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16 Settembre 2021 | Racconti d'autore

Un attimo prima che volasse

Racconti di Roberto Giacometti tratti dal libro “Chissà se Miranda verrà” (Adria, Apogeo editore, 2020)

Vittorio Ferorelli

Al suo esordio letterario, Roberto Giacometti dimostra un’abilità non comune nel misurarsi con il racconto breve e un gusto particolare per le fughe dell’immaginazione. Lo scrittore Diego Marani ha paragonato le sue piccole storie ai viaggi trascorsi al finestrino di un treno: “dove quel che vediamo là fuori è per forza tutto vero, o forse no, e comunque non lo vedremo mai più”. Ve ne proponiamo due, lette dall’attore Faustino Stigliani.

Il segreto

«Dai scricciolo… pedala!» dice nonna Gemma rubizza sotto il sole di agosto, a cavallo della sua Bianchi, a quel ricciolino di venti chili tutto nervi lì davanti che frulla frulla su un biciclino buffo che per far due metri bisogna fare dieci pedalate.
«Guarda avanti!» bisogna dirgli ogni tanto, sennò quello si perde con le leve del cambio e poi guarda in basso tutto soddisfatto la catena che si muove fra i rapporti belli unti della sua nuova bici da montagna anche se siamo in pianura. Ma cosa importa: quel che conta è immaginarsele le cose.

A 48 anni nonna Gemma ha i capelli ancora biondi, tenuti raccolti, e due occhi verdi e le gote rosse e le gambe tornite che quando passa per Pontegradella quelli del bar si azzittiscono un attimo e la lasciano sfilare sotto l’occhiata più educata che riescono a produrre, loro che non sono certo uomini da salotto. Ma alla Signora Gemma guai a mancarle di rispetto, perché è una donna in gamba e molto colta e per giunta bella. E anche perché a Tino che le aveva detto delle parole lei gli ha sparato una fucilata a sale in mezzo alle gambe, tanti anni fa. Ma nel bar se lo ricordano bene perbacco, una fucilata in mezzo alle gambe non si scorda.
Sulla strada di Pontegradella nonna Gemma sta dietro gli 8 anni di Luca, vivacissimo figlio unico della sua unica figlia Giovanna di 31, cosicché si calcola che Gemma ha avuto Giovanna quando aveva 17 anni e Giovanna ha avuto Luca quando ne aveva 23. Già questo è un fatto insolito, ma quel che stupisce di più in paese è che le due donne non hanno marito e da quel che si sente dire nemmeno lo vogliono.
Si dice che il papà di Luca sia un bagnino di Milano Marittima che deve aver mezzo violentato la ragazza, anche se al bar c’è chi dice che è stata lei che se l’è cercato e questo tizio non sa neanche di essere padre.
Chi sia andato a letto con la Signora Gemma quando era una ragazzina invece nessuno lo sa, ma tutti lo invidiano perché dev’essere stata una gran cosa.
Vivono nella villa col podere che era del papà di Gemma, il Dottor Saverio Zoboli che aveva la condotta per Baura e Pontegradella. Un bel po’ di terra l’hanno dovuta vendere, ma gliene restano ancora 90 ettari e se la cavano bene e si arrangiano senza fattore, anche se a Giovanna mancano due dita lasciate nella presa di potenza del trattore. Tanto non si nota perché è una che non adopera smalto per le unghie.
È tutta intenta nonna Gemma a riparare il bimbo dalla traiettoria delle auto che maledette ti passano a un soffio, quando sente un cigolio di catenarie lontane e si volta e assottiglia gli occhi per mirare bene e poi li spalanca. E quando infine vede si blocca:
«Fermati Luca fermati!».
«Cosa c’è nonna?».
«Vieni qui, fermati un attimo…».
«Hai bucato?».
Nel campo che costeggia la strada – la tenuta che era stata di Alvoni, quella carogna morta e sepolta – il nuovo proprietario sta livellando i terreni con una ruspa che adesso sta dirigendo pericolosamente verso un boschetto d’alberi, unico scampato alla regola agronomica che vuole campi lisci come tavoli da biliardo.
Fra quei pioppi neri che facevano da confine ce n’è uno alto come un palazzo, ultimo del filare, dove c’è il rifugio, una capanna di legno costruita ad arte dal fattore degli Alvoni fra i rami più grossi, perfettamente mimetizzata tanto che la si distingue solo da vicino. Martino Alvoni la carogna l’aveva fatta costruire per starci dentro nascosto a caccia, perché lì una volta c’erano i maceri e un sacco di selvaggina e a lui piaceva sparargli a tradimento alle bestiole. In paese gli davano del mezz’uomo per quel metodo di caccia poco onorevole, ma a lui piaceva un sacco e quando gli andava bene appendeva alla baracca le prede in bella vista e neanche gl’importava di mangiarsele.
Gli unici ad apprezzare il nascondiglio erano naturalmente la giovane Gemma figlia del Dottor Zoboli e tutti gli altri ragazzini della zona, a cui però era vietatissimo avvicinarsi sennò Martino Alvoni gli sparava anche a loro, compresi i suoi figli, quella carogna.
Si avvicinano lasciando le biciclette sul ciglio della strada e adesso nonna Gemma non dice una parola, tiene per mano Luca e guarda minacciosa la ruspa che avanza.
«Ehi giovanotto!» grida sbracciandosi «Non vorrà mica tirar giù anche questi vero?».
Rassicurata sulle intenzioni dell’operaio di andare solo a cercare un po’ d’ombra per la pausa di mezzogiorno, nonna Gemma tira un respiro di sollievo con un’imprecazione dialettale non tradotta al bimbo, che demorde dall’intento di capire solo quando distratto da un argomento più interessante:
«Vieni Luca, ti faccio vedere un rifugio segreto!».
C’è ancora un abbozzo di scaletta per salire, anche se tutta la struttura, visitata da gente di poco rispetto, è ormai sgangherata. Tira e molla riescono ad arrampicarsi e nonna Gemma bisbiglia che lo deve portar via prima che vada tutto a pezzi.
«Cosa nonna?».
«Attento ai chiodi… eccolo!» Lo sguardo le si illumina di fronte ad un pezzo di legno apparentemente qualsiasi.
«Cosa c’è?».
«Guarda qui… vedi queste iniziali?». Una G e una A sono racchiuse da un cuore e c’è una data: 5-12-1964.
«Le ha incise tuo nonno… la G di Gemma sono io e A era lui».
«Il nonno il papà della mamma?».
Gemma a questo punto capisce che deve dare qualche spiegazione.
«Sì, tuo nonno Alberto».
«Ma mio nonno non si chiamava Dario?».
«No, si chiamava e si chiama ancora Alberto. Finora ti abbiamo raccontato una piccola bugia, ma adesso che sei grandino ti spiegherò tutto… a patto che tu tenga il segreto».
Luca giura e stragiura con tutte le mosse che conosce per queste occasioni e così s’incamminano per il ritorno, la nonna con la tavola col cuore sotto il braccio ed entrambi portando la bicicletta a mano.

