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26 Novembre 2020 | Racconti d'autore

Un battistero in fondo al mare

Testo tratto dal libro di Max Picard, “Mondo distrutto e mondo indistruttibile. Viaggio in Italia” (a cura di Gabriele Picard e Mauro Stenico, Bologna, Marietti 1820, 2020)

Vittorio Ferorelli

1949: nel suo viaggio attraverso la Penisola, Max Picard attraversa anche l’Emilia-Romagna e ne scrive nel diario in cui annota ogni immagine vista durante il cammino. Perché per il filosofo svizzero “un’immagine è qualcosa di raccolto, qualcosa che possiede un centro e richiede che pure l’uomo si raccolga in completa dedizione per essa”: esige amore ed esorta ad averlo. Ringraziamo per la lettura Francesco Angelelli e l’associazione “Legg’io ”.

Parma

Fine novembre – Ancora mi ricordavo che la vecchia via Emilia passa attraverso la città, ma così astorico è l’aspetto della città con le sue case, per lo più nuove e per la maggior parte disposte l’una vicina all’altra in modo tanto casuale, che è come se la via Emilia fosse sprofondata nella zona della barriera Vittorio Emanuele, luogo dove essa penetra all’interno della città, per poi riaffiorare nei pressi della barriera Massimo d’Azeglio, ove lascia la città. La via Emilia si presenta come uno spazio indifferente tra le case, come una linea tracciata sulla pianta della città. È però confortante come l’elemento storico non ci venga incontro in modo invadente.
Il duomo e il battistero, invece, non rappresentano storia portata a termine, essi ci stanno dinnanzi come entità vitali. L’intensità con la quale il duomo è delimitato e la verticalità della sua parete fanno presagire questa decisione, quest’ordine: qui bisogna fermarsi, bisogna rimanere, qui si costruisce; le case della città sembrano tende per quegli uomini ai quali è stato ordinato di costruire. Nella metropoli il duomo appare isolato, relegato a sé, mentre qui a Parma non v’è alcun evidente contrasto tra duomo e città.
È sempre quel duomo romanico che mi sta di fronte a sembrarmi anche il più bello. In effetti, la presenza di un duomo romanico è tale che non sono in grado di andarmene per raggiungerne un altro e metterlo a paragone con il primo.
Alla destra e alla sinistra dell’ingresso del portale ci sono due leoni. La loro bocca sembra uno strappo, lo strappo del ruggito, e l’apertura della fauce è come l’ingresso nella caverna del ruggito, e questa, affossata e ricoperta di pietra, è nient’altro che il corpo del leone.
Alla destra e alla sinistra dell’ingresso del portale ci sono due leoni. La loro bocca sembra uno strappo, lo strappo del ruggito, e l’apertura della fauce è come l’ingresso nella caverna del ruggito, e questa, affossata e ricoperta di pietra, è nient’altro che il corpo del leone.
Il battistero romanico pare una pesante àncora, la quale abbia urtato il fondo del mare. Il mare è evaporato, scomparsa la nave, dimenticata l’àncora: le figure su di esso sembrano creature marine rinsecchite e incrostate sulla sua parete.

Passeggiando sotto i portici delle case costeggio numerose vie. Ci si rallegra del loro movimento così delicato: nessuno si chiede dove siano diretti quei portici, anzi, in questa cittadina nessuno chiede mai nulla.
Nella metropoli, invece, vi sono solo domande: la metropoli tutta è ridotta a una perenne domanda, domanda che non vuole risposta alcuna, ma che sempre e solo chiede allo scopo di impedire una risposta.

Giro per la città, nevica. Le case, le piazze, le auto e le persone non contano più nulla: conta solo la neve. Essa scende su di noi dall’alto, come provenisse da molto lontano.
Ancora una volta passo davanti al duomo. La neve vi cade e, mentre cade, il duomo sembra crescere: cadono i fiocchi, ed esso sale sempre più in alto.

