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11 Giugno 2009 | Racconti d'autore

Un Paese non basta

di Arrigo Levi, Il Mulino, Bologna, 2009 (parte prima)

A cura di Claudio Bacilieri

11 giugno 2009

Il Novecento è stato chiamato “il secolo breve”, come si trattasse di una sorta di Big Bang dove si è concentrata ed è esplosa tutta l’energia della storia. A rileggerlo con gli occhi di Arrigo Levi, grandissimo giornalista che ha appena dato alle stampe per i tipi del Mulino un intenso libro di memorie e riflessioni, “Un Paese non basta”, il Novecento è uno schermo su cui scorre la pellicola dei giorni, da quelli fortunati e avidi di felicità dell’adolescenza trascorsa in un’agiata famiglia della borghesia ebraica modenese, a quelli cupi delle leggi razziali che ne rompono l’incanto, a quelli smarriti negli occhi di un ragazzo che con la famiglia attraversa in nave l’Atlantico per trovare salvezza in Argentina, rivivendo a suo modo la mitologia dell’ebreo errante. Che poi lo porterà a diventare cosmopolita e giornalista, ma anche, nel 1948, dopo il rientro in Italia, a partecipare alla nascita d’Israele.

Arrigo Levi, nato nel 1926, dopo una lunga carriera iniziata in Argentina – e che lo ha visto corrispondente da Londra e da Mosca, conduttore del telegiornale Rai, inviato speciale e redattore capo de “La Stampa”, capo editorialista del “Corriere”, scrittore e autore di programmi televisivi – è approdato al Quirinale. Dove è stato consigliere del Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, come attualmente lo è del Presidente Giorgio Napolitano.

Un paese non basta
di Arrigo Levi

Giornalista per caso

Sono diventato giornalista più per caso che per voca­zione; e da giornalista mi è capitato di essere testimone, e in qualche caso di avere anche una pur minima parte, negli eventi, ora fortunati ora infelici, del secolo che si è da pochi anni concluso. Al nuovo secolo, e al nuovo millennio, ho fatto in tempo ad affacciarmi, da spettatore interessato, e alquanto apprensivo, di una storia incompiuta.

 Ma non ho vissuto per mia scelta questa vita di giornalista. Da bambino, e fino al giorno in cui, nel settembre del 1938, arrivarono le leggi razziali, avevo sempre pensato che avrei fatto l’avvocato, a Modena, come mio padre Enzo, e come il nonno Alberto. Sarebbe toccato a me prendere il loro posto nello studio al pianterreno rialzato di casa Levi, in corso Canalgrande 1, visto che mio fratello Alberto, più vecchio di me di nove anni, dopo essersi laureato brillante­mente in legge a Pisa, nella scuola di Giurisprudenza della Normale, famosa ed ambita, che aveva allora nome di Collegio Mussolini (e che si dimostrò un vivaio di antifascisti), era destinato, o così sembrava, alla carriera universitaria. Sarebbe dovuto anzi partire per l’Ungheria pochi mesi prima di quel fatidico settembre con una borsa di studio, che però gli era stata inspiegabilmente rifiutata. La prima avvisaglia, in realtà, della tempesta che stava per scatenarsi sulla testa degli ebrei italiani.

Quel giorno di settembre del 1938, che cambiò la mia e la nostra vita (ma non sapevo, nessuno di noi sapeva allora che le nostre probabilità di sopravvivere, a partire da quel giorno, erano poche: ogni ebreo europeo della mia generazione è uno scampato, un sopravvissuto, un uomo amaramente fortunato), avevo dodici anni. Eravamo, come tutte le estati, nella casa di campagna a San Martino di  Mugnano, a otto chilometri dalla Ghirlandina, la casa dove ero nato, in attesa del rientro in città per l’inizio dell’anno scolastico. Avevamo inaugurato quell’anno il nuovo campo da tennis in terra rossa, e ricordo di avere giocato quel giorno con mio cugino Gino, verso sera, nella luce rossa del tramonto, con uno strano languore addosso, consapevole che era accaduto qualcosa di terribile e di misterioso. Chissà perché (lo ricordo come fosse ora), questo languore mi dava una particolare leggerezza nel giuoco. La passione del tennis riempiva allora le nostre estati.

Avevamo ascoltato poche ore prima il radiogiornale che dava la notizia delle leggi razziali, tutti riuniti nella «loggia» – così chiamavamo e chiamiamo il salone della villa – davanti alla radio Erla, un vecchio apparecchio con l’altoparlante staccato. Ricordo altri ascolti davanti alla ra­dio; in particolare, il discorso del duce che annunciava che l’impero era tornato sui colli fatali di Roma. Un discorso di guerra, che annunciava altre guerre. Di quella giornata fa­tale del settembre 1938, Luisa, la più piccola di noi fratelli – aveva otto anni – ricorda che non riuscì a capire bene il significato di quello che dicevano; le fu detto di andare a giocare «coi bimbi dei contadini». La Paola, la seconda Ilei sette, si attaccò a papà piangendo disperatamente fra le sue braccia. All’indomani anch’io feci una scena di pianto (così ricorda Luisa, io non ne ho memoria: i ricordi si selezionano). Pestavo i piedi, facevo domande, e fu allora la Paola, mia dolce consolatrice in ogni momento di crisi, a spiegarmi pacatamente quello che era successo. e quello che stava per succedere.

