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5 Maggio 2011 | Racconti d'autore

Silenzio in Emilia

di Daniele Benati, Quodlibet, 2009 (terza puntata)

A cura di Claudio Bacilieri. Lettura di Fulvio Redeghieri

5 maggio 2011

Nel 2009 è stato ristampato, per Quodlibet, Silenzio in Emilia di Daniele Benati, libro memorabile pubblicato nel 1997 da Feltrinelli nella collana I Narratori. Protagonisti degli undici racconti (o capitoli) che lo compongono, sono i morti che ritornano nella loro terra, l’Emilia, a fare più o meno quello che facevano prima: ma anche il fatto più comune e banale, visto dall’aldilà, diventa una visione, e il tran tran quotidiano diventa la cosa più immaginifica che esista. In Silenzio in Emilia, ha scritto Paolo Nori, autore emiliano amico di Benati,  i protagonisti “continuamente si perdono, e sempre, nel libro, per tutto il libro, c’è quell’incanto di quando sei perso, quella tensione che fa sì che ogni cosa che vedi diventa importante”. Indimenticabile l’epigrafe, che traduciamo dal dialetto: «Signore, se ci siete / Fate che la mia anima, se ce l’ho / Vada in Paradiso, se c’è».

Il secondo viaggio in America

prima parte

C’era l’ingegner Tadolini che da un po’ di tempo non faceva altro che pensare di volersi ucci­dere. Non c’era più niente che lo interessava a que­sto mondo ed era solo capace di provare della malinconia per qualunque cosa aveva fatto nel suo passato. Anche per quelle che gli erano andate male, facendolo soffrire. Delle volte era lì che sega­va un pezzo di legno nella sua bottega e all’improv­viso gli veniva l’istinto di andar su in solaio a impiccarsi. Casomai solo perché gli era venuta in mente una cosa del suo passato. Allora appoggiava gli attrezzi e incominciava a salir pian piano le scale. Solo che quando arrivava su in solaio non si ricordava più cosa c’era andato a fare, e stava lì a grattarsi la testa ancora piena di capelli bianchi. Poi tornava giù per le scale con l’aria un po’ triste e magari tenendo in mano un oggetto che pensava di dover adoperare in bottega. Delle volte poteva anche essere una vecchia damigiana, che però quan­d’era in bottega non sapeva più cosa ce l’aveva por­tata a fare. E allora stava lì immobile a guardarla con l’aria interrogativa. Questo perché l’ingegner Tadolini aveva ormai più di ottant’anni e si ricor­dava bene le cose del passato ma niente di quello che era accaduto il giorno prima o pochi minuti prima.

VIVA PIETRO TADOLINI avevano scritto i suoi compaesani sul muro di una casa dove c’era anche una scritta bianca che diceva PERICOLANTE. Questo era successo a Rubiera, dieci o vent’anni prima, quan­do il suo nome era andato a finire sui giornali per via di una cosa che aveva fatto. Ed era stato da quel momento che avevano incominciato a chiamarlo ingegnere, perché prima era solo considerato un falegname. Anzi, nemmeno quello. Perché i fratelli Cerchioni dicevano che piuttosto di farsi fare un tavolo da lui mangiavano per terra; oppure che fa­ceva le cose storte, con le gambe disuguali, e che non era altro che un povero vecchio capace solo di bere del vino. Dopo invece avevano cambiato tutti opinione su di lui, quando hanno visto la sua foto sul giornale che diceva cosa aveva combinato in America. Loro non lo sapevano neanche che era an­dato in America, e forse non se n’erano accorti per­ché non era la prima volta che lasciava la porta della sua bottega chiusa, con un cartello che diceva: NON CI SONO. Oppure perché era stato così breve il suo viaggio, che praticamente col cambio dei fusi orari si era svolto in due giornate soltanto.

Erano bei tempi quelli, per l’ingegner Tadolini. E quando ci pensava gli veniva una malinconia che quasi quasi andava su in solaio a impiccarsi. Qual­che anno prima, quelli dell’Assistenza Sociale gli avevano anche mandato una donna per tenergli die­tro e fargli i lavori di casa, perché questa sua mania di volersi uccidere s’era incominciata a sapere in giro. Ma lui aveva scritto una lettera dicendo che ne voleva una più giovane: Mandatemene una più bella e più giovane, ci aveva scritto. E poi l’aveva firmata Ingegner Pietro Tadolini. Infatti era un tipo così anche nel suo mestiere, che aveva sempre delle pre­tese incomprensibili, oppure si faceva desiderare; e questo nonostante che quasi nessuno andasse da lui a chiedergli di fare un cassettone oppure una fine­stra. E casomai quei pochi che ci andavano, ci anda­vano solo per fargli un piacere di vicinato. Venite domani o dopodomani, gli diceva allora mentre piallava qualcosa. Ma ne avrei bisogno oggi, diceva il cliente. E poi da lì incominciava una discussione che se Tadolini gli avesse fatto subito quello che l’al­tro chiedeva, in cinque minuti lo mandava via. Ma era sempre stato così, come tipo. E dunque non c’era da meravigliarsi che avesse rispedito a casa anche la donna dell’Assistenza Sociale, pretenden­done una più giovane. Lì al bar di Rubiera, dove lei s’era lamentata prendendo un caffè, i fratelli Cer­chioni le avevano detto che Tadolini s’era montato un po’ la testa da quando era andato in America; e che comunque s’arrangiava poi da solo, se voleva fare il furbo, perché, tanto, che si volesse uccidere non ci credeva più nessuno. Erano degli anni che lo diceva, e non l’aveva mai fatto.

