Salta al contenuto principale
10 Settembre 2009 | Racconti d'autore

Vite di pascolanti

di Gianni Celati, Edizioni Nottetempo, 2006
prima puntata

A cura di Claudio Bacilieri. Lettura di Fulvio Redeghieri.

10 settembre 2009

Non un Celati “in minore”, come potrebbe far pensare lo smilzo libretto che si legge d’un fiato, ma il solito, grande Gianni Celati – infanzia e adolescenza ferraresi, cattedra di letteratura angloamericana a Bologna – esperto di “disincanto”. Protagonisti dei tre racconti vincitori del Premio Viareggio 2006 – sono alcuni studenti liceali che ‘pascolano’ nelle ore notturne per la loro città di provincia, discutendo di filosofia, di letteratura e di sesso. Le donne sono oggetto di un desiderio insieme timido e spericolato, il pensiero di una ruminazione infinita, preludio al successo o al disastro, come nella vita.

Vite di pascolanti

In quel momento di evoluzione della sua vita il più grande amico di Pucci era Bordignoni. E Bordignoni che gli ha ispirato la famosa con­statazione che quando uno nasce gli è già suc­cessa la quota quasi totale di quello che deve succedergli. Questo si capiva bene guardando Bordígnoni che era grosso dappertutto, e aveva i denti grossi, la fronte grossa, il naso grosso, gli occhi grossi, le mani grosse, i piedi come due badili, il collo che non si distingueva dalle spalle da tanto che era grosso. Poi aveva le palpebre calate sempre a metà occhio, che non riusciva a vedere il cielo, Bordignoní. Non riesco a immaginare perché volesse anda­re anche lui a casa della Veratti. Forse era sempre per via dei sorrisi smaglianti di buona edu­cazione, che avevano incantato molti compagni, e figuriamoci se non facevano colpo su di lui, ragazzo popolare del quartiere Mame.

I sorrisi di buona educazione scombussolavano completamente Bordignoni, essendo per lui delle novità assolute come poniamo il telefono per quelli della Papuasia. Comunque c’è andato una volta sola a casa della Veratti, perché lei lo trovava troppo grosso e non sopportava che dicesse sempre la sua esclamazione preferita, ogni volta che qualcosa colpiva la sua immaginazione. Il sole entrava attraverso le belle tende di lino dalle finestre di casa Veratti, e Bordignoni diceva: “Càcchioli quanto sole!” Per arrivare nella stanza del pianoforte bisognava trascinarsi i piedi nei pattini di feltro sui pavimenti incerati, e Bordignoni diceva: “Càcchioli come si scivola!” Anche ascoltando la Veratti suonare il pianoforte aveva detto: “Càcchioli come suoni bene!” Quella è stata la sua condanna e dopo Pucci doveva andarci da solo a casa della Veratti.

Nei pomeriggi Pucci e Bordignoni pascolavano per le strade, ma non sapevano mai dove andare. Andavano dove li portavano le scarpe e Pucci stava sempre zitto. Invece Bordignoni apriva la bocca, ma solo per ripetere la sua esclamazione preferita: càcchioli qui e càcchioli là, per tutto quello che vedeva in giro. Sempre così, nonostante che le palpebre calate a mezza saracinesca gli nascondessero una buona parte del panorama. Un giorno non sapevano dove andare e hanno deciso di seguire i binari del tram, per strade che uscivano dalla città, tra quartieri mai visti, giardini con grandi alberi, villette di periferia, gente in bici, camion che passano. Vanno e vanno ma i binari del tram non finivano mai e Bordignoni diceva: “Ma dove càcchioli stiamo andando?” Però non mi ricordo come sia andata a finire quell’avventura estiva.

Invece mi torna in mente una cosa che faceva sollevare le palpebre di Bordignoni più del normale, ed erano le donne con larga conformazione di petto. Qui la sua esclamazione preferita gli sgorgava dritta dal cuore: “Càcchioli, guarda quella lì che due mammelle!” Pucci aveva capito che non c’era bisogno di rispondergli per tenere in piedi le loro conversazioni: bastava trascinare le scarpe con lo stesso passo seguendo il borboglio di esclamazioni dell’amico. Pucci lo ascoltava con la stessa tranquillità che aveva ascoltando sua madre, ossia come il ronzio d’una radio che va avanti per ore e non si sa neanche di cosa stia parlando. Nelle loro camminate estive non avevano mai niente da dirsi, ma Bordignoni ogni tanto si metteva a borbogliare.

