
Invece non ha gambe, non ha braccia e nemmeno parla.
Se ne sta giorno e notte spaparanzato a riflettere il cielo e a farsi grattare dalle pale dei salinari che per generazioni si son mescolati a lui, versando il sudore nelle sue vasche.
Camillone è vecchio.
Vecchissimo.
Sembra abbia sentito addirittura imprecare in latino.
È l’ultimo sopravvissuto di una tribù di centoquarantanove esemplari, tutti convertiti alla modernità.
Convertite, a dire il vero, perché le saline sarebbero femmine.
Ma Camillone è un rude dalla barba di salicornia e ha lo spirito di un vecchio lupo di mare.
È fatto di onde ormai quiete, rapite dai canali, e incarcerate nella piana per rubarne il tesoro.
Su di lui si lavora ogni giorno, lo si protegge con una sapienza che viene da lontano: ancora prima di quando le burchielle cariche di sale, con le corde come timoni, erano trainate su strade d’acqua fin davanti al Magazzino e alla Torre.
I motori erano le braccia degli uomini che tiravano come tori.
Tempi di visi color cuoio, in cui spostarsi in bici era un atto rivoluzionario, da moderni.
Camillone non distingue il bene dal male ma sa riconoscere la fatica e la passione degli uomini. Anche se non regala niente è un generoso e ripaga gli sforzi con un sale speciale, che è dolce.
È un romantico, in fondo.
Ne ha viste e sentite di cotte e di crude ma da secoli non gli scappa nemmeno un segreto.
Si tiene per sé la verità su Domenico, detto Minghinàz, che per ben due volte forzò il posto di blocco dei Carabinieri con la Moto Guzzi a scoreggetta. C’era la Ines in casa che lo aspettava tutta nuda e lui pensava solo a quello. Non si accorse della paletta quasi in faccia e dei due appuntati che balzarono per acciuffarlo al volo. Lui tirò dritto, intrepido. Ma per i tre giorni seguenti mancò dalla salina: se li fece in gattabuia.
Camillone ha assistito pacioso alla passione segreta di Angelina per Tazio Nuvolari. Lei lo pensava giorno e notte: persino mentre estraeva il sale rovinandosi le mani. A casa ritagliava dal giornale le foto del Mantovano Volante, come fossero santini, e filava in chiesa.
Pregava di incontrarlo e di sposarlo.
O Nuvolari, o niente.
Poi cambiò idea e si convinse a diventar la moglie di Minghinàz, che di Nuvolari almeno aveva la stessa passione per i motori e il rischio. Più quella per la Ines.
Camillone ha superato chissà quante diavolerie della storia.
Guerre di tutte i tipi, da quelle a suon di spada a quelle a colpi di moschetto, in cui ha protetto dalla fame, ha accolto famiglie sfollate e ha fatto bruciare, curandole, innumerevoli ferite.
Sopporta tutto, tra la terra, l’acqua e il cielo.
Tace e resiste.
Quando le nuvole glielo consentono sfoggia dei tramonti da lasciare senza fiato, con le sagome scure dei fenicotteri e le montagne di sale bianco.
Un miraggio di neve in piena estate.
Ogni sera che Dio manda in terra, Camillone confeziona uno spettacolo diverso, sempre più bello.
Sembra proprio che ci goda a ostentare il suo fascino, a farsi fotografare e a strappare sospiri.
In fondo, se non fosse anche un po’ “patacca”, non sarebbe un vero romagnolo.

Alessandra Bollini

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I racconti selezionati dal gruppo di lettura del concorso “Scritto in un giardino. Un invito a raccontare” (Fabio Falleni, Vittorio Ferorelli, Rosella Ghedini, Carlo Tovoli) potranno essere letti sul sito web dell’Istituto per i beni culturali della Regione Emilia-Romagna.

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Musiche
Federico Mecozzi – “Spring Song”
Lúcia de Carvalho – “No meu jardim”
Murubutu – “Grecale”
Federico Mecozzi – “Awakening”

Brano corrente

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