Quel giorno svanì il progetto di un’esistenza ordinata, che avrebbe dovuto percorrere cammini noti e rassicuranti. Fra le prime leggi razziali vi fu quella che vietava ai giovani ebrei di frequentare le scuole del Regno. Addio dunque al Liceo ginnasio Ludovico Antonio Muratori, dove avevano già studiato prima di me, ovviamente con profitto (ci si aspettava che un Levi fosse, se non il primo, tra i primi della classe), mio fratello e due sorelle, e prima di loro mio padre, in una classe da cui erano poi usciti ben tre avvocati Levi e prima ancora il nonno Alberto: la cui firma, quale rappresentante della sua classe, ho ritrovato in una perga­mena d’onore del 21 ottobre 1872, nel giorno dell’inaugurazione di un busto del Muratori, nel secondo centenario della sua nascita.

Il nonno Alberto aveva un anno di età quando, nel 1858 -tutta la famiglia era dovuta scappare dal Ducato di Modena, per sfuggire all’ingiunzione dell’ultimo duca, Francesco V Battezzarsi, o avere confiscati tutti i beni acquistati fuori dal ghetto: la casa di città, le ville e le terre, i cavalli e le carrozze che avevano reso ricco il mio trisavolo, Laudadio Formaggini, soprannominato «Panza», perché aveva la panza pina ed busii, «la pancia piena di bugie». Come si conveniva a un astuto mercante, ebreo o non ebreo, almeno in quell’epoca.

Questo Laudadio, come racconta mio padre nelle sue Memorie di una vita, era riuscito «abitando prima in ghetto poi fuori, e avendo cominciato all’età di otto anni come sguattero in un caffè», a creare una florida azienda com­merciale, comprando e vendendo cavalli e carrozze. Il «piccolo ebreo» aveva perfino importato «cavalli siberiani destinati a case regnanti», ricevendone doni, e ottenendo appunto dal duca il permesso di comperare terre e case di risiedere fuori dal ghetto. I duchi d’Este lo avevano istituito a Modena soltanto nel 1638, cedendo a malincuore alle pressioni del papa (che l’aveva richiesto nella bolla Cum nimis absurdum del 1555) e della Santa Inquisizione. Questo commercio, confessava mio padre, serviva anche «per mascherare la più lucrosa attività di un contrabbando interstatale, con l’accordo dei dragoni del duca». Temo che questa molteplice attività avesse lasciato, nella memoria famigliare, soltanto sentimenti d’orgoglio; anche se il soprannome «Panza» era rimasto attaccato alla famiglia fino agli anni della giovinezza di mio padre.

Le scuderie di famiglia (non le carrozze di servizio, situate in un’altra casa di proprietà del trisavolo Laudadio, posta di fronte al palazzo ducale), erano in un piccolo edificio sulla via Mascherella, di fronte al fianco di casa Levi. Ancora oggi, per una servitù eterna, l’edificio in questione rimane solo ad un piano, per non togliere il sole alle finestre del «piano nobile» di quella che era, e ahimè non è più, l’«abitazione di privilegio concessa per benemerenze ad un proavo» (come diceva mio padre), che portava, sul cancello di ferro dell’androne, una grande L di ottone: L per Levi, cognome del Fortunato, di nome e di fatto, che aveva sposato la figlia di Laudadio.

Fortunato Levi, mio bisnonno, povero ma chacham, «sapiente» (ultimo, dico io senza averne nessuna prova, di sessanta generazioni di talmudisti, adatta preparazione per l’avvocatura come professione di famiglia), era lo sposo giusto per Eugenia Formiggini, la figlia bella e ricca di un ebreo commerciante, magari anche un po’ contrabbandiere, e assai danaroso, tanto da meritare il privilegio di «uscire dal ghetto». Era abitudine ducale concedere questi privi­legi ad ebrei fortunati; salvo imporre loro, dopo qualche tempo, la scelta tra il battesimo e la confisca di ogni bene. Le finanze ducali, o alternativamente la fede, ne traevano vantaggio.

Laudadio, insieme con la figlia e il genero Fortunato Levi, il nipote neonato Alberto e tutti gli altri famigliari, scelse dunque l’esilio, realizzato con una romanzesca fuga notturna (che ci piaceva farci raccontare da bambini), dopo avere corrotto i doganieri ducali, su carri trainati da buoi con gli zoccoli fasciati; avendo colmato i carri di tutti i beni mobili e portando con sé le ricche gioie di famiglia: in una famiglia ebraica, per antiche memorie, un bene necessario per eventuali fughe. Terra di rifugio, per i Levi-Formiggini, era il vicino Stato della Chiesa, di cui Bologna, distante da Modena poco più di una trentina di chilometri, era la seconda città per importanza, dopo Roma.