Adesso penso a quei giorni d’avvicinamento all’estate che avevano le ombre così lunghe di primo mattino, con poca gente per strada e un’aria di stanchezza dappertutto che era un piacere. Strade assolate col silenzio dei giorni vuoti, case addormentate e pacifiche allo sguardo. E il frescolino degli androni? Tra i migliori ricordi. Qualcuno passava in biciclet­ta nel sole e ti sembrava di essere all’equatore. Qualcuno stava affacciato alla finestra e subito ti veniva da sbadigliare. In quei giorni si stava bene ad essere svogliati e ronzare come le mosche nelle cucine di campagna, poi trascinare le scarpe verso nessuna meta come cani che vanno a zonzo in cerca di ossi. I pensieri si scioglievano nel moto dei piedi, e uno non si ricordava più di avere un padre e una madre, di avere una famiglia, neanche di avere un nome e un cognome.

Veniva la voglia di stendersi su un marciapiede all’ombra come i gatti, invece di far sempre gli stessi giri. Pucci e Bordignoni avevano degli itinerari che sembravano uno scarabocchio: dalla piazza centrale alla stazione e dalla stazione ai giardinetti dietro il municipio, dai giardinetti dietro il municipio al campo sportivo, dal campo sportivo al quartiere Doro e poi indietro alla stazione e alla piazza centrale. Cinque o sei ore di quel pascolo con i riflessi del sole sul selciato e il tepore dell’aria che faceva venire sonno, alla fine non avevano neanche la spinta per dirsi ciao.

Della città dove a Pucci era toccato di nascere e andare a scuola, per ora ho in mente solo i colori smorti delle case, e quegli stradelli con l’acciottolato dove andavamo in giro con le mani in tasca. La città aveva una piazza centrale con listone e portici dove la gente andava a passeggio verso sera. Molti si fermavano nel Caffè Commercio sotto i portici a bere l’aperitivo prima di cena, e in giro si conoscevano tutti, si salutavano tutti cordialmente. C’erano gli avvocati, i notai, i bancari, i cittadini emeriti, gli elegantoni, i figli di commercianti e i rampolli delle migliori famiglie, col codazzo di amici che volevano partecipare alla bella vita. Poi c’erano i semplici pascolanti come me e Pucci e Bordignoni, che c’entravano poco con quell’anda di cordialità serali.

Quando capitavamo lì, Bordignoni non riusciva neanche più a borbogliare la sua escla­mazione preferita, diventava timido e mogio con le palpebre che gli si abbassavano quasi del tutto. Si vede che i suoi sentimenti non quadravano con quel posto, né con l’arietta che spirava da quelle parti, un’arietta densa di pettegolezzi e di condanne morali che sentivamo fischiare nelle nostre orecchie. Invece si capiva che gli altri cittadini più seri erano a casa loro sulla pubblica piazza, passeggiando tranquilli sotto i portici dove si sentivano odori di rancido e l’aria sembrava tinta. Aria di tinta azzurrina per via delle lampade coperte da carta blu al soffitto dei portici, molte parole e sorrisi scambiati negli incontri, e le anime dei cittadini vagavano nell’aria tinta.

Poi di sera al passeggio sulla piazza c’era anche un altro spettacolo di un certo interesse, che però metteva Bordignoni in depressione. Si vedevano masse di belle donne che andava­no a mettere in mostra il loro personale e i loro bei vestiti, spandendo sorrisi a greggi di maschi con tanto d’occhi spalancati davanti alla femmina. Quei sorrisi sparsi dalle belle donne sulla folla dei maschi in calore, però non toccavano mai a tipi scalcagnati o sdentati o miserandi; andavano tutti a personaggi che si riconoscevano come cittadini benestanti a un chilometro di distanza. Siccome il cittadino benestante brilla di più del cittadino onesto ma non benestante, e tante volte spicca per un colorito più sano, capelli ben pettinati, la testa svelta che sembra un siluro.