Durante il pranzo, al tavolo accanto al nostro, sedeva un uomo che rideva quasi sempre: era un ridere metallico che partiva non appena l’uomo muoveva anche solo un poco la bocca, come una sveglia di poco valore che, non appena la si sfiora, si mette a suonare anche se non è ancora l’ora giusta. Gli altri due che sedevano accanto se ne stavano meccanicamente seri alla stregua di come l’altro meccanicamente rideva.

Una giovane olandese era seduta di fronte a me. Il suo volto era a uovo, come l’uovo di un uccello, e nel volto stesso era contenuta pure l’ampiezza del volo. Parlava piano, e il parlare era come un leggero battito, simile a quello di un pulcino che all’interno del suo uovo si mette a dare dei colpetti leggeri, ma ben percettibili, contro il guscio.

Alla sera rilessi il XXXII capitolo del primo libro di Mosè, l’incontro di Giacobbe con l’angelo: «[Giacobbe rimase solo] e un uomo lottò con lui fino allo spuntar dell’alba. Vedendo che non riusciva a vincerlo, lo colpì all’articolazione del femore, e l’articolazione del femore di Giacobbe si slogò, mentre continuava a lottare con lui. Egli disse: lasciami andare, è spuntata l’aurora. Ma lui rispose: non ti lascerò, se prima non mi avrai benedetto».[1]

Si tratta di un passo di originaria e durevole incomprensibilità, un passo che da parte dell’uomo non può essere chiarito, quasi un geroglifico nel vero senso della parola: un segno sacro che è in attesa di un altro segno. È un qualcosa di incomprensibile che appartiene all’inafferrabilità di Dio, qualcosa di inafferrabile che si situa nel nostro tempo, nel tempo di noi esseri umani, ma che in ogni momento può venir reso chiaro da Dio e che ci indica un futuro nel quale Iddio lo spiegherà.

È un abisso dell’incomprensibile, e le parole umane altro non fanno che girare timide attorno a questo abisso. Il mondo tangibile finirebbe per essere risucchiato nell’abisso di quest’incomprensibile, se non fosse che esso si fa in tutto e per tutto saldo ed evidente. È per questo che il mondo tangibile nell’Antico Testamento è tanto saldo ed evidente, come costruito con larghi quadroni di pietra.

[…]

Ravenna

10 dicembre – La città possiede un non so che di slavato, di svuotato, fin quasi di povero, un qualcosa di quasi coscientemente impoverito. Ravenna non ha centro: non si può dire che piazza Vittorio Emanuele lo sia, perché è come se la piazza fosse stata comandata in un qualche altro luogo e poi portata qui. Le strade divergono, le file delle case vogliono pure smarrirsi e disperdersi, quasi che tutto voglia allontanarsi da ciò che un tempo era stato il centro della città, da quella che fu la sua storia bizantina, ostrogota e longobarda. Le antiche chiese cristiane, San Vitale, Sant’Apollinare Nuovo, il battistero degli Ortodossi, Sant’Apollinare in Classe, hanno qualcosa che ricorda una fortezza, ma non una fortezza che se ne sta sola: ognuna costituisce una specie di bastione di un’intera catena di fortezze.
Il mausoleo dell’imperatrice Galla Placidia: è come se fosse stato costruito sottoterra e poi tirato in superficie, ma intorno v’è rimasta tutta l’oscurità del sotterraneo. C’è una croce sulla pietra della parete, quasi la pietra l’avesse scavata da se stessa. Tanto potente è in questo luogo l’elemento sotterraneo che la luce ancora non osa avvicinarsi, è una luce quasi non terrestre, lo splendore proveniente dallo sfondo dorato dei mosaici.
Mi piace come lo straordinario dei mosaici sia circondato dalla completa quotidianità di questa città. Lo straordinario ama essere circondato dall’abituale, così si mantiene intatto in tutta la sua particolare essenza. È per questa ragione che Iddio ha lasciato che fossero dei semplici pastori, e non chissà quale importante genio, a comunicare agli uomini la straordinarietà di un messaggio.
Le figure e i volti sui mosaici in Sant’Apollinare Nuovo sono quasi tutti uguali: l’esser-ci conta più della differenza dell’uno rispetto all’altro, anzi, la differenza risulta dissolta nella presenza. La verità non si trova presso il singolo, bensì è lo splendore che riluce da quello sfondo dorato e che circonda tutti. Raramente c’è qualcosa di tanto contrapposto come l’esistenza di quella comunità, in alto, sulle pareti laterali di Sant’Apollinare Nuovo, e l’uomo isolato d’oggi. Se anche si togliesse una sola delle figure da lassù, tutte le altre la seguirebbero, tanto intensamente l’una appartiene all’altra.