I fratelli Cerchioni erano gli unici che non aveva­no mai cambiato idea su di lui e quando lo sentiva­no chiamare ingegnere facevano sempre un sogghi­gno, nonostante che poi sarebbero stati proprio loro a ritrovarlo. Ma qui stiamo andando un po’ troppo avanti coi tempi, mentre l’ingegner Tadolini è ancora là che va su e giù per le sue scale, dimenti­cando ogni volta cos’era andato a fare in solaio.

Finché un bel giorno l’ingegner Tadolini ha visto che era arrivata una ragazza bella e giovane davan­ti alla sua bottega, che diceva di essere stata man­data da quelli dell’Assistenza Sociale. Diceva anzi che s’era svolta una riunione al cospetto delle auto­rità municipali di Reggio, con tutti gli assessori dei partiti e i rappresentanti del consiglio di quartiere, perché lui venisse accontentato nella richiesta che aveva fatto qualche anno prima. Tadolini era rima­sto sbigottito nel vedere questa bella ragazza, che era vestita semplicemente con un vestitino leggero da cui spuntavano due belle gambe affusolate. Venga venga, le aveva detto dopo un po’ di smarri­mento. Venga dentro che le do un bicchiere di vino. Lui non si ricordava neanche più di avere scritto quella lettera, e dunque gli sembrava un dono fattogli proprio direttamente da Dio. Non sapeva neanche cos’era il consiglio di quartiere, o cosa volesse dire la parola assessore. Comunque vedeva che quella ragazza gli piaceva, e che sem­brava furbina, a prima vista, con delle belle idee chiare in testa.

Gli aveva fatto venire in mente le altre due che se lo erano litigato dopo che aveva fatto quel giro in America. Erano anche loro più o meno così, solo un po’ più vecchie d’età; ma portavano sem­pre un vestitino quasi uguale al suo.

Lei è entrata dentro la sua bottega e ha detto che si chiamava Federica. Oh, un bel nome, ha detto Tadolini. E cosa fa di mestiere? Studio, ha detto lei, ma per mantenermi lavoro per il comune e mi occu­po della gente anziana. Allora qui a Rubiera biso­gnerebbe che andasse a cercare i fratelli Cerchioni, le ha detto Tadolini con una punta del suo orgo­glio, perché a quei due c’è mica più rimasto tanto sale in zucca. Li conosco, ha detto la ragazza.

Be’, alla sera di quel giorno a Tadolini è venuta fuori tutta la memoria che chissà in quale ripostiglio della sua testa era andata a finire, dicevano i fratelli Cerchioni. Infatti c’era una bella damigiana di vino in un qualche angolo della sua casa che lui dalla tanta contentezza è andato subito a aprire ricordan­dosi di quella volta che dai Cocchi, a Castellazzo, erano stati alzati tutta la notte per una briscola e ave­vano bevuto tutte le bottiglie che avevano trovato, compresa quella dell’aceto. Oh, l’ultima era mica tanto buona, aveva detto Tadolini il giorno dopo. Cos’era stata? La vigilia di Natale, o di che altra festa? Lui, Tadolini, aveva quelle due donne che gli giravano per casa e litigavano fra loro. Come si chia­mavano? Una forse Ginestra. E l’altra era la sua amica. Quella che si chiamava Ginestra gli aveva detto: Lei è sempre stata migliore di me; a ballare, invitavano sempre lei; per strada guardavano sempre lei; tutto sempre prima a lei. Ma te ti ho trovato prima io, e non voglio che vai con lei. Bene bene, aveva detto Tadolini dopo essere stato ad ascoltare tutto il discorso comodamente seduto sulla sedia, con un gomito appoggiato alla tavola. Per me è uguale, mettetevi d’accordo voi. Come, mettetevi d’accordo voi! gli aveva urlato lei. E poi era andata via tutta arrabbiata, lasciando lì Tadolini un po’ sor­preso perché non credeva d’aver detto niente di male.

Cos’aveva allora? sessant’anni? settanta? Chi se lo ricordava! Mai avuto un fidanzamento in tutta la vita, e adesso gliene capitavano due. Forse si erano fatte abbindolare dalla sua foto sul giornale e pensa­vano di formare con lui una coppia come si vedeva in certe riviste, dove gli attori vecchi giravano con ragazze più giovani. Certo che si era verificato un bel subbuglio nella sua vita. Le donne gli erano sem­pre piaciute, ma prima era lui a non piacere a loro. E adesso non capiva tutta quella gelosia, visto che non era poi neanche più tanto arzillo, dicevano i fra­telli Cerchioni. Chissà, forse avrebbe fatto meglio a non esserci nemmeno andato, in America, se doveva venir fuori tutto quel trambusto, pensava delle volte. Solo che si era così incuriosito che un giorno è par­tito con la sua bella valigia di cartone senza dir nien­te a nessuno. Non sapeva neanche come si faceva a prendere un aeroplano, e tranne poche volte non era mai neanche andato fuori dall’Emilia. Al massimo andava a pescare sulla riva mantovana del Po, a Dosolo, ma più in là non c’era mai arrivato.

