Marinaio, biologo, insegnante e scrittore, Fabio Fiori è nato a Rimini, dove la curva dell’Appennino incontra la linea dell’Adriatico, e da questo mare è partito per i suoi tanti viaggi, ritornando ogni volta con racconti di isole, venti, vele e imbarcazioni. Come quello che vi proponiamo, nella lettura dell’attore Faustino Stigliani.
Mollo gli ormeggi, della vela, della parola.
Le acque e le arie sono note, per quanto possano esserle quelle adriatiche, ai tempi di Google Earth. Sì, perché navigare e scrivere hanno molte difficoltà comuni, qualche inaspettato piacere, ma possono disvelare sempre infiniti orizzonti.
Disvelare! eccola qua la prima affinità imprevista, il primo annodarsi di vela e parola. Adesso non mi interessa seguirne a ritroso la rotta etimologica; devo pensare a cime, scotte e drizze, a randa, fiocco e timone. Anche perché a bordo non ho la connessione internet, sono libero almeno per qualche giorno, e il posto dei vocabolari è occupato dai portolani.
Lascio il porto di Ravenna sotto un cielo stellato di giugno. Una leggera brezza di Scirocco riempie l’unica vela di prua aperta. Con la barca appena inclinata navigo tra le due lunghissime dighe foranee. Prolungano il canale Candiano dentro al mare, creando un cordone ombelicale che lega la città alla madre, alle materne acque adriatiche. Già a poche miglia dalla costa sono immerso in un buio antico, in cui la luce dei pianeti si riflette sulle acque mosse appena dalla bava. È la stessa luccicante oscurità della notte di Galla Placidia; allo zenit della cupola imperiale splende una croce latina, sopra di noi il Triangolo estivo, segnato da: Vega, Deneb e Altair. Vega è la mia “luce di via”, in testa all’albero. Stella di prima grandezza dicono gli astronomi, il più lucente diadema della costellazione della Lira. Strumento celeste, con cui Orfeo incantava gli argonauti che su queste rotte ci hanno preceduto.
Anch’io in questa navigazione solitaria ho i miei musici, sono i “Calicanto”; i loro suoni si mescolano con gli sciacquii della prua e i gorgoglii del timone. Una voce femminile canta l’elogio al batter fiacca, “a bate gnifa”, tutto il giorno sulla riva, cercando una vela all’orizzonte. Sono versi dialettali di Biagio Marin. In questa notte senza luna, è la mia la vela che va al largo; la sua lucente ombra piacerebbe al poeta di Grado.
Deneb per gli antichi era la coda del Cigno, mentre a me evoca la prua di un deltaplano. Così se per i greci il Cigno era l’immagine metamorfosata di Orfeo, eternamente vicino alla sua Lira, oggi è più facile raccontare l’aedo in versione pop, in volo su un’avveniristica macchina volante.
Altair, l’aquila di colore blu-bianco, è algida come il cuore del feroce, implacabile uccello che divorò Prometeo. Il suo alto, distinto lampeggiare è un monito alla protervia dell’uomo, che in questi anni ha il volto terribile del demone atomico, chiamato Fukushima, che in questi mesi ha l’invisibile ferocia del flagello pandemico, chiamato Covid19.
Intanto a poppa si intravede ancora il fiammeggiare delle raffinerie ravennati, un altro prometeico emblema novecentesco. Il “Deserto rosso” appare molto più lontano delle quindici miglia che mi separano dalla terraferma, dei cinquant’anni trascorsi dall’Italia descritta da Michelangelo Antonioni. La forza incandescente di quel sogno industriale, un simbolo di quegli anni che apre la narrazione filmica, sembra oggi una fiammella cimiteriale, ricordo di un’età breve se commisurata sulla scala del tempo millenario adriatico.
