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2 Febbraio 2012 | Racconti d'autore

Un cammino lungo un anno

Di Emilio Drudi, Editrice Giuntina, 2012 (prima puntata)

A cura di Claudio Bacilieri. Lettura di Fulvio Redeghieri

2 febbraio 2012

A Gerusalemme, all’inizio del Bosco dei Giusti, c’è un grande carrubo dedicato a un albergatore di Bellaria, Ezio Giorgetti, il primo in Italia ad aver ricevuto questo onore. Più avanti nel parco, si incontra l’albero in memoria del maresciallo dei carabinieri Osman Carugno. A Giorgetti e Carugno devono la vita 38 ebrei, evasi dal campo di internamento di Asolo subito dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 e arrivati a Bellaria il giorno 13.  
Le vicende di quei terribili giorni, che ebbero come scenario una Romagna dove la Resistenza armata coinvolgeva un numero crescente di forze di varia estrazione, dai comunisti ai cattolici ai liberali, che si contrapponevano ai nazifascisti, sono raccontate da Emilio Drudi in questo libro fresco di stampa, “Un cammino lungo un anno. Gli ebrei salvati dal primo italiano ‘Giusto tra le Nazioni’”, pubblicato con la collaborazione della Regione Emilia-Romagna e con la partecipazione della Provincia di Rimini.

L’arrivo a Bellaria

Il primo giorno

 Bellaria, 13 settembre 1943. È quasi l’una di pomeriggio. Il sole ancora caldo sembra voler prolungare l’estate. Ma la spiaggia è semideserta. I turisti se ne sono già andati quasi tutti. Del resto, con la guerra che dura ormai da più di tre anni, non ne sono arrivati tanti. In paese ci sono però numerosi altri “forestieri”: gli sfollati, intere famiglie che hanno scelto la costa romagnola per sfuggire la paura dei bom­bardamenti sempre più frequenti nelle città del Nord Italia o per allontanarsi dalla linea del fronte che avanza dal Sud, dove gli alleati, sbarcati in Sicilia in luglio, sono ormai alle porte di Napoli.

Un camion procede lentamente sul lungomare. Il pianale di carico è zeppo di donne, uomini, qualche anziano, bambini: una trentina di persone, strette tra valigie e grossi bagagli. Sembrano anche loro famiglie di sfollati, in fuga dalla guerra. A giudicare dalla targa dell’autocarro, Padova, dovrebbero venire dal Nord. L’autista guida piano. Ogni tanto rallenta ancora di più, come se cercasse qualcosa. Alla fine si ferma davanti all’hotel Miramare. È l’albergo più lussuoso di Bellaria. Sono famo­se le feste che si tengono nei suoi saloni, frequentate da ospiti eleganti che arrivano da tutta la riviera, anche via mare: i motoscafi attraccano a un lungo pontile che dalla prima secca si spinge sino a una comoda passerella sulla spiaggia. Lo gestisce Giovanni Giorgetti, un commerciante di San Mauro Pascoli che ha deciso di puntare sul turismo, aiutato da due dei tre figli, Piero e Luigi.

Dal camion scendono due uomini. Uno sulla cinquantina, l’altro molto più gio­vane. Si guardano un attimo intorno e poi puntano verso l’ingresso del Miramare. Chiedono subito di Piero. Hanno per lui una lettera di presentazione scritta dalla contessa Clara di Asolo, che ogni estate proprio lì al Miramare è solita trascorrere lunghi periodi di vacanza. Piero è tra i suoi “amici del mare” più assidui. La contessa ora gli chiede di trovare una sistemazione in albergo per le famiglie di quei suoi due conoscenti, l’avvocato Ziga Neumann e il dottor Joseph Konforti. Anche soltanto per qualche giorno. Piero non ha esitazioni: ci tiene a fare un favore a Clara. Ma non se la sente di decidere da solo: sa bene che, nella gestione dell’albergo, l’ultima pa­rola spetta sempre a suo padre. Così accompagna Neumann e Konforti da lui. Anche Giovanni è gentile, ma quanto a ospitare tutti al Miramare non se ne parla: forse si insospettisce per l’aspetto insolito di qualche anziano del gruppo, con indosso abiti che non sembrano di taglio italiano e col viso coperto da una lunga barba. O for­se più semplicemente non vuole in albergo famiglie di profughi. “Siete troppi – si giustifica – Nell’hotel ci sono ancora tanti turisti. Non ho stanze sufficienti per 27 persone”. Piero cerca di insistere a lungo, Neumann spiega che sono pronti anche a stringersi nelle camere disponibili. Tutto inutile: Giovanni è irremovibile. Però

prospetta una alternativa: dice a Piero di accompagnare tutto il gruppo in un albergo poco distante, a Igea Marina: a quanto ne sa. è ancora aperto.