Comunque quella notizia l’aveva proprio incu­riosito e aveva fatto fare tutto all’agenzia dei viag­gi, compreso il suo passaporto e il visto. Il più pre­sto possibile! s’era raccomandato con l’impiegata, perché voglio prendere il primo volo che c’è. Aveva paura che risolvessero il problema, là nella chiesa di San Felipe a Santa Fe. E tutte le sere, mentre aspetta­va che gli arrivasse il passaporto, apriva un vecchio atlante che s’era fatto imprestare dal nipote di un suo conoscente e guardava dove si trovava questo posto lontano. Stato del Nuovo Messico, ripeteva fra sé piano piano. Gli costava un bel po’ di soldi fare quel viaggio, ma era una soddisfazione che si voleva to­gliere, e se uno non si toglieva una soddisfazione alla sua età, quando se la doveva togliere? L’unico pro­blema era che non sapeva se sarebbe arrivato in tempo, e neppure se la notizia fosse vera. Lui non aveva mai creduto a niente di quello che dicono i giornali e li prendeva in mano solo quando era dal barbiere e solo per dire che erano tutte balle, com­presi i titoli. Invece quella notizia lì aveva attirato subito la sua attenzione e ci aveva creduto, tanto da staccare il pezzo dell’articolo e metterselo in tasca.

Diceva che a Santa Fe, nello stato del Nuovo Messico, una maledizione lanciata dagli indiani Pueblo aveva impedito, prima agli Spagnoli e poi agli Americani, di portare a termine la costruzione di una chiesa. A questa, per essere completa, man­cava una piccola scala a chiocciola che nell’intendi­mento del primo ideatore, una specie di San Fran­cesco spagnolo di nome Gonzales, doveva servire per mettere in comunicazione i due piani dell’edifi­cio. E nessuno c’era ancora riuscito perché questi due piani erano molto vicini fra loro, tanto che in quello di sotto bisognava tenere chinata la testa. Forse era stato il religioso spagnolo a far male i calcoli, o forse c’entrava davvero una maledizione degli indiani Pueblo, che i religiosi spagnoli aveva­no subito preso a bastonate non appena arrivati in quel territorio; fatto sta però che fra tutte le notizie a cui Tadolini poteva non credere, questa doveva essere una delle principali. Invece lui ci aveva cre­duto subito, e aveva fatto delle belle risate leggen­do che proprio là si erano dati ritrovo un numero di ingegneri e di architetti americani che lavorava­no intensamente alla soluzione del mistero median­te l’aiuto di computer e di altre apparecchiature elettroniche che facilitavano i calcoli.

Be’, dopo una quindicina di giorni, Pietro Tadoli­ni s’è presentato davanti alla chiesa di Santa Fe con una squadra e una sega in mano, e in quattro e quat­tr’otto ha risolto il problema. S’è messo in mezzo a tutti quegli ingegneri chinati sui loro tavoli e ha incominciato a segare delle assi mettendosi la sua bella matita fra l’orecchio e la tempia e li ha battu­ti tutti sul tempo. Tra l’altro ci aveva anche sonno per via del cambio del fuso orario e non capiva una parola della lingua. Ma non era neanche tramonta­to il sole, che nella chiesa di San Felipe adesso c’era una bella scala a chiocciola fatta come si deve. Naturalmente erano rimasti tutti strabiliati dalla perizia di questo artigiano sconosciuto e volevano tenerlo lì per fargli fare delle altre cose, ma lui ha detto buongiorno buonasera e poi è tornato a Rubiera, prima ancora che la notizia rimbalzasse da un giornale all’altro fino a trovar posto su quelli locali della nostra regione emiliana.

Ci ripensava seduto al tavolo di lavoro della sua bottega proprio quella sera che aveva aperto la damigiana; e nella contentezza di aver conosciuto quella ragazza di nome Federica, i ricordi gli anda­vano e venivano nella testa senza più fargli venire in mente di volersi impiccare. Forse c’entrava anche l’effetto del vino, che ne aveva bevuto un po’ più del solito, dicono i fratelli Cerchioni. E difatti quan­do è poi andato in cucina a rovistare in tutti i cas­setti per trovare gli articoli che avevano parlato di lui, non li ha trovati in nessun posto. Chissà dove saranno andati a finire? pensava. E gli dispiaceva di non trovarli, perché il mattino dopo li voleva subito far vedere alla ragazza per dimostrare che tipo era stato. Be’, da una qualche parte li troverò, ha pensato mettendosi a sedere su una poltrona dove si è poi addormentato.

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