Lo Scirocco rinforza; sull’acqua il primo spumeggiare delle onde dice che il vento supera dieci nodi. Riduco la randa; manovra complessa quando si naviga da soli, ancor più di notte. La fatica vale la tranquillità che segue. I pensieri ritornano alla volta musiva e a quel leone di San Marco che immagino nell’angolo di sudest. Dovrò tornarci ancora nella scintillante grotta di Galla Placidia, per togliermi questa curiosità. Se il mare non è una frontiera ma un varco, uno spazio acqueo libero da confini economici e nazionali, allora l’Adriatico è una porta rivolta a sudest. Di lì sono usciti romani, veneziani e austriaci, di lì sono entrati greci, bizantini, ottomani. L’ingresso si apre o si chiude a seconda di umori, interessi, circostanze della storia; lì rimane comunque, nel disegno più grande della natura.
Ogni uomo, ogni civiltà ha anche un destino geografico.
Nella carta di bordo, dove ho disegnato la rotta per Parenzo, il segmento di graffite per 55 gradi che attraversa il braccio di mare interseca decine di altre rotte, cancellature, punti e annotazioni; tracce di mie passate navigazioni. Settanta miglia separano Ravenna dalla penisola che sta dall’altra parte del mare. “Istra”è riportato sulla carta; perché è quella realizzata dall’Istituto Idrografico Croato. Le mappe sono anche strumenti politici e culturali. Su questo mare le parole pesano come pietre e, quando se ne caricano troppe, le navi affondano insieme ai carichi, agli uomini, alle idee. Questa carta nautica, di una quindicina di anni fa, sembra già un cimelio del mondo cartaceo che sta bruciando sul rogo della rivoluzione informatica. In alto campeggia lo scudetto croato, sigillo immancabile al pari delle cento, mille bandiere che hanno sventolato e che sventolano lungo la costa. Lungo queste rive, più che altrove, velleità imperiali, sogni nazionali, utopie politiche, sono naufragate. Io vedo speranze europee riflesse sullo specchio del mare.
La sua immagine notturna è quella del destino, scriveva Martin Heidegger negli anni Sessanta del Novecento, andando da Venezia a Corfù a bordo della nave da crociera Jugoslavia. Perché l’ancestrale moto delle onde si rinnova in eterno, incurante delle prue di ieri e di oggi, di progetti e azioni degli uomini di ogni tempo. Rotta a sudest; anche il filosofo tedesco ha attraversato la porta adriatica per vedere la Grecia, il luogo mitico della nascita dell’Occidente e della sua storia. Anche la sua fantasia venne rapita dai delfini che accompagnavano la nave, allo stesso modo di quelli che adesso mi sfilano accanto sopravento. Chissà se sono discendenti di quelli dionisiaci? chissà se sapranno rivelare i sempre nuovi misteri di questo mare d’oriente?
Per Heidegger, la traversata di ritorno, fatta di albe e tramonti sereni, di acque e cieli tranquilli, fu un unico, prolungato ringraziamento per il dono del soggiorno in una Grecia trasformatasi in un’isola separata dal resto del mondo, noto e ignoto, passato e presente.
Negli anni, per me, la traversata nautica o narrativa, sotto un cielo limpido estivo o nuvoloso autunnale, spinto da arie tiepide primaverili o pungenti invernali, è un rito laico, un’eterna celebrazione di scoperta. Tessere rotte, sulle acque e sulle carte. Tessere racconti, delle rive e delle genti.
Solo i tempi lunghi, fatti di gestualità e fatica, l’immersione sensoriale vissuta nell’incedere delle stagioni, possono rivelare qualcosa di questo seno mediterraneo, insieme marino e materno.
È il regolare lampeggio del faro di San Giovanni in Pèlago, che scorgo nel primo chiarore dell’alba, a risvegliare la sensibilità marinaresca, a riportare i pensieri sulla rotta reale. Due lampi ogni dieci secondi, controllati diverse volte nell’antica consuetudine di cadenzare il tempo con le parole: milleuno, milledue, milletre… Una cantilena apotropaica, trasforma la speranza in certezza della “giusta rotta”, scevra da errori, scarrocci e derive. Il vento molla un po’ e l’onda si smorza. Adesso la barca è più docile e rimane in rotta da sola.
