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17 Settembre 2009 | Racconti d'autore

Vite di pascolanti

di Gianni Celati, Edizioni Nottetempo, 2006
seconda puntata

A cura di Claudio Bacilieri

17 settembre 2009

Non un Celati “in minore”, come potrebbe far pensare lo smilzo libretto che si legge d’un fiato, ma il solito, grande Gianni Celati – infanzia e adolescenza ferraresi, cattedra di letteratura angloamericana a Bologna – esperto di “disincanto”. Protagonisti dei tre racconti – vincitori del Premio Viareggio 2006 – sono alcuni studenti liceali che ‘pascolano’ nelle ore notturne per la loro città di provincia, discutendo di filosofia, di letteratura e di sesso. Le donne sono oggetto di un desiderio insieme timido e spericolato, il pensiero di una ruminazione infinita, preludio al successo o al disastro, come nella vita.

Un eroe moderno 

Sono riprese le nostre riunioni serali al Caffè Nazionale, e quel Babbini non l’abbiamo mai piú visto. La saletta dove ci riunivamo era dietro il salone principale pieno di specchi che si affacciava sulla piazza, e lí sostavano i clienti abituali a far chiacchiere. Era il loro territorio riservato, dove ognuno poteva sparare liberamente le proprie panzane, parlando di donne, o di macchine, o di come godersi la vita. Nella nostra saletta appartata noi non disturbavamo nessuno, non parlavamo nemmeno ad alta voce, piuttosto con sussurri come se tramassimo una congiura. Ma proprio per quello dava­mo fastidio ai clienti abituali, che venivano a spiarci dalla porta e poi dicevano: “Parlano, parlano, parlano, ma cos’hanno tanto da dirsi?” A memoria d’uomo non s’era mai visto nessuno cosí immerso nella confabulazione filosofica, e per quello noi suscitavamo molta diffidenza nei cittadini normali senza tante fisime: “Anche stasera, eccoli là, quei cinque stronzi di intellettuali! Guardali, con i libri sottobraccio! Ma chi si credono d’essere, con tutte le arie che si danno?”

Noi eravamo cosí immersi nei discorsi che non badavamo a quelle voci nel salone, e non ci accorgevamo neanche di quelli che venivano a spiarci dalla porta a vetri. C’erano sempre quei dubbi di mezzo, se noi esistiamo davvero in proprio, oppure siamo qui soltanto a fare le funzioni della natura, come un cane o un asino in calore. “Se io sono solo un pezzo di roba qualsiasi per fare le funzioni della natura, vuol dire che non sono del tutto io?” si preoccupava Barattieri. Malaguti ipotizzava: “Poniamo che io sono io al dieci per cento. Può essere che basti per formare la coscienza dei nostri atti?” Barattieri continuava a seminare dubbi: “Sí, ma il resto cos’è? Cosa c’entra con me personalmente questa funzione della natura?”

“Das ist der Wille,” chiosava in tedesco il professor Amos. E cosa sarebbe? A quanto si è capito, si tratterebbe d’una volontà impersonale, ossia d’un moto, conatus, spinta che pervade le cose e gli uomini e gli animali, e ad esempio fa springare i cagnolini in salti e corse se lasciati liberi nei prati. E una volontà della natura che ci trascina a fare certe cose senza che ce ne accorgiamo, precisamente come quando i pensionati spalancano gli occhi appena passa una donna. “Caspita! Non ne sapevo mica niente io! ” brontolava Barattieri.

Un suggerimento con la lingua impastata del professor Amos era questo: quando si parla di se stessi non bisognerebbe mai dirsi “io”. Sarebbe meglio darsi del lei, come se si parlas­se di una persona che ha le solite manie e però che non si sa bene chi sia. Perché quella volontà del mondo incarnata in noi sarebbe come un automa che ci spinge a fare delle cose senza consultarci, oppure un fenomeno impersonale come la pioggia che cade. Infatti in tedesco la pioggia che cade si dice impersonalmente: “Es regnet! “. E dopo Amos ripeteva la battuta in tedesco, per dire che tutto quello che succede è un po’ come la pioggia che cade e uno deve bagnarsi, c’è poco da dire. Di questo poi discutevamo molto, come per toglierci un pensiero; infatti è una cosa che dà molto da pensare, perché se uno la considera bene alla luce di tanti esempi, dopo come fa a dirsi davanti allo specchio: “Io sono io e basta”?

Tra i clienti del Caffè Nazionale ce n’era uno grosso, chiamato Pugni, ex pugile, il quale sognava di rifilare una pestata a quei cinque intellettuali rintanati nella saletta a bofonchiare. Per lui e per un altro ex pugile, chiamato Piombo, noi eravamo come uno spino in una scarpa. Gli sarebbe piaciuto aspettarci fuori dal caffè, e romperci il grugno a tutti quanti, ma in particolare al vecchio professore ubriacone che si diceva fosse stato cacciato dalla scuola perché… Non si sapeva perché l’avessero cacciato dalla scuola, ma Pugni sentenziava con la serenità dell’uomo giusto: “Gente cosí si merita una lezione!” Dalle occhiate capivamo il pensiero dei bestioni, e Barattieri e Malaguti erano preoccupati di prendersi delle botte.

