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1 Aprile 2021 | Racconti d'autore

Umberto Dei. Biografia non autorizzata di una bicicletta

Testo tratto dal romanzo omonimo di Michele Marziani (Portogruaro, Ediciclo Editore, 2014)

Vittorio Ferorelli e Rita Giannini

Primavera: tempo di bicicletta. Compagna fedele di piccoli viaggi e simbolo di libertà, questa meraviglia della meccanica non perde il suo fascino, che sia di nuova generazione o di antico stampo, come quella dal marchio glorioso di cui narra, in un romanzo che scorre liscio sulle due ruote, lo scrittore riminese Michele Marziani. Ve ne proponiamo le pagine iniziali, ringraziando per la lettura Francesco Angelelli e l’associazione “Legg’io”.

Capitolo I

Quando ho visto brillare gli occhi di Nas di fronte alla mia Umberto Dei, allora ho capito: la cultura è universale, altro che storie. È successo un pomeriggio di quelli in cui la luce nella bottega entra di taglio, quando il cielo è pulito e si sente il profumo dei glicini sul Naviglio.
Il ragazzo è entrato e sembrava un marocchino come gli altri, quelli che vengono a vedere se possono mettersi a posto la bicicletta coi tuoi attrezzi e se va bene ti lasciano un paio di euro. Sennò si portano via pure una chiave o le pezze col mastice. Di solito non m’importa e li lascio venire. Non mi piace che di questa città si dica che c’è diffidenza. Anche se a dirla per intero sarebbe pure così: ci si guarda tutti con un po’ di sospetto, anche qui sulla Martesana. Ma io vengo da un’altra vita, ho imparato che è meglio farsi portar via una chiave che lasciare la gente a piedi in mezzo a una strada.
«Hai del lavoro per me?» mi ha detto Nas. Anzi no, prima si è presentato, mi ha teso la mano, gli ho detto della mia: «È sporca di grasso». Mi ha stretto il polso.
«Me ne intendo di biciclette, ne avevo una al mio paese, una italiana, una importante, almeno per mio padre, una Bianchi».
Già solo pensare una Bianchi tra le dune di non ho capito quale angolo di mondo è una cosa che ti cambia il pomeriggio. Come avrà fatto ad averla suo padre?
«Davvero ti piacciono le biciclette?» ho chiesto. Non ero convinto.
«Sì, molto».
Allora ho voluto prenderlo in giro perché qui di ragazzini che la raccontano un po’ come viene, ne passano eccome. Gli ho detto di guardare in fondo se trovava una bella bicicletta. È andato e ha detto: «Quella».
«Ma tu sai cos’è quella?».
«Umberto Dei» ha risposto, con gli occhi accesi e quel sorriso da mezzo arabo che non gli avevo ancora visto addosso. Nemmeno gli occhiali avevo notato.

Umberto Dei. Questo viene da chissadove, avrà ancora i denti da latte, mastica l’italiano a malapena, entra nella mia bottega e… Umberto Dei.
Se lo raccontassi all’Alice non mi crederebbe. Ma è tanto che ad Alice non ho più niente da raccontare. Sono andato a lungo a trovarla al cimitero del suo paese, pochi chilometri fuori Milano. Ci si arriva in bicicletta proseguendo lungo il Naviglio, passando in mezzo agli zingari che tentano di farti cadere, trattenendo fiato e respiro al cavalcavia che sembra la tangenziale. Tante volte, davanti al marmo col suo nome. Ma un giorno non ho avuto più niente da dire. Ho asciugato la gola, le lacrime…
«Ce l’hai il permesso di soggiorno?».
«Sono studente al Politecnico».
«Ma qualcosa ci vorrà comunque. Un permesso di studio, un…».
Che me ne doveva importare? Ricordo all’improvviso chi sono e mi vergogno di tutte queste domande da poliziotto.
«Vieni domattina alle sette, se hai voglia di lavorare».
Ho dato un orario da duro. Ho ricevuto un sorriso: «Cercavo di pomeriggio, anche la sera, ancora per un mese la mattina sono in università».
«A che ora sei libero?».
«Dalle tre posso essere qui».
«Alle tre allora».
Umberto Dei, mi sono ripetuto fino a sera. Poi ho ritirato le biciclette, legato bene quelle che in bottega non ci stanno. Cinque passi ed è già un’altra porta, quella di casa. Sono basilico e aceto a farsi strada nella penombra. Già, la panzanella. Si fa in mezz’ora, si mangia per giorni. Esce dal frigo la pentola di terracotta coi colori della Toscana e i profumi dell’estate, luccicano anche con poca luce i pomodori, i cetrioli, le cipolle rosse. Cucchiaiate nella ciotola e Grignolino fresco che verso nel bicchiere di vetro spesso. Olio in aggiunta, profumo di quella Sicilia dove con Alice passavamo l’estate. Abbiamo passato un’estate. Una sola. Sufficiente.
Non ho nemmeno lavato le mani, lo vedo dall’unto sulla forchetta, le ditate nere sulla ciotola. Ti stai davvero riducendo male Arnaldo… Macché male, è stanchezza, è sera. Umberto Dei, due parole e mi sono fatto convincere. Magari non sa fare nulla. Grignolino, fresco, ancora un bicchiere.