Tornano a casa e lì seduti sul prato li vediamo parlare fino a sera e abbracciarsi diverse volte anche con Giovanna che nel frattempo è arrivata, anche tutti e tre insieme come fossero una banda di complici o una squadra di rugby, e noi che abbiamo il potere di stare nell’aria a osservare ed ascoltare le cose più belle senza essere visti sappiamo adesso chi ebbe la fortuna sfacciata di fare l’amore con la bellissima Gemma Zoboli, figlia ancora sedicenne del medico condotto di Pontegradella e Baura, l’unica volta che lo fece e che le bastò per rimanere incinta, di nascosto nella baracca sul pioppo di quella carogna di Martino Alvoni, con un freddo che però neanche si sentiva, con l’emozione e la paura e la passione e con una promessa, e poi negli anni con una speranza consumata e infine infranta.
E adesso sappiamo di come una donna possa decidere di non volere più nessun altro uomo per continuare ad amare quello che aveva scelto per tutta la vita, e su questo non vogliamo fare commenti perché ciascuno fa quel che si sente di fare, tanto più quando riesce ad essere comunque una bella persona.
Ma di tutto questo non possiamo dire altro. Custodiremo il segreto che non ci appartiene perché alla Signora Gemma va portato rispetto e se l’hanno imparato anche quelli del bar di Pontegradella, sebbene grazie ad una fucilata a sale in mezzo alle gambe, figuriamoci noi.

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Per Nitta e Mario

Trentacinquenne di aspetto gradevole, sano, onesto,
cultura universitaria, economicamente indipendente,
amante viaggi, cerca compagna pari requisiti possibilmente mora
per conoscenza ed eventuale unione.
Scrivere allegando foto figura intera a Fermo Posta…