Comunque, nella nostra ignoranza noi l’avevamo capito che le belle donne ci tengono a esser guardate solo da gente così: da uomini sistemati con uno stipendio che li rende contenti di stare al mondo, e magari anche con una raccomandazione dell’associazione cattolica. Mentre un ragazzo grosso e scalcagnato come Bordignoni per loro non dovrebbe neanche esistere al mondo. Infatti Bordignoni, che alzava le palpebre più del solito adocchiando una donna non bella ma con grosse mammelle, le abbassava quasi del tutto se incontrava una bella donna. Gli veniva l’avvilimento, considerando che per una bella donna lui era meno interessante d’un paracarro.

Qualche volta all’inizio dell’estate è successo che io e Pucci ci incontravamo nei nostri giri pomeridiani. Pascolavamo un po’ insieme senza aprire bocca, e di domenica incontravamo Bordignoni con quel compagno spiritato di nome Rinaldi. Con loro andavamo in un cinema del centro che sulla facciata aveva decorazioni di trombe e violini e altre cose in gesso; e questo era un teatro anziano, con velluti delle poltrone rossi stracciati, stucchi dei cornicioni che crollavano a pezzi, e sentori di cesso che arrivavano a zaffate nel loggione dove andavamo noi. Il loggione era frequentato da uomini in cerca di ragazzi da adescare, che nascosti dietro le colonne ci facevano dei sussurri: “Ehi, pss pss”. Quando passavamo loro dicevano frasi in bisbiglio per chiamarci nei cessi: “Pss pss, ragazzo, ascolta una cosa, vieni qui”. Qualche volta vedevamo dei tizi della malavita sfidarsi a coltellate nell’ombra, oppure dei poliziotti che trascinavano via qualcuno, mentre il film andava avanti e molti spettatori non si accorgevano di niente.

Dei film che vedevamo, i più interessanti erano quelli comici, e dopo venivano quelli con eroi delinquenziali che finiscono in galera oppure morti. “Ex operis eorum cognoscetis eos” diceva l’apostolo Matteo. Infatti il delinquente che se ne frega dell’ordine morale e civile, poi va in galera o ai lavori forzati, rivela molto più nerbo dell’eroe felice che si sposa con una bella donna e vive da signore. I film con quegli eroi felici che sposano sempre una bella donna erano tutti insulsi. Bordignoni brontolava: “Càcchioli che roba da chiodi!’, e dopo venivamo fuori dal cinema con le mani in tasca, pensando se è mai possibile che esista gente così noiosa che gli va sempre bene tutto. Lo spiritato Rinaldi diceva che esiste solo in America.

Adesso con la penna che scivola sul foglio spuntano tanti fatti che vengono su da una palude di cose dimenticate, portando a galla posti e persone che devono esserci stati da qualche parte sotto il cielo. Come quelli che ogni sera si presentavano al passeggio sulla pubblica piazza, sempre puntuali all’appuntamento, tutti ben vestiti per la cerimonia degli incontri sociali, animati da spirito civico a più non posso. Rivedo le giacche e i paltò confezionati dal sarto Masi, i cappelli comprati dal cappellaio Zaniboni-Forti, gli impermeabili importati dal negoziante Paci, le scarpe eleganti in vendita nella calzoleria Del Pane; e rivedo quelli che arrivavano in piazza, ognuno con il suo bel vestito, il suo cappello, le scarpe nuove, solo perché tutta la vita portava a quell’eterno crepuscolo d’incontri. Naturalmente con il giro delle stagioni arrivavano le nuove leve, gli squadroni dei nuovi rampolli della nostra scuola e della città; e ognuno arrivava all’appuntamento convinto che il mondo non aspettasse altro che lui, oppure stizzito se gli sembrava che aspettasse un altro invece che lui. Ognuno per trenta o quarant’anni là a mostrare i suoi vestiti, a fare i suoi confronti, i suoi commenti, e poi via, passato ad altre cose eterne.

 

Brano corrente

Brano corrente

Playlist

Programmi