Laudadio, sempre onorato in famiglia per questa sua decisione coraggiosa, aveva scelto bene, forse non inconsapevolmente. Un anno dopo – era il 1859 – la secolare storia del Ducato di Modena e Reggio finì, l’ultimo duca fuggì, e i Levi lasciarono Bologna e fecero ritorno nella loro amata Modena, recuperando, sia pure solo in parte, i beni perduti; purtroppo destinati ad essere quasi del tutto ingoiati da un secolo di guerre e di fughe.

A Bologna rimase soltanto il figlio maschio e principale erede di Laudadio, Adolfo Formiggini, dal nome fatidico, di cui si parlava in casa, con preveggenza, come di Dio stramaledésa Adolfo («Dio stramaledica Adolfo»: dopo la nascita dell’Asse Roma-Berlino, e dopo le leggi razziali, raccomandarono a noi figli di non usare mai più in pubblico questa espressione, perché poteva essere pericoloso). Adolfo veniva stramaledetto per, avere lasciato le sue vaste proprietà non al nipote, il nonno Alberto, ma al comune di Bologna, per un’opera pia «Formiggini» che doveva prov­vedere agli usciti dal carcere.

Sennonché, con quei soldi – così, almeno, si diceva in famiglia – il comune comperò il Palazzo di re Enzo, l’an­tico e nobilissimo edificio che fronteggia la grande fontana del Nettuno del Giambologna e il palazzo comunale nella piazza Maggiore, e il cui nome ricorda la prigionia di Enzo re di Sardegna, ghibellino e figlio naturale di Federico II, caduto nel 1249 nelle mani dei bolognesi, guelfi, nella battaglia della Fossalta. Re Enzo era colto e poeta. Rimase prigioniero fino alla morte nel grande palazzo di rossi mattoni, che ci veniva additato, da bambini, dicendoci che in realtà era, o sarebbe dovuto essere, nostro. Il nonno era stato diseredato «per aver voluto fare non il signore a Bologna, ma l’avvocato a Modena». E così finì la ricchezza di famiglia.

In quell’estate del 1938, prima di quella fatidica giornata in cui il re sabaudo, piccolo e timoroso, che già aveva approvato il regime liberticida fascista, firmò le leggi razziali di Mussolini, non dico noi ragazzi, ma forse nemmeno mio padre immaginava che la storia si sarebbe così presto ripetuta. Il quadro armonioso, sereno e sicuro della nostra esistenza, segnata dal ritmo delle stagioni, tra gli inverni in città e le estati nella vicina «casa di campagna» (molto grande e anche bella, d’origine sette-ottocentesca, oggi bi­sognosa di un robusto restauro), stava per spezzarsi. Avanzava su di noi, su tutte le comunità ebraiche d’Europa, sulle moltitudini di ebrei askenaziti dell’Europa orientale, che conservavano la loro forte identità nazionale ebraica, i loro riti e la loro religiosità, come sulla nostra piccola, antichissima comunità di «italiani di fede mosaica», il grande buio dell’Olocausto. Ma noi non lo sapevamo.

L’intervista ad Arrigo Levi

Arrigo Levi, parliamo di “Un paese non basta” partendo da una parola magica, Mutina: Modena. Ci sono due passaggi particolarmente belli: uno in cui lei ricorda i negozi e le attività aperti in città dagli ebrei appena usciti dal ghetto. E l’altro in cui rievoca il rito della villeggiatura estiva in campagna. Hanno ragione Freud e Proust a dire che tutto accade nell’infanzia: tutto quanto è bello ricordare?  

Invece, tra i ricordi dolorosi c’è la “carriera scolastica stroncata dal duce”. Con le leggi razziali del 1938, cambiò la vita dei Levi, agiati ebrei modenesi. Lei ha scritto che le leggi razziali hanno risvegliato un po’ in voi, per reazione, la fede ebraica, che prima era molto flebile. Secondo lei anche l’islam oggi, o una parte di esso, si ricompatta nella fede per reazione a un Occidente con cui non riesce a intendersi?

Ci sono piaciute molto le pagine in cui lei parla della scoperta del deserto, che le suscitava ricordi biblici durante la sua esperienza di combattente per la causa israeliana nel 1948. Per questa martoriata terra, lei riesce oggi a intravedere qualcosa che assomigli alla speranza?

Come Eugenio Scalfari, il fondatore di “Repubblica”, anche lei arrivato a una certa età tira le somme del suo rapporto con Dio. Da ebreo non credente, lei dice, prendendo a modello suo padre, che la sua fede è laica e riguarda i valori civili contenuti anche nelle religioni. Le struggenti cerimonie ebraiche non bastano a confortarla nel pensiero di Dio. Cosa vuol dire allora aver fede nell’uomo, proposito che oggi sembra un po’ disperante?

Ancora una domanda sul libro. Che ricordo ha di Enzo Ferrari?

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