Ecco, guarda questo cretino qui. Sarà un bancario frustrato, magari ormai calvo a causa dello stress, che però fa un po’ di palestra e a casa si guarda allo specchio ritirando la pancetta e decide che, insomma, almeno può dire di essere di aspetto gradevole. Farà un paio di viaggi organizzati all’estero ogni anno, comprati a buon prezzo fuori stagione, facendo di volta in volta una pallina sull’atlante per vedere quanto ha girato il mondo. Senza rendersi conto di non aver visto per davvero, là dove sta il senso più profondo di ogni cosa, un bel niente. Quest’uomo è fuori dal mondo. S’è perso e l’ha capito. Vede gli anni che passano, i capelli che cadono e il vuoto tutto intorno. Ed ecco il cretino che decide di lanciarsi dalle pagine del giornaletto locale. Che coraggio! Ci avrà pensato per mesi, e scritto e riscritto l’annuncio cento volte. E cosa pensa di fare il genio? Comincia subito mettendo le mani avanti: “pari requisiti” scrive. Requisiti? Ma che schifezza di parola è? Dio mio, sarà anche che esistono e che contano, ma è orribile chiamarli requisiti. Viene da pensare alla dentatura di un cavallo o all’airbag lato passeggero. E poi la vuole mora, forse perché la vede bene in un tailleur rosso quando lui indossa la giacca Principe di Galles. E poi la vuol vedere prima, per stabilire se la candidata merita una chance o va subito cestinata, lui l’onnipotente e onnisciente sultano che capisce tutto da un cartoncino 10×15. Già si immagina a ritirare quatto quatto la posta per poi andare a casa di corsa e mettersi sul letto e fare un bel respirone – ci siamo! – e aprire le buste con cura e disporre tutte le foto affiancate per i debiti paragoni. Affiderà così il suo destino al Postalmarket dell’amore e se qualche “pari requisiti” – e dunque altrettanto cretina – risponderà e si piaceranno e si sposeranno e avranno dei figli, vorrà dire che avremo perso la ghiotta occasione di vedere accelerata la tanto attesa estinzione della razza dei cretini.

Va bene, adesso che ho ringhiato posso rimettermi tranquillo. Sto diventando come quei cagnetti bastardi bruttini poveri loro, con un dente fuori dal muso che aspettano sul ciglio della strada che passi un chiassoso centauro per abbaiargli contro e inseguirlo forsennatamente per una decina di metri, per poi tornarsene indietro tutti soddisfatti e baldanzosi ad occupare il loro posto. Il loro posto, già. E il mio qual è? È forse questo, oggi 16 agosto a Ferrara, all’ombra delle chiome secolari degli alberi del Parco Massari? Qui in fondo, dove non c’è tanta gente, dove le coppiette si infrattano ad amoreggiare e i guardoni attenti perlustrano? Dove a me piace venire perché c’è il ginkgo? Sarà, ma comunque avverto anche qui quello sfrigolio sotto i piedi che da qualche tempo mi accompagna ovunque. Una vaga sensazione di irrequietezza da carboni ardenti che mi sale dai calcagni e non mi dà tregua.
Io però non sono un cretino e di amore me ne intendo.
E lo ritengo un ottimo requisito.

Ecco vedi, ad esempio… sta arrivando una ragazza, una mamma giovane con la sua bambina di più o meno 8 anni. Per giunta è bella, anzi è bellissima, anzi, oddio, si ferma proprio qui vicino. Mamma mia è stupenda! Ecco vedi, stavo dicendo, adesso mi prende anche l’emozione, io saprei cosa dire a questa qua. Giocano a palla a volo. Sta insegnando alla bimba come colpire di bagher. Io impazzirei in una di queste situazioni dove il 98% del tempo viene impiegato a raccogliere la palla. Guarda invece lei com’è paziente, e come se la ridono. È bellissima anche la bambina, coi capelli neri, lunghi, lucidi e puliti. La mamma invece li porta corti, a caschetto come piacciono a me, e ha il collo lungo e le spalle larghe belle squadrate, la figura snella e i polpacci eleganti ma robusti (si vedono solo i polpacci perché ha un vestitino di cotone rasato a fiori), caviglie sottili, piedi che guardano leggermente all’indentro. Ecco vedi, saranno questi i requisiti, ma non è così che funziona. Funziona che adesso ho il cuore che batte a 100 e mi si è improvvisamente asciugata la bocca. Funziona che la guardo e mi sento travolto da un rapimento amoroso e solo dopo cerco di darmi delle spiegazioni. È solo raccontandolo che si è costretti a descrivere e allora saltano fuori i cosiddetti requisiti. Ma ti pare in tono questa schifezza di parola e il suo brutale stupidissimo significato, con questo splendore di donna e con l’emozione che sto provando? E bada che la bellezza non c’entra. Quella c’è, ma non sta lì il segreto. E il segreto, giacché è un segreto, non ha una spiegazione. Fatto sta che io questa la sposerei domani, con la bambina e tutto quanto, perché tanto so già quello che importa di più, cioè che questa meravigliosa femmina mi dà secchezza delle fauci e tremenda tachicardia. E vivremmo felici per tutta la vita, facendo altri bambini ai quali lei insegnerebbe a colpire di bagher, mentre io suderei beato a raccogliere mille volte la palla. Peccato per il marito, nel senso che avrà un marito. Beato lui. Però fammi vedere, non porta la fede. Buon segno! Potrebbe essere vedova o separata, disgrazie ne capitano a tutti. Magari non si è mai sposata. Oppure non porta la fede solo perché le dà fastidio. Comunque una speranza c’è, o insomma mi piace crederlo perché ne ho bisogno.