11 dicembre – Passeggiando lungo corso Garibaldi ho incontrato il professor L. di Berlino. Tutto ciò che egli raccontava su Ravenna, sulla sua storia, sul decadimento dell’oggetto negli ultimi cento anni era vero, eppure io non gli credevo. Non osavo osservarlo con attenzione, per qualche motivo provavo vergogna per il suo volto: le singole parti di quel volto non possedevano più la loro peculiare e compatta forma, parevano quasi avervi preso posto in maniera del tutto casuale, tanto da sembrare interscambiabili tra loro. In quel momento pensai a quanto Hegel afferma a proposito del volto umano: «Le componenti del volto appaiono in se stesse autonome e pertanto vicendevolmente libere». In questo volto non si rinveniva alcuna libertà, e neppure il contrario di questa, un incatenamento, tutto era soltanto provvisorio e casuale. Allo stesso modo, anche la verità risultava in quell’uomo provvisoria e casuale. La verità non era più verità, anzi, non appena essa veniva affermata per bocca di L. sembrava rattrappirsi, come accade a un vegetale che, miseramente pressato tra le pagine di un erbario, si raggrinzisce: così la verità non era più null’altro che un’entità rattrappita, indigente e pressata.
[…]

In città v’è mercato. Su piazza Vittorio Emanuele i contadini sono raccolti in gruppi fitti: come acini d’un grappolo d’uva, come terra essi sono coesi l’uno con l’altro.
Passando per corso Garibaldi arrivo davanti al Palazzo di Teodorico. Oggi pare che la facciata di una casa venga costruita in chissà quale altro luogo, poi rapidamente portata a destinazione, e quindi in fretta eretta. In questo palazzo, per contro, il muro fece fatica a ergersi verso l’alto, quasi fosse dovuto andare alla ricerca della via da percorrere per arrivarvi: il muro, salendo per tappe, sembra arrestarsi lungo il cammino, per poi riprenderlo di nuovo con cautela e quasi con timidezza. Se venisse aperto, si potrebbero ancora rinvenire al suo interno i passaggi e i sentieri percorsi per giungere in cima.
È strano come non ci sia alcun contrasto tra il tempo di questo palazzo, le antiche chiese cristiane del V-VI secolo con i loro mosaici e l’epoca attuale, quasi che ogni epoca vivesse per conto proprio, come se le altre nemmeno esistessero.
Talvolta mi parve che Ravenna, la parte di Ravenna sprovvista delle chiese cristiane primitive, si inserisse nella vacuità del tempo odierno, nel quale molto accade ma non esiste più storia.
È dal 1914 che sembra non esistere più alcuna storicità: è come se gli eventi venissero scaraventati in un qualche cosa di amorfo e perennemente in movimento, ed è questo elemento amorfo e mosso a rappresentare ciò che è primario, è quest’ultimo che esige avvenimenti, anzi, che li provoca per attirarli a sé. Sempre più cose accadono, e con ciò viene creata una parvenza di storia, mentre la storia, quella vera, viene presa in giro. Dal 1914 è come se gli eventi venissero portati su un autocarro e da questo scaricati per venire poi ammassati su altri, e già giunge un altro autocarro. È come se una grande riserva di eventi dovesse ancora venir rapidamente smaltita, come se non esistesse più il tempo nel quale gli avvenimenti stessi hanno la possibilità di esistere realmente. Ciò non rappresenta più un incontro tra uomo e storia, bensì solo un disbrigo di primordiale materiale storico tramite l’essere umano.
È probabilmente per questo che la storia corre oggi così veloce, perché l’uomo non ha più alcuna presenza [2]: egli prende l’evento non più per qualcosa che gli sta davanti, bensì per qualcosa che già è liquidato prima ancora di manifestarsi, tanto l’uomo non gli sta più di fronte. Ogni avvenimento che lo tocca è già respinto in anticipo, o da parte sua o da parte di un altro evento, prima ancora di raggiungerlo.
È solo con la dedizione che l’essere umano può trattenere un avvenimento, ed è solo attraverso la dedizione che l’evento è veramente presente. Grazie all’amore viene generata presenza, viene generato tempo: nel tempo generato dall’amore, un evento non se ne fugge più e può avere la sua durata. Ma se all’evento viene a mancare la dedizione umana, esso, non più trattenuto, se ne scivola via rapidamente, e a un evento ne segue un altro, senza che vengano più generati né presenza né tempo, consumati a loro volta. Ed è questo che succede oggi, quando non solo lo spazio, ma anche il tempo risultano contratti.
L’intensità del presente ha la forza per attirare a sé, come per effetto di un’esca, anche il passato, ed è pure in grado di plasmare il futuro, in modo che quest’ultimo irrompa meno precipitosamente.