Neumann e Konforti escono, seguiti da Piero. Salgono insieme sul camion, che riparte, girando alla prima via che porta verso l’interno e puntando in direzione del ponte sull’Uso, il fiume di Bellaria che, nell’ultimo tratto prima della foce, fa da porto canale: sull’altra riva comincia Igea Marina. L’autista procede sempre lenta­mente perché non conosce la strada e le vie del paese sono molto strette. Poco dopo viene raggiunto da un uomo in bicicletta, che ha preso una scorciatoia attraverso alcuni viottoli di sabbia battuta tra le casupole del borgo marinaro. È Ezio, il primo dei tre figli di Giovanni Giorgetti. All’inizio, quando il Miramare era stato appena comprato da suo padre, anche lui ha collaborato alla gestione. Ma poi, insieme al­la moglie Libia, ha deciso di “mettersi in proprio”, acquistando un altro hotel. Fa cenno al camionista di fermarsi e al fratello Piero di scendere. I due si appartano e cominciano a discutere in dialetto. Neumann, Konforti e gli altri profughi ammassati sull’autocarro non capiscono una parola, ma ne seguono ogni mossa con attenzione: Piero sembra avere soggezione di quello strano sconosciuto, magro e scuro di carna­gione, apparso all’improvviso da un sentiero laterale e che ora sembra rimproverarlo di qualcosa.

Ezio, in effetti, è piuttosto arrabbiato: ha saputo di quel gruppo di quasi trenta sfollati e si chiede come mai né il padre, né Piero, se al Miramare non c’era posto, non li abbiano dirottati verso il suo albergo, che in quei giorni sta chiudendo per la fine della stagione estiva. “Sai bene – dice a Piero – che ho bisogno di soldi. Una trentina di clienti, di questi tempi, non sono poca cosa”.

Qualche minuto, e tornano verso il camion. Ezio si presenta e spiega a Neu­mann quel suo strano, forsennato inseguimento: ha anche lui un albergo e, se vo­gliono, è pronto ad ospitarli tutti. Rimanderà la chiusura stagionale proprio per loro. Piero tenta ancora di protestare, ricordando, sempre in dialetto, la decisione, anzi, “l’ordine del babbo”. Ma Ezio ormai ha deciso: fa un gran sorriso al gruppo di pro­fughi, come a rassicurarli, e poi ordina all’autista di seguirlo.

Neumann, Konforti e gli altri sono perplessi, ma intuiscono di non avere altra scelta. Il camion inverte la marcia e torna verso la spiaggia. Ezio lo precede pedalan­do veloce, imbocca il lungomare e si ferma poco dopo il Miramare. Il suo albergo è proprio lì accanto: è il Savoia, una grande villa liberty dei primi del 900. Ezio l’ha acquistata nel 1936 dalla famiglia Lugaresi di Cesena e trasformata in un elegante hotel, circondato da un ampio giardino e con vista diretta sull’arenile. La moglie, Libia Maioli, proprio quel giorno ha avviato i preparativi per la chiusura invernale: sono rimasti ormai soltanto una decina di ospiti, che devono partire di lì a pochissi­mi giorni. Ma con l’arrivo di quella trentina di sfollati si può sperare di tener aperto ancora, magari sino alla fine di settembre. Le stanze già chiuse vengono preparate e assegnate; apparecchiata come in piena estate la vasta sala da pranzo a grandi vetrate decorate.

La sera, la cena sembra una festa. I “profughi” indossano i loro abiti migliori. Ezio e Libia si danno da fare tra i tavoli. Il menù, compatibilmente con le ristrettezze imposte dalla guerra, abbondante e molto curato. Poi, quasi tutti i nuovi ospiti esco­no a passeggiare sul lungomare e sulla spiaggia, come per “prendere confidenza” con il paese. Ma nessuno tira molto tardi.

Restano alzati solo Neumann e Konforti. Sono i due leader del gruppo. Voglio­no discutere un po’ tra di loro, senza essere disturbati. Esaminare gli avvenimenti degli ultimi giorni, fino all’arrivo a Bellaria. e decidere che cosa fare nell’immediato

futuro. Perché ancora nessuno lo sa, ma quei 27 – uomini, donne, anziani, bambini – non sono sfollati “normali”: sono un gruppo di ebrei, quasi tutti originari di Zagabria, fuggiti il 10 settembre dal campo di internamento di Asolo, in provincia di Treviso, dove erano stati trasferiti da Spalato nel 1941, per ordine delle autorità italiane di occupazione della Jugoslavia. Ziga Neumann è un avvocato molto noto a Zagabria. Joseph Konforti, commerciante e commercialista, ne ha sposato la figlia. Quando Ezio aveva fermato il loro camion si erano visti perduti. “Questa è la fine della nostra fuga – racconterà di aver pensato Konforti in un lungo memoriale scritto nel 1995 – Ora ci arresteranno, addio alla libertà, addio alle nostre vite”.’