Sai cosa le direi? Le chiederei se anche lei viene fin qui perché le piace il ginkgo, che si pronuncia ginko come l’ispettore nemico di Diabolik, ma che si scrive correttamente ginkgo con la “g” in mezzo. Un albero plurimillenario originario della Cina, un tempo diffuso solo in Oriente. Tant’è che il suo nome odierno deriva dal giapponese gin-icho, che vuol dire albero argenteo, anche se in autunno diventa completamente giallo oro e allora non si capisce cosa c’entri l’argento. Ma si sa, per noi materialisti occidentali i giapponesi e le loro tradizioni sono spesso imperscrutabili. E poi le direi, ammesso che non lo sappia già – ma sono certo che farebbe finta di non saperlo per compiacermi – che il ginkgo biloba è un simbolo di immortalità. Bel colpo questo, mica scherzi, farebbe di sicuro un bell’effetto. E infine il mio asso nella manica, col quale si scioglierebbe ogni sua residua resistenza: le mostrerei che ne tengo una foglia secca nel portafoglio, facendole osservare che si dice biloba perché ha due lobi, e che assomiglia a un cuore, ed è per questo che la custodisco con cura.
Quindi, per non soffermarmi troppo su questo idilliaco momento romantico e senza dubbio vincente, comportandomi da vero signore alleggerirei un po’ l’atmosfera, raccontandole di quando da piccolo venivo qui di nascosto marinando la scuola, a tirare al bersaglio con la carabina Diana del mio amico che la prendeva di nascosto al padre. E di quando quel vigile urbano, di ronda in bicicletta nel parco, ci colse sul fatto e ci minacciò di portarci in questura, o forse non era la questura ma il comando dei vigili, dato che lui era appunto un vigile, ma insomma dello spavento che ci colse, a tal punto che al mio amico scappò un goccio di pipì che si diffuse sul davanti dei calzoncini corti, che a quei tempi i maschietti portavano almeno fino alla prima media.
E poi le confesserei che porto sempre qui le mie innamorate e dico loro sempre le stesse cose, anche se in fondo le innamorate non sono state tante e non è colpa mia se non ci sono più, e allora mi sentirei giustificato a ripetere le cose sempre uguali, perché uguali sono il sentimento, il desiderio e la mèta.
E poi le direi che cos’è per me l’amore: l’amore per me è essere in viaggio su una nave, di notte, e sul ponte trovare una piccola fotografia coi bordi dentati e i colori sbiaditi, sbattuta dal vento che quasi la spinge fuori bordo. E raccoglierla, e vedere un ragazzo di nemmeno vent’anni vestito alla marinara, coi capelli folti riportati indietro alla mascagna, il viso dolce, infantile, e gli occhi che parlano.
E guardare dietro e trovare scritto:

Offro con affetto e amore la mia immagine con l’uniforme di marina alla mia Nitta, al mio amore. Ti amo, tuo con un bacione, Mario. 22/5/1955.

E stringerla e carezzarla e portarla a casa e conservarla nel cassetto dove stanno le cose più preziose. E ogni tanto tirarla fuori e pensare che l’amore non si perde mai per sempre, che prima o poi qualcuno lo ritrova.
Poi raccoglierei una foglia del ginkgo e gliela offrirei dicendole: «Questo è il mio, se lo vuoi».

Ecco vedi, finisce sempre così: quello che arriva deve essere il marito. Lo è, perché la bimba gli va incontro festosa.
Andiamo a casa, va’. Metterò un annuncio.

Nota dell’autore
[Il racconto è ispirato da una fotografia] Trovata nel 1992, sul ponte del traghetto Civitavecchia-Olbia, vicino al bordo, mentre soffiava umido il maestrale. Raccolta un attimo prima che volasse via.

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Musiche
Paul Simon – “Train in the Distance”
Tindersticks – “What Are You Fighting For?”
The Mamas & The Papas – “Dream a Little Dream of Me”

Brano corrente

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