Invece Amos appena vedeva quei due si faceva una risata di contentezza, e passando davanti a quello piú peloso una sera gli ha detto in faccia la sua battuta in tedesco sulla pioggia che cade: “Es regnet!” A sentire delle parole che non capiva, Piombo ha quasi perso il lume della ragione. Dopo andava avanti e indietro per la sala piena di specchi, ruggendo come un leone in gabbia: “Io a quello là gli spacco il muso! Gli rompo la schiena!” Il padrone del Caffè Nazionale faceva gesti per calmare le acque; ma anche agli altri clienti abituali non sarebbe dispiaciuto il pestaggio a sangue, in onore della volontà del mondo che deve sempre avere la meglio. I camerieri hanno cominciato a individuare un pericolo nella nostra presenza, dunque tardavano ore a portarci le ordinazioni; finché una volta ci hanno detto in faccia: “Se non vi va bene, andate da un’altra parte, che per noi è meglio”.

Per fortuna non faceva freddo e potevamo andare a spasso nella notte. Arrivavamo alle mura del quartiere Carrozze; tornavamo indietro e c: sedevamo nei giardinetti sul viale della circonvallazione dove le prostitute facevano il loro lavoro. Vagando trovavamo altri sbandati che si accodavano a far chiacchiere. Amos legava con tutti, diceva le sue battute da ridere e risultava simpatico alle compagnie occasionali. Il problema con lui era che bisognava cercare un posto per farlo bere a ogni ora. Quando poi ci lasciavamo a tarda notte, Zoffi chiedeva: “Ma cosa facciamo? Perché non scappiamo da questa città insulsa?” Amos gli rispondeva: “Es regnet!” Per dire che c’era anche lí di mezzo la volontà impersonale del mondo. Però, scoprire che uno pot°va dirsi a filo di logica: “Io non sono io del tutto, perché c’è la volontà del mondo che mi mena per il naso,” non li aveva aiutati per niente, notava Barattieri.

Zoffi aveva scoperto che siamo separati dalle cose, dagli alberi, dal cosmo, oltre che da noi stessi e dagli altri che non la pensano come noi. Però, dopo che uno ha fatto una scoperta del genere e deve passare le giornate in una tabaccheria a vendere sigarette, fiammiferi, cartoline, ciondoli, saponette, cosa fa? Si incaponisce, vuol trovare una via di fuga, con la coscienza raziocinante che gli ronza notte e giorno in testa senza smettere. Questa era la sua situazione e si vedeva dalla sua faccia, dove cominciavano a venirgli delle linee di rughe che somigliavano alle screpolature in un muro. Appena sui vent’anni, aveva già l’aria del vero eroe moderno, l’eroe dai nervi tirati che riflette in solitudine, dicendosi ormai disilluso di tutto. Per quello volevo scrivere un romanzo con lui come protagonista, ma restavo sempre fermo alla prima scena per mancanza di ispirazione, e dopo non ci sono mai riuscito.

Adesso mi torna in mente il giorno del funerale di suo padre, quando c’eravamo tutti a tenergli compagnia, e lui camminava dietro il carro del morto con aria piú rilassata del solito. Mi sembra che al funerale chiacchierasse col professor Amos; ma non ricordo bene, e la visione mi sta sfumando. Comunque dopo il funerale e la sepoltura, tutti si sono sparpagliati, il corteo s’è dissolto, la signora Giunone è partita via su una macchina che l’aspettava fuori dal cimitero. Là tra le tombe sono rimasti Zoffi e i suoi amici più stretti, Fregatti e Barattieri, il professor Amos, il sottoscritto. E siamo rimasti a vagare tra i vialetti, chiacchierando sui nostri argomenti con Amos, che ogni tanto diceva una delle sue battute da bevitore. Eravamo una compagnia di appassionati ragionatori, e ragionavamo di tutto: della vita e della morte, della realtà e dell’apparenza, del tempo e dell’eternità, ma sempre arrivando a conclusioni che si capivano poco. Rivedo il nostro gruppo mentre costeggia le file di tombe o cappelle di famiglia, con tanto di nomi e frasi onorifiche per i sepolti, tutte scritte a lettere d’oro. Zoffi era lungo e magro, Barattieri piú grasso, Fregatti medio e già calvo in giovane età. Amos grassoccio e sbrindellato. Io un quindicenne con l’aria confusa. Che vita! Quanti anni passati a parlare! Quante parole buttate al vento! Quanti libri letti e dimentica­ti! E poi le selve d’amore! E le nausee d’amore come quelle venute a Zoffi, caduto innamo­rato d’una sua cugina Urania. Io vorrei sapere dove sono andati a finire tutti quanti, e se siamo davvero esistiti, se è proprio questa la vita. Oppure è tutto un errore, solo dei lampi, brividi, non si sa.

 

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