Capitolo II

La bottega lungo il Naviglio della Martesana ha deciso da sola di essere aperta. È successo una mattina, mentre stavo andando al lavoro. Tutti i giorni: giacca, cravatta, valigetta. E bicicletta. Sì, perché io sono di Ferrara e a lavorare voglio andarci in bicicletta. Tanto più che avevo la fortuna di abitare lungo il percorso dell’unica pista ciclabile che c’è in città. Così la strada era sempre uguale: casa, via Castaldi, discesa ad attraversare via Pisani, poi corsa fino a via Melchiorre Gioia, Naviglio della Martesana, alla fine il traffico di viale Monza fino in ufficio.
«Chi te lo fa fare?» chiedevano i colleghi. Non sapevo rispondere, non l’ho mai saputo.
Poi quella mattina ho capito tutto. Ho forato. A metà del Naviglio. Avevo anche un appuntamento in ufficio. La bomboletta per riparare le gomme non l’ho mai voluta comprare. Spray moderni, lattice, schiuma, non so nemmeno che roba sia, nei copertoni della mia Umberto Dei. Non scherziamo, ho chiuso camere d’aria con mastici e pezze per tutta la vita.
Però quel giorno ero a piedi. In ritardo. Ho chiamato, mi sono scusato. E ho cominciato a cercare.
C’era una ragazza seduta davanti alla casa dei ferrovieri, quella con i glicini. Le ho chiesto se sapeva dove fosse un meccanico di biciclette. Se avessi chiesto di un pornoshop l’avrei vista meno stupita. «Non so». C’è un gruppo di case più avanti. E sul retro un circolo ricreativo, una chiesa. Domando a un gruppo di anziani. Ottengo in risposta ricordi: lì c’era il Nanni, laggiù uno che però era caro, da signori, subito dopo la guerra le biciclette beato chi le aveva… E adesso? Niente.
Ho trascinato piano piano la bicicletta fino al ristorante greco. Ho sbirciato nel cortile della casa subito dopo e ho letto: «AFFITTASI». Ho chiesto se c’era la portineria, ma i portinai stanno scomparendo anche a Milano.
Ho parlato con la proprietaria, mi ha detto che cura tutto l’agenzia. Ho legato la bicicletta. Sono arrivato in agenzia che erano ormai le dieci.