Accendo la radio sintonizzandomi su Radio Uno. Il titolo d’apertura è per un altro dramma del mare, purtroppo cronache ricorrenti. In Tunisia questa volta, al largo delle isole Kerkannah. Di mese in mese, di anno in anno cambiano i porti di partenza, simili rimangono dinamiche e disperazioni. Se possibile in questo caso gli accadimenti sono ancor più tragici, perché a morire annegate sono principalmente donne, migranti subsahariane. Sulla loro carne non solo fatiche e dolori della miseria africana, ma anche violenze della prevaricazione maschile. Ennesima sciagura, appunto sul taccuino, rinnovate sofferenze vissute da chi cerca di attraversare il Mediterraneo in vista di terre accoglienti, di un futuro migliore. Vicende che a fasi alterne si ripetono da millenni.
Il mare è innanzitutto sinonimo di sofferenza? Di certo è un Giano bifronte, nella più classica delle rappresentazioni: quella del dio degli inizi. Ma lo può essere anche per la sua doppia personalità, per il saper dispensare inusitati dolori e occasionali gioie. Joseph Conrad insegna che il mare non conosce generosità ed è rimasto strenuo nemico di navi e uomini, fin dalla notte dei tempi. Le onde continuano a travolgere flotte e speranze, le acque continuano a inghiottire barche e ambizioni. Chi il mare lo conosce, navigandolo per necessità, lo sperimenta ogni giorno e sa che le acque suscitano sempre paura, chiedendo sempre rispetto.
In un recente passato al centro delle cronache c’era il Canale d’Otranto, che unisce Adriatico e Ionio, Italia e Albania, Occidente e Oriente. Oggi c’è il Canale di Sicilia, porta acquea di collegamento tra mediterranei d’oriente e d’occidente, Italia e Magreb, Europa e Africa. Vent’anni fa, Yohan e Kater I Rades, le navi de “Lamerica” degli albanesi. Un sogno duro, ambiguo, raccontato per immagini da Gianni Amelio. Negli anni scorsi, Budafel, Pinar, Cartagine.
In questi ultimi anni le barche e gli uomini non hanno neanche più nomi, persi in quella lingua oscura che è l’arabo, per noi occidentali. Cento, mille, navi e naufragi, sono lamenti pronunciati o taciuti. Insieme compongono una litania di sofferenze che sembra non avere fine. Quella di un mare che, al di là di tanta retorica, rimane una tragica frontiera acquea.
In Partire di Tahar Ben Jelloun, lasciare il paese, uno dei tanti del Magreb accomunati da miseria e soprusi, è un’ossessione, un chiodo fisso che assilla, tormenta e rischia di uccidere un’intera giovane generazione. Perché per salvarsi sembra esserci solo il partire; bisogna lasciare le proprie coste buie per raggiungere quelle splendenti opposte. Immaginare, ambire e infine partire, per un altrove ricco e felice, a poche miglia oltre il mare.
Il Canale d’Otranto ieri e quello di Sicilia oggi: stretti bracci di mare se visti in televisione, su internet o dal finestrino di un aereo; lunghissimi e pericolosissimi per chi è costretto invece ad attraversarli a bordo di malandati pescherecci, rugginose bettoline, insicuri gommoni. Le cronache di questi giorni riaccendono ancora una volta, in maniera spesso frettolosa e superficiale, l’attenzione sulla dimensione oscura del Mediterraneo. In antitesi alla sua immagine vacanziera, nell’ultimo ventennio, con il riesplodere dei fenomeni migratori, questo mare è ritornato a essere una delle porte d’ingresso privilegiate per l’emigrazione, riprendendo una sua più antica, dura, reale dimensione spaziale ed esperienziale, almeno per quelli che chiamiamo clandestini.
Partenze disperate, navigazioni avventurose, tragici naufragi, perigliosi sbarchi, sono diventate cronache quotidiane. Le barche rabberciate, le piccole flotte, il rimanere a vista, il finire in acqua, le onde infauste; oggetti, personaggi, situazioni apparentemente cancellate dalla nostra modernità riemergono nelle testimonianze di chi, vicinissimo a noi, vive l’altra faccia della contemporaneità. Ci accomunano gli spazi, in questo caso il mare, unici nella fisicità, differenti nell’esperienza e quindi nel significato. Quelle che ascoltiamo e leggiamo sono storie intrise di modernità, fatte di aspirazioni veicolate dalla televisione o da internet, di informazioni scambiate via smartphone o attraverso i social; ma al contempo raccontano una dimensione del mare antichissima, fatta di ansie, paure, drammi, a noi sconosciuti. La memoria storica è breve e le immagini mediatiche del mare, quasi sempre, rispondono a necessità di consumo. Del mare rischiamo di perdere l’autentico significato, la dimensione spirituale.
Il beccheggio, provocato dall’onda mossa da un peschereccio sfilato a prua, mi fa riprendere dal dormiveglia. Sento il calore del sole alzatosi sull’orizzonte, le grida acute di una coppia di sterne, un sentore di resina mescolato al salmastro. Una leggera foschia allunga le distanze, Parenzo è ancora un indefinito bianco all’orizzonte, una nave di pietra in cui spicca l’albero maestro eufrasiano. A poca distanza, l’isola di San Nicolò è uno scuro rimorchiatore impegnato nel traino di quel vascello senza vele.
Appena avrò messo piede a terra voglio ritornare ad ascoltare il silenzio musicato dal mare, dentro la Basilica Eufrasiana. Ogni navigazione è anche un’occasione per scoprire, nelle acque o in me stesso, qualcosa di più dell’Adriatico. Un mare duplice in cui colori e odori del sud si mescolano con quelli del nord, storie d’oriente lambiscono quelle d’occidente. Tutto a volte si sovrappone, come onde piccole e grandi.
Ravenna e Parenzo, prima che italiane e croate, sono città adriatiche.
Un’appartenenza più duratura delle brevi storie nazionali, riemerge nelle attuali differenze linguistiche, le distingue malgrado recenti omologazioni. Sono gli azzurri impastati di cenere dei cieli, gli umori variabili dei flutti e delle nuvole, le mille tessere dorate dei mosaici bizantini.
Da Ravenna a Parenzo la scia della nave frantumata dal vento, indorata dal sole e dalla luna, è un eterno e rinnovato mosaico, ideale prolungamento dei tasselli di San Vitale, Sant’Apollinare, Galla Placidia, Neone, fino a Eufrasio.
Tessere splendenti, di pietre e arti. Tessere preziose, per colori e racconti.
Compongono il filo dorato di una rete stesa lungo tutto l’Adriatico, da nord a sud, da est a ovest. Dalle torbide acque lagunari di Aquileia e Venezia, a quelle limpide di Trieste, Zara, Ancona, Sebenìco, Spàlato, Bari e Otranto. In ognuno di questi porti le navi hanno trovato rifugio, i marinai hanno conosciuto storie guardando volte o tappeti di luce. Il mosaico è una trama adriatica di ascendenza millenaria, l’Adriatico è una trama musiva di luminosità orientale.
Serro gli ormeggi, della vela, della parola.
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Musiche
Calexico – “Algiers”
Calicanto – “De là de l’acqua”
Fabio Mina – “An Improvisation”
Fatoumata Diawara – “Clandestin”
Federico Mecozzi – “Desert Dance”
13 Maggio 2021
| Racconti d'autore
Tessere
Testo inedito di Fabio Fiori
Vittorio Ferorelli e Rita Giannini