Alla fine ritengono opportuno aspettare almeno l’indomani, prima di prendere ogni decisione: vogliono “studiare” la situazione a Bellaria, capire se possono pas­sare inosservati e, dunque, fermarsi per qualche giorno con un buon margine di sicu­rezza, in attesa di riprendere il cammino verso Sud, per andare incontro agli alleati. Tra l’altro, al momento non hanno mezzi di trasporto: il camion che avevano preso in affitto ad Adria per arrivare a Bellaria, è ripartito quella sera stessa e viaggiare in treno è troppo rischioso.

Il giorno dopo tutti si comportano come “normali” sfollati, anzi, come turisti: vanno in spiaggia, fanno il bagno, oziano un po’ sul lungomare e nel giardino dell’al­bergo. Più di qualcuno conosce abbastanza bene l’italiano. Agli altri è stato imposto di stare il più appartati possibile. A tenere i contatti per l’intero gruppo con Ezio Giorgetti, il personale dell’hotel o eventualmente con abitanti di Bellaria, ci pensano Neumann e Konforti: entrambi parlano correntemente un buon italiano. E, alla fine, decidono di restare a Bellaria almeno fino a quando non si sarà chiarito l’andamento della guerra. Al limite, se possibile, di aspettare proprio sulla riviera romagnola, confusi tra gli sfollati italiani, l’arrivo degli alleati.

La situazione generale sembra favorevole. L’otto settembre l’Italia ha annun­ciato la resa, firmando l’armistizio. Il Meridione è già libero. Gli americani, dopo essere sbarcati il giorno 9 nel golfo di Salerno, si stanno aprendo la strada verso Napoli, mentre sul versante adriatico avanzano i reparti inglesi. La speranza di tutto il gruppo “clandestino” di ebrei è che gli alleati riescano a sfondare in breve tempo la Gustav, la linea difensiva fortificata che il generale Kesserling ha approntato at­traverso la penisola, da Gaeta a Ortona. O che magari la aggirino con uno sbarco più a nord, costringendo i tedeschi a ritirarsi. Neumann, Konforti e gli altri ne parlano a lungo tra di loro. E prevale l’ottimismo: se i “liberatori” sono ormai alle porte, è inutile e troppo pericoloso cercare di spostarsi ancora verso Sud, andando incontro alla guerra, meglio rimanere nascosti a Bellaria, aspettando di essere raggiunti e superati dal fronte.

“Ci sembrava – racconta Konforti nel suo memoriale – di poter restare tranquilli a Bellaria ancora una settimana o due. Eravamo in un posto piccolo, lontano dalle strade principali. Anche il treno qui è secondario. Eravamo tutti d’accordo di essere scesi abbastanza e non valeva la pena di continuare a viaggiare ancora verso sud (…). A noi sembrava di essere già liberi. Era solo una questione tecnica. E anch’io, che ero considerato un incorreggibile pessimista, ero d’accordo con gli altri. Così decidemmo di restare, finché il turbine non si fosse calmato”.­

Ma per poter vedere la fine del “turbine”, in realtà, dovrà passare più di un anno. Avrebbe dovuto farlo capire subito – nonostante la ventata di euforia portata dall’annuncio dell’armistizio – la durissima resistenza tedesca sul fronte dello sbar­co di Salerno. Il generale Clark, comandante della quinta armata americana, contava di raggiungere Napoli il 13 settembre. La battaglia nell’immediato entroterra della

linea di sbarco dura invece fino al 18 e gli alleati entreranno a Napoli soltanto il primo ottobre: quando arrivano le prime autoblindo inglesi, la città si è già liberata con la rivolta popolare delle “quattro giornate”. E anche sulla costa adriatica, dove combatte l’armata del maresciallo Montgomery, il fronte si rimette in movimento solo la notte tra il due e il tre ottobre, quando viene occupata Termoli e inizia la battaglia per superare il Biferno.

Intanto, già a partire dal 10 settembre, le divisioni tedesche hanno cominciato ad occupare tutta la penisola: l’esercito italiano, lasciato senza direttive dalla fuga del re Vittorio Emanuele III e del governo Badoglio a Brindisi, si è sfasciato senza opporre che qualche isolata resistenza. È l’attuazione del piano Achse, fatto scattare dall’alto comando nazista la sera dell’8 settembre, pochi minuti dopo aver ricevuto dalla radio la conferma della resa italiana. Presto truppe tedesche arriveranno anche a Bellaria: all’inizio di ottobre un reparto della 65′ divisione di fanteria, schierata già dal 13 settembre tra Ravenna e Rimini, si accampa sulla riva sinistra dell’Uso, nella folta macchia di tamerici. E rinasce il fascismo: Mussolini, liberato il 12 set­tembre dalla “prigione” del Gran Sasso da un commando di paracadutisti guidato dal capitano Otto Skorzeny, fonda il “fascio repubblicano” e verso la fine del mese la Repubblica Sociale Italiana. Uno dei primi provvedimenti è l’inasprimento delle leggi razziali antiebraiche varate nel 1938.

Seconda puntata

Ezio Giorgetti nella rubrica Protagonisti su RadioEmiliaRomagna

La storia di Ezio Giorgetti su Vista da vicino, la Regione dalla Tv al Web

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