Non la faccio lunga, tanto è ovvio com’è finita: ho affittato l’ala sulla destra, subito dopo al portone, al di là della volta che porta alla casa vicina. La bottega ha preso il posto di un deposito di non so cosa. Ma era già stata officina, mi hanno detto. Ad abitare di fianco ci ho messo un po’ ad andare. Comunque a mezzogiorno ero già senza giacca a vedere i lavori da fare. Con la bicicletta ribaltata in cortile a togliere la camera d’aria con i ferri della borsetta che sta dietro la sella. La camicia bianca cominciava a sporcarsi. La camera d’aria andava messa nell’acqua a fare le bolle. Ma dove potevo farlo?
Alice mi guardava stupefatta, con i panni da stendere sospesi a metà, mentre armeggiavo con arnesi da ciclista in divisa da assicuratore o da bancario. È stata lei la mia prima vicina. Sua la bacinella dell’acqua per riparare il foro nella gomma. Ho chiamato in ufficio. Ho detto che avrei mandato le dimissioni. Che per ora ero malato e non sarei più andato. Mi era cresciuta di colpo, la malattia: tornare ragazzo, quando avevo fatto finta di fare la raccolta del ferro e della carta per la parrocchia. Era il 1974, mi pare, c’era l’austerity, mancava la benzina, il petrolio costava troppo, si girava coi pattini. Non ricordo bene. Però ferro e carta valevano un sacco di soldi. E io volevo la bicicletta.
Mi ha aiutato il vicino di mio padre, quello col camion che portava in giro i funghi, a consegnare la carta e il ferro. E a farmeli pagare il prezzo che valevano. Ho sgobbato mesi. Ho trovato la Umberto Dei, quella che uso oggi. Anche se era sporca, polverosa, con un po’ di ruggine che spuntava qui e là, ho capito subito che era un gioiello e che non c’entrava nulla con tutte le altre biciclette accatastate nell’antro del meccanico.
Lui si chiamava Luigi, vestito con tuta blu da operaio, parlava poco, ma gli si sono accesi gli occhi come i tizzoni delle sue sigarette quando gli ho detto: «Questa è bella, mi piace». «Questa costa» mi ha risposto. «E non è da corsa».
Neppure io sono un ragazzo da corsa, ho pensato. Che poteva importarmi di sudare come Gimondi, come Merckx? Lì, tutti curvi a salire in alto o a sopportare gli sbalzi del pavé della Parigi- Roubaix.
No, io volevo una bicicletta per girare il mondo. Per sognare. Per andare ovunque. E questa mi ricordava quella del nonno, per dirla tutta. Quella che mi aveva promesso, ma che il giorno che è morto è scomparsa tra i parenti. Compresi gli spiccioli, avevo cinquantamila lire.
«Con quella cifra mi devi ancora quarantamila lire per la bici così com’è. Poi te la metti a posto da solo».
«E dove?».
«Qui in bottega, così mi dai una mano e ti guadagni i soldi dell’aggiunta».
In fondo era estate. Potevo farlo. È così che sono diventato meccanico la prima volta.

Capitolo III

Ho tirato fuori la mia Umberto Dei Imperiale da dietro alla catasta delle biciclette in un fondo dove il sole entrava soltanto per sbaglio, la luce era poca, lo sporco per terra tanto. L’odore di copertoni, camere d’aria, caucciù, pezze e mastice, a volte arrivava talmente forte da far rimpiangere le Nazionali di Luigi, il meccanico, sempre accese, sempre appese, in bilico a un angolo della bocca. Lui è stato il mio eroe da ragazzo.
Ognuno aveva il suo, al cine, nei fumetti, tra i campioni dello sport. Il mio era Luigi, piccolo, magro, fascio di muscoli, vena al collo evidente, capelli scomposti, tenuti insieme da grasso e sudore, altro che brillantina. Lui sapeva sorridere come nessuno. E insegnava a colpi di tosse.
«Davvero vuoi verniciarla?».
«Sì, è la mia prima bicicletta, vorrei che fosse nuova».
«Guarda che queste nuove non le fanno più; Umberto Dei se n’è andato a costruire biciclette all’altro mondo».
«Ma mi aveva detto lei che le facevano ancora…».
«Sì, le fanno, ma non sono le stesse… Comunque, tra sabbiatura, forno, vernice, devi trovare degli altri soldi, mica pochi. E le cromature poi chi te le fa?».
«Ma la devo tenere vecchia così?» ho chiesto spazientito.
Mi ha risposto la risata a denti gialli di Luigi: «Queste sono capolavori, non sono vecchie mai. Ci vuole solo olio di gomito».
«Olio di cosa?».
«Vabbé, sei ancora un bambino…» e mi arriva uno scappellotto sopra il ciuffo: «Fatica, intendo». Fine delle parole. Tra le mani una spugna e un barattolo di non so cosa, denso, puzzolente, bianchiccio, quasi una malattia. Sgrano gli occhi e lui: «Si fa così». Via di crema e spugna e olio di gomito, di collo, di ginocchia sbucciate a forza di stare in terra per stringere la forcella. Ci vogliono almeno trenta ore di lavoro per riportare in superficie la vernice di una Umberto Dei.
L’ho imparato nel 1974. È così anche oggi. Alla fine eravamo irriconoscibili: il telaio della mia bicicletta, le mie ginocchia, i muscoli delle braccia. Nell’antro scuro di Luigi ero diventato un piccolo uomo. In un’estate, lucidando una bicicletta. La mia.
[…]

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Foto
Umberto Dei “Imperiale”, 1938 (foto di Massimiliano Di Martino)

Musiche
Astor Piazzolla – “El Viaje” (versione n. 2)
Enzo Jannacci – “Prendeva il treno”
Frankie hi-nrg mc – “Pedala”
Fulminacci – “Le biciclette”

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