12 dicembre – Da Ravenna cammino per quasi due ore attraversando un terreno a dune fino a raggiungere il mare. Tuttavia del mare, da qui, non si scorge ancora nulla: c’è solo la sterminata campagna e, al di sopra, il cielo. Lontano, all’orizzonte, il cielo cade sulla terra, e là, dove cade, la terra già lo attende, si ha quasi l’impressione che essa si sia portata là sotto per accoglierlo. A ogni istante il cielo distende sempre più oltre la curvatura della sua volta, quasi a voler sorpassare la terra che tuttavia l’ha già preceduto, di nuovo in attesa che il cielo scenda su di essa. Qui non si misura il tempo nel quale tutto ciò accade, qui lo si vede. Tempo e spazio sono in questo luogo tutt’uno.

Ora mi trovo al mare. Qui il cielo sembra più imponente della terra e del mare. In lontananza, all’orizzonte, pare quasi che il mare venga spinto via dal cielo e che se ne fugga. Sulla sua superficie vi sono alcune barche con vele colorate; una di queste sembra quasi un uccello con un’ala spezzata.
In lontananza una barca se ne stava sola e si faceva sempre più piccola: il cielo, davanti a essa, precipitava all’orizzonte, e il piccolo vascello allora se ne tornava indietro, allontanandosi da quel cielo che stava precipitando.

Note
1
. Propriamente: Genesi, 32, 25.
2. «Gegenwärtigkeit»: letteralmente, «presenzialità».

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Musiche
Piano Shop Diaries – “Les quatre cent coups”
Philippe Jaroussky – “Delizie, contenti” (da “Il Giasone” di Francesco Cavalli)
Peter Gregson, Richard Harwood, Reinoud Ford, Tim Lowe, Ben Chappell, Katherine Jenkinson – “3.6 Gigue” (da “Johann Sebastian Bach – The Cello Suites – Recomposed by Peter Gregson”)
Peter Gregson, Richard Harwood, Reinoud Ford, Tim Lowe, Ben Chappell, Katherine Jenkinson – “6.6 Gigue” (da “Johann Sebastian Bach – The Cello Suites – Recomposed by Peter Gregson”)
Jean Constantin – “Les quatre cent coups”